A seguire il dibattito relativo all’introduzione del salario minimo orario l’impressione che ho ricevuto è che tutto il confronto mirasse, da parte di entrambi gli schieramenti politici, a mettere delle bandierine invece che affrontare in concreto la questione salariale ferma al palo da anni. Secondo alcune stime il salario degli italiani è fermo agli anni ‘90 ed è l’unico Paese UE nel quale il salario non è cresciuto. Altro che avremmo lavorato un giorno in meno e guadagnato di più. La mancata crescita dei salari è la conseguente crescente povertà sono la conclusione delle politiche economiche di liberalizzazione che avrebbero dovuto far crescere l’Italia.
Ciò premesso ho letto il documento che, su richiesta del Governo, il CNEL ha presentato circa l’introduzione del salario minimo con legge dello stato. Non è la prima volta che il CNEL viene interrogato sul tema. Lo stesso “ Comitato” prende le mosse facendo riferimento ai precedenti pareri che sul tema è stato chiamato ad esprimere. La questione salario “non è tema da affrontare in modo semplicistico “; come evidenzia lo stesso CNEL va affrontata secondo una visione d’insieme che tenga conto di tutte le componenti economiche e sociali e di come “vada legato alla più generale questione salariale e al nodo della produttività”.
L’analisi della relazione approvata dal CNEL prende le mosse dalla tanto invocata Direttiva (UE) 2022/2041 del Parlamento europeo che, secondo alcuni, prevede l’introduzione obbligatoria del salario minimo orario. Prima di passare ad analizzare il contenuto della Direttiva è opportuno soffermarsi sui dati pubblicati da UNIPRESA, verificabili anche sul sito EUROSTAT, dai quali risulta che la media salariale mensile degli Stati UE è di 924 €, il salario orario più basso è in Bulgaria con 1,62 € l’ora, il più alto è quello del Lussemburgo pari a 11,97 euro . In Francia il salario minimo orario è di 10,03 €, in Germania di 9,19 euro, in Belgio 9,41 €, Spagna 6,09 e UK di 9,54. Dei 27 Paesi UE, 21 hanno il salario minimo orario previsto per legge, in sei , Danimarca, Italia, Cipro , Austria, Finlandia e Svezia il salario minimo è fornito esclusivamente dalla contrattazione collettiva. A parte Cipro, poco sotto la Spagna, gli altri Paesi menzionati hanno tutti un salario di gran lunga superiore a quello medio italiano. Stando a ricerche condotte da Openpolis l’Italia è l’unico paese europeo in cui i salari sono diminuiti rispetto al 1990. Studio pubblicato il 13 ottobre 2021 e non penso che da allora le condizioni siano migliorate. Il dato italiano è l’unico in controtendenza. Nei Paesi baltici è addirittura triplicato, in Slovacchia e Ungheria raddoppiato e se ne capiscono anche le ragioni. Questi Paesi partivano da salari talmente bassi che gli aiuti UE, dando uno scossone a quelle economie, hanno prodotto la crescita dei salari. A leggere questi dati più che il salario minimo previsto per legge mi viene da dire che la soluzione sarebbe quella di introdurre il modello di contrattazione tra le parti previsto in Danimarca e in Svezia.
Analizzando la Direttiva Comunitaria vediamo quali sono i passaggi fondamentali partendo dall’art. 1 Oggetto e ambito di applicazione, al comma 2 recita “ La presente direttiva fa salvo il pieno rispetto dell’autonomia delle parti sociali, nonché il loro diritto a negoziare e concludere contratti collettivi. Al comma 4 “ L’ applicazione della presente direttiva è pienamente conforme al diritto di contrattazione collettiva. Nessuna disposizione della presente direttiva può essere interpretata in modo tale da imporre a qualsiasi Stato membro : a) l’obbligo di introdurre un salario minimo legale, laddove la formazione dei salari sia garantita esclusivamente mediante contratti collettivi, o b)l’obbligo di dichiarare un contratto collettivo universalmente applicabile”.
Passiamo all’articolo 4 comma 2 “ Inoltre , ogni Stato membro, qualora il tasso di copertura della contrattazione collettiva sia inferiore a una soglia dell’80%, prevede un quadro di condizioni favorevoli alla contrattazione collettiva, per legge a seguito della consultazione delle parti sociali o mediante un accordo con queste ultime. Tale Stato membro definisce altresì un piano d’azione per promuovere la contrattazione collettiva. Lo stato membro definisce tale piano d’azione previa consultazione delle parti sociali o mediante un accordo con queste ultime o, a seguito di una richiesta congiunta delle parti sociali, come da esse concordato. Il piano d’azione stabilisce un calendario chiaro e misure concrete per aumentare progressivamente il tasso di copertura della contrattazione collettiva, nel pieno rispetto dell’autonomia delle parti sociali. Lo Stato membro riesamina il suo piano d’azione periodicamente, e lo aggiorna se necessario. Qualora lo Stato membro aggiorni il suo piano d’azione, ciò avviene previa consultazione delle parti sociali o mediante un accordo con queste ultime o, a seguito di una richiesta congiunta delle parti sociali, come da esse concordato. In ogni caso, tale piano d’azione è sottoposto a riesame almeno ogni cinque anni. Il piano d’azione e gli eventuali aggiornamenti sono resi pubblici e notificati alla Commissione”.
Per gli Stati UE con una soglia di copertura inferiore all’80% la Direttiva UE prevede l’istituzione “ delle necessarie procedure per la determinazione e l’aggiornamento dei salari minimi legali” (art. 5 comma 1) . A fini di determinare il salario minimo vengono individuati criteri nazionali e indicatori internazionali. Criteri nazionali di riferimento sono: a) il potere d’acquisto dei salari minimi legali tenuto conto del costo della vita; b) il livello generale dei salari e la loro distribuzione; c) il tasso di crescita dei salari; d) i livelli e l’andamento nazionale a lungo termine della produttività. Per quanto riguarda gli indicatori utilizzati comunemente a livello internazionale, ai fini della definizione dal salario minimo sono: il 60% del salario lordo mediano e il 50% del salario lordo medio. In aggiunta ai criteri richiamati “ Gli stati membri garantiscono che i salari minimi legali siano aggiornati periodicamente e tempestivamente almeno ogni due anni o, per gli Stati membri che ricorrono a un meccanismo di indicizzazione automatica di cui al paragrafo 3 dell’art. 5 ( Direttiva UE) almeno ogni quattro anni.
Al netto di quanto stabilisce la Direttiva UE l’aggiornamento dei salari, perché questo è il tema, è stato affrontato nei Paesi UE sempre all’insegna della contrattazioni tra le parti. Sulla relazione che intercorre tra CCNL e indicizzazione del costo della vita le soluzione adottate nei vari paesi che compongono l’U.E. si differenziano tra di loro. Alcuni hanno introdotto adeguamenti automatici altri legano l’adeguamento ai CCNL. A tal proposito faccio riferimento al Bollettino ADAPT del 25 settembre 2023 n. 32 curato dal dott. Francesco Lombardo assegnista presso l’Università di Modena e Reggio Emilia. Nel commentare i dati riportati in un recente working paper di Eurofound il dott. Francesco Lombardi evidenzia come l’indicizzazione in Italia è stata eliminata nel 1992, altri Paesi come Belgio, Spagna, Cipro, Lussemburgo, Malta e Slovenia hanno eliminato un tale meccanismo nel 2008 con esclusione di Cipro e Lussemburgo. Il paper Eurofound mostra comunque un sistema di adeguamento del salario all’aumento del costo della vita legato all’inflazione abbastanza variegato. Austria, Germania e Slovenia prevedono aumenti salariali legati all’inflazione in sede di contrattazione collettiva tenendo presente l’indice di inflazione. In altri paesi come Spagna e Francia ad esempio i contratti collettivi prevedono meccanismi per recuperare il potere d’acquisto ex post. Anche in Italia ci sono CCNL che individuano criteri di indicizzazione del salario rispetto al potere d’acquisto. Strumenti adottati da alcuni Paesi sono bonus che affrontano la questione in via temporanea, tali provvedimenti non sono strutturali per cui possono essere revocati al mutare del contesto che li ha determinati.
