Accingendomi alla stesura di questa nota, sfoglio con la sinistra il testo del “Decreto legge disposizioni urgenti in materia di reddito di cittadinanza e di pensioni[1]” nella sua versione (mi auguro!) «definitiva»[2]. Parlare di definitività a proposito di un Decreