C’era una volta Sanremo, festival della canzone nazional-popolare italiana, un po’ (tanto) strapaese, ma sicuramente con un certo tasso di genuinità che in qualche modo bilanciava le schifezze che già allora lo caratterizzavano. La selezione, infatti, avveniva allora (come adesso) su basi ideologiche oltre che, naturalmente, economiche, clientelari e/o nepotistiche: chi era amico di questo o di quello (produttore televisivo o cinematografico, leader politico, cardinale ecc.) o faceva parte di questa o quella cordata poteva aspirare a partecipare o addirittura ad arrivare tra i finalisti.
Le canzoni presentate, così come i cantanti, dovevano rispettare determinati clichè, non potevano urtare il comune senso del pudore né tanto meno la “sensibilità” delle gerarchie vaticane, e dovevano avere quelle caratteristiche (testi e orecchiabilità…) sufficienti per renderle appetibili al grande pubblico e vincenti sul mercato. Nonostante questa dura e anche spietata selezione che ovviamente impediva a questo o quel cantautore di valore ma non in linea con lo “spirito dei tempi” dell’epoca di poter aspirare se non a vincere quanto meno ad arrivare tra i finalisti, va riconosciuto che il festival fu in grado di produrre e accogliere anche della buona musica e non solo canzonette. Ed è così che cantanti come Orietta Berti, Iva Zanicchi, Mino Reitano o Al Bano si alternavano ad altri ed altre di ben maggior peso e qualità e per palati più fini come Luigi Tenco, Mina, Gino Paoli, Modugno e tanti altri.
Questo era il Festival di Sanremo negli anni ’60 e ’70 (che di lì a poco tempo si avviava a cambiare…), in quell’Italia democristiana (ma anche comunista e socialista), provinciale, un po’ (parecchio) bacchettona, piccolissimo borghese e popolare. Se vogliamo, il Festival – così come la musica italiana – parlava, descriveva e rappresentava quell’Italia lì che quelli come me allora contestavano radicalmente (come oggi) ma alla quale, in fondo, volevano bene, perché ne riconoscevano, appunto, quella parte di autenticità, pur nelle sue contraddizioni e nelle sue schifezze (la commistione tra mafia e politica, e di lì a poco la strategia della tensione, le bombe sui treni, Gladio, la P2, le ingerenze straniere).
Ma i tempi cambiano – insieme ai contesti sociali e culturali – e ovviamente anche e soprattutto il Festival nazional popolare per eccellenza non poteva fare eccezione.
Ed eccoci ai giorni nostri dove il Festival è stato sostanzialmente trasformato in una kermesse femminista e politicamente corretta. Il la, come si suole dire, lo ha dato (non so neanche quanto involontariamente, a questo punto…) il presentatore Amadeus, con quella sciocca quanto innocua battuta sulla fidanzata di Valentino Rossi che ovviamente ha dato fuoco alle polveri. Interrogazioni parlamentari, pressioni di ogni genere che hanno obbligato l’ad della RAI, Fabrizio Salini, al mea culpa.
Conosco Salini da una vita per ragioni personali (non posso certo definirlo un amico della primissima fascia, come si suol dire, però ci siamo frequentati per tanto tempo) e so perfettamente che è distante dalle liturgie del politically correct forse quanto lo sono io. Eppure anche lui, top manager, uomo di potere (originariamente di formazione socialista anche se si è presto allontanato dalla politica per dedicarsi interamente alla carriera nel mondo dei media e della comunicazione), è stato costretto a genuflettersi allo “spirito dei tempi” e a chiedere scusa pubblicamente per quell’uscita di Amadeus https://www.open.online/2020/02/02/sanremo-ad-salini-frase-amadeus-inappropriata-chiediamo-scusa-per-errore-commesso/
Sia chiaro, “costretto” nel senso che essendo un uomo di potere e in carriera è obbligato – se vuole restare tale – ad obbedire a determinati diktat. Potrebbe scegliere di non farlo ma in quel caso sarebbe stato un’altra persona, avrebbe fatto altre scelte e non si troverebbe ad occupare la posizione che occupa. Del resto è ben pagato per mettere a tacere la sua coscienza (ma forse non gli pesa più di tanto…). In ogni caso, ciò che mi interessa ora non è la sua vicenda personale (ciascuno risponde a sé stesso di quello che fa e che sceglie di essere nella vita…) ma quanto accaduto.