Ritornando ad analizzare la Direttiva (UE) 2022/2041 del 19 ottobre 20220 il punto (25) delle “Considerazioni” riporta quanto di seguito << Gli Stati membri caratterizzati da un’elevata copertura della contrattazione collettiva tendono ad avere una piccola percentuale di lavoratori a basso salario e salari minimi elevati. Gli Stati membri con una base percentuale di lavoratori a basso salario mostrano un tasso di copertura della contrattazione collettiva superiore all’80% . Analogamente, la maggior parte degli Stati membri che presentano salari minimi di livello elevato rispetto al salario medio sono caratterizzati da una copertura della contrattazione collettiva superiore all’80%. Pertanto, ciascuno Stato membro con un tasso di copertura della contrattazione collettiva inferiore all’80% dovrebbe adottare misure volte a rafforzare tale contrattazione collettiva al fine di aumentare progressivamente il tasso di copertura della contrattazione collettiva (…)>> In sostanza l’indicazione che emerge in modo incontrovertibile dalla Direttiva dell’U.E. è la centralità della contrattazione tra le parti sociali e lo stesso intervento dei Governi non deve prescindere dalla negoziazione delle parti sociali. La pratica che emerge è quella della “concertazione” tra le parti sociali. Una tale impostazione è propria dello spirito che anima la costruzione dell’Unione Europea quanto nel Trattato Istitutivo fa esplicito riferimento all’economia sociale di mercato.
La mia impressione è che, appunto, non si voglia dire in modo chiaro e netto che i provvedimenti adottati a partire dagli anni ‘90 spacciati per riforme, ossia: modifiche al diritto del lavoro, esternalizzazioni da parte della pubblica amministrazione, un welfare state fortemente ridimensionato, rinnovi di CCNL che solo in parte si sono tradotti in aumenti salari una quota parte degli aumenti è stata indirizzata verso il welfare aziendale, la legislazione che regolamenta gli appalti pubblici; hanno prodotto l’impoverimento di larghe masse di lavoratori. Se non fosse chiaro il problema dei salari bassi non riguarda solo coloro che sono sotto la soglia dei 9€ l’ora ma anche milioni di lavoratori che sono al di sopra di quella soglia. Non a caso La relazione del CNEL evidenzia come il salario è legato al numero di mensilità percepite, a quante giornate l’anno si lavora e di come negli ultimi anni, a seguito dei rinnovi contrattuali la struttura della retribuzione sia cambiata. Scrive il CNEL << Negli ultimi decenni le stesse parti sociali hanno concentrato, specie in alcuni comparti, le risorse dei rinnovi contrattuali sempre meno sul minimo tabellare, quale elemento di misurazione della professionalità rispetto alle scale retributive, per introdurre nuove forme di distribuzione del valore economico del contratto in direzione della valorizzazione della produttività, della flessibilità organizzativa , del welfare contrattuale e della bilateralità. >> Per essere chiaro fino in fondo se il salario percepito fosse solo quello indicato nelle tabelle retributive allegate ai CCNL le condizioni materiali di milioni di lavoratori sarebbero anche peggio di quelle attuali. Quota parte del salario percepito riviene dagli accordi di secondo livello, premi di produttività, flessibilità , plurimansioni, lavoro straordinario ecc. Di fatto siamo in presenza di vere e proprie “ gabbie salariali” nel senso che al netto di quanto fissato dai CCNL molto dipende dal settore in cui si è impiegati , dall’azienda e in quale regione si lavora. Stando sempre alla relazione del CNEL criticità sono presenti in settori quali: lavoro agricolo, lavoro domestico, multiservizi e lavoro di attesa. Nel settore del sommerso quali turismo, pubblici esercizi, logistica, nel lavoro sportivo, culturale, artistico, nelle attività di cura e assistenza alla persona rese in forma organizzata, negli appalti di servizio. Sono settori di attività lavorativa che rappresentano una vera e propria zona grigia emersa durante la crisi pandemica quando si è scoperto che i provvedimenti a sostegno del reddito introdotti dal Governo Conte II erano insufficienti. Nei settori sopra citati incidono molto la miriade di contratti per così dire atipici, il numero impressionante di lavoratori a partita IVA a tutti gli effetti dipendenti i quali percepiscono salari da fame e che non vengono tenuti in considerazione . Questa è un’area fatta di sommerso, di evasione e di elusione fiscale dove datore di lavoro e prestatore di lavoro trovano il punto di convergenza rispetto alle criticità prodotte da decenni di riforme e di politiche economiche di austerità proprio nell’evasione e nell’elusione fiscale. La Direttiva UE , a differenza di quanto non ha fatto il legislatore italiano pone l’accento sul definizione di lavoratore dipendente sottolineando al punto 21 << Il falso lavoro autonomo ricorre quando i lavoratori, al fine di evitare taluni obblighi giuridici o fiscali, sono formalmente dichiarati come lavoratori autonomi pur soddisfacendo tutti i criteri che caratterizzano un rapporto di lavoro. ( n.d.r. in Italia le partite IVA si attestano intorno ai 4 milioni , in Germania con 83 milioni di abitanti ha solo 1 milione di partite IVA). E’ opportuno che la determinazione dell’esistenza di un rapporto di lavoro si fondi sui fatti correlati all’effettiva prestazione di lavoro e non sul modo in cui le parti descrivono il rapporto.>>. La Direttiva (UE) 2022/2041 come abbiamo visto fissa dei criteri nel caso in cui la contrattazione copra meno dell’80% dei lavoratori e si voglia fissare per legge il salario minimo orario , se venisse adottato il criterio indicato dalla Direttiva UE , l’Istat stima in €7,10 il 50% del salario medio e in € 6,85% il 60% del salario mediano. Essendo questi dati riferiti al 2019 non è da escludere che oggi possano essere maggiori per sottolineare che la battaglia politica chiamando in causa da Direttiva UE è debole.
Su altre questioni la Direttiva UE andrebbe chiamata in causa perchè pone temi rilevanti contribuendo ad individuare le ragioni di sistema per le quali i salari in Italia sono fermi agli anni 90. Uno dei temi come già accennato in precedenza riguarda le gara di appalto attraverso le quali il pubblico acquista forniture e servizi sul mercato. Sul punto che riguarda la normativa che regolamento gli appalti pubblici la Direttiva U.E. chiamata in causa è fini troppo chiara. Il punto 31 delle “considerazioni” riporta << L’attuazione efficace della tutela garantita dal salario , introdotta da disposizioni giuridiche o fornita da contratti collettivi, è fondamentale nell’aggiudicazione e nell’esecuzione di appalti pubblici e contratti di concessione. Il mancato rispetto dei contratti collettivi che prevedono la tutela garantita dal salario minimo può effettivamente verificarsi nell’esecuzione di tali contratti o nella successiva catena di subappalto, ( n.d.r. con il nuovo codice degli appalti è stato introdotto il subappalto del subappalto)facendo si che i lavoratori ricevano una retribuzione inferiore al livello salariale concordato nei contratti collettivi di settore. Per evitare tali situazioni, conformemente agli articolo 30, paragrafo 3, e 42, paragrafo 1, della direttiva 2014/23/UE, agli articoli 18, paragrafo 2, e 71, paragrafo 1, della direttiva 2014/24/UE, e agli articoli 36, paragrafo 2, e 88, paragrafo 1, della direttiva 2014/25/UE del Parlamento europeo e dal Consiglio , le amministrazioni aggiudicatrici o gli enti aggiudicatori degli appalti pubblici devono adottare misure adeguate, inclusa la possibilità di introdurre i salari determinati dai contratti collettivi per il settore e l’area geografica pertinenti e rispettano i diritti dei lavoratori e dei sindacati derivanti dalle convenzioni dell’OIL n. 87 del 1948 sulla libertà sindacale e la protezione del diritto sindacale e n. 98 del 1949 sul diritto di organizzazione e di contrattazione collettiva, come indicato in tali direttive, al fine di rispettare gli obblighi applicabili in materia di diritto del lavoro. Tuttavia, la presente direttiva non crea alcun obbligo supplementare in relazione a tali direttive>> . Passaggio questo fondamentale al fine di comprendere le dinamiche salariali in corso a seguito della introduzione di massicce dosi di precarizzazione e flessibilizzazione del lavoro con la “mazzata” finale data dal Jobs Act.