In apertura del Festival il monologo di Rula Jebreal, consigliera del Presidente francese Macron, la quale non poteva che parlare della violenza subita dalle donne, naturalmente da parte degli uomini
https://www.iodonna.it/spettacoli/tv/2020/02/05/rula-jebreal-sul-palco-del-festival-comera-vestita-mia-madre-stuprata-si-e-uccisa-per-questa-domanda/
Ovviamente si dà per scontato che la violenza è maschile, solo maschile, nient’altro che maschile, per definizione. Poteva parlare ad esempio, che so, anche della violenza sui minori (agita in parte preponderante dalle donne…) oppure, che so, visto che lei è pure palestinese, della violenza subita dal suo popolo da parte dello stato e dell’esercito israeliano (dove a sparare sui palestinesi sono soldati e soldatesse…). Ma tant’è. Del resto – diceva Voltaire – per scoprire chi ti comanda, devi capire chi è che non puoi criticare. E anche lei – come e forse più di qualsiasi ad della RAI o altri network – è ben pagata per dire quello che deve o non deve dire…
A seguire uno stuolo di ben sette cantanti – il gotha della musica italiana, cioè Emma, Giorgia, Fiorella Mannoia, Alessandra Amoroso, Laura Pausini, Elisa e Gianna Nannini – le quali, ma guarda un po’, fanno il loro outing contro la violenza maschile sulle donne e presentano il concerto per raccogliere i fondi per i centri contro la violenza (maschile) sulle donne https://www.youtube.com/watch?v=49GWcoJ4Hrw
In tutto ciò ha imperversato il rapper (o trapper…) Achille Lauro, un fighetto romano figlio di papà e di buonissima famiglia (che ha costruito la sua fama vestendo i panni del tossicodipendente, cosa che forse è stato effettivamente, e del sottoproletario, che invece non è mai stato) ormai lanciatissimo nella sua versione ultra genderista, il quale nel suo libro ci aveva già messo al corrente di ciò che pensa del genere maschile (ma lui ormai è oltre il genere, quindi il problema per lui non si pone…). Cito testualmente:” «Cinquantenni disgustosi, maschi omofobi. Ho avuto a che fare per anni con ‘sta gente volgare per via dei miei giri. Sono cresciuto con ‘sto schifo. Anche gli ambienti trap mi suscitano un certo disagio: l’aria densa di finto testosterone, il linguaggio tribale costruito, anaffettivo nei confronti del femminile e in generale l’immagine di donna oggetto con cui sono cresciuto. Sono allergico ai modi maschili, ignoranti con cui sono cresciuto. Allora indossare capi di abbigliamento femminili, oltre che il trucco, la confusione di generi è il mio modo di dissentire e ribadire il mio anarchismo, di rifiutare le convenzioni da cui poi si genera discriminazione e violenza. Sono fatto così mi metto quel che voglio e mi piace: la pelliccia, la pochette, gli occhiali glitterati sono da femmina? Allora sono una femmina. Tutto qui? Io voglio essere mortalmente contagiato dalla femminilità, che per me significa delicatezza, eleganza, candore”.
Non pago, il trapper ha scelto di vestirsi, per l’occasione, come la regina Elisabetta I Tudor, colpito dalla sua indipendenza e dalla sua libertà. Merita (si fa per dire…) anche in questo caso citare le parole di questo giovane “rivoluzionario”:” Sono stato molto colpito dalla sua indipendenza, di cui aveva fatto un vero e proprio baluardo. Mi è parso il personaggio più adatto per chiudere la serie di performance con cui, in queste sere, ho unito personaggi che in modi diversi mi hanno ispirato attraverso modalità altrettanto differenti di esprimere e vivere la libertà.
Elisabetta I è riuscita a fregarsene, a tener testa agli uomini con cui si confrontava: lo faceva anche attraverso il suo aspetto, indossando abiti larghi sulle spalle, per rendere la propria fisicità imponente quanto la propria personalità e per non essere mai inferiore ai propri interlocutori maschili” https://www.ansa.it/sanremo_2020/notizie/look_stravaganze/2020/02/08/sanremo-achille-lauro-stasera-e-elisabetta-i_2ebae4cf-6b10-460b-a532-d50d14165be0.html
Del tutto irrilevante, naturalmente, che Elisabetta I sia stata la prima grande colonialista e imperialista dell’era moderna, seconda (solo in termini temporali), forse, solo ai reali di Spagna, e regina di un impero che già allora saccheggiava, depredava, torturava e massacrava in giro per il mondo. Ma questi sono dettagli per il “nostro” perché ciò che conta è che Elisabetta I fosse una donna e quindi le si perdona tutto, per definizione…
In chiusura, la “benedizione” della banda dei Carabinieri che ha eseguito l’inno di Mameli davanti ad un pubblico di vip selezionatissimo e plaudente. Del resto, se al Gay Pride di Londra la flotta aerea di sua maestà britannica – la stessa che bombarda, per ragioni umanitarie, s’intende, gli “stati canaglia” – ha sfrecciato con i colori arcobaleno del movimento lgbt, non si capisce perché la banda dei Carabinieri non dovrebbe suonare l’inno nazionale al Festival di Sanremo in versione politically correct. D’altronde, i tempi cambiano, o no? E bisogna adeguarsi per non restare indietro.
E così, dopo il Primo Maggio, Giornata di lotta Internazionale e Internazionalista, trasformata anch’essa in kermesse mediatica politically correct, si sono fottuti anche il Festival di Sanremo. Ma era inevitabile.
Fonte foto: Huffington Post (da Google)