Sempre sul tema del salario giorni fa la Cassazione è intervenuta con diverse sentenze richiamando il dettato costituzionale. La Corte di Cassazione con Sentenza n. 27713 del 2 ottobre 2023 nell’accogliere il ricorso del lavoratore ha sancito che il giudice dovrà attenersi ai seguenti principi<<Nell’attuazione dell’art. 36 della Costituzione il giudice, in via preliminare, deve fare riferimento, quali parametri di commisurazione, alla retribuzione stabilita nella contrattazione collettiva nazionale di categoria, dalla quale può discostarsi, anche ex officio, quando la stessa entri in contrasto con i criteri normativi di proporzionalità e sufficienza della retribuzione dettati dall’art. 36 Cost., anche se il rinvio alla contrattazione collettiva applicabile al caso concreto sia contemplato in una legge, di cui il giudice è tenuto a dare una interpretazione costituzionalmente orientata – Ai fini della determinazione del giusto salario minimo costituzionale il giudice può servirsi a fini parametrici del trattamento retributivo stabilito in altri contratti collettivi di settori affini o per mansioni analoghe. – Nella opera di verifica della retribuzione minima adeguata ex art. 36 Cost. il giudice , nell’ambito dei propri poteri ex art. 2099 , comma 2, c.c., può fare altresì riferimento, all’occorrenza, ad indicatori statistici, anche secondo quanto suggerito dalla Direttiva UE 2022/2041 del 19 ottobre 2022>>. Mi sembra che, alla luce della sopra richiamata sentenza della Cassazione, le indicazioni restano quelle della Direttiva UE le quali non prevedono nessun obbligo di introdurre il salario minimo orario per legge dando come direttiva di carattere generale la contrattazione tra le parti. Da una lettura attenta e non strumentale della Direttiva UE ciò che emerge è la necessità di introdurre una norma che regolamenti la rappresentanza sindacale e il potenziamento del CCNL per evitare trattamenti disparati da lavoratore a lavoratore, insomma altra cosa rispetto all’obbligo di introdurre il salario minimo orario con norma dello Stato. E’ mia opinione che la questione dei salari bassi non passa attraverso l’introduzione del salario minimo orario ma attraverso politiche di riforme capaci di incidere in modo forte sul sistema. In chiusura faccio solo qualche esempio: il welfare aziendale non è strumento di uguaglianza sociale perché noin garantisce a tutti i cittadini lo stesso trattamento, come non sono strumento di tutela dei lavoratori le clausole sociali previste dal Codice degli appalti soprattutto se deve essere la stazione appaltante ad indicare il CCNL da applicare per non parlare degli accordi di secondo livello che possono essere unilateralmente disdetti. Come dicevo all’inizio non si tratta di piantare bandierine ma di affrontare in concreto la questione salariale ferma agli anni 90. Se le forze di opposizioni si rendessero cito dei termini reali della questione potrebbero si mietere consensi invece di restare inchiodati agli stessi risultati delle ultime elezioni politiche che le ha viste soccombenti.
Fonte foto: La Fionda (da Google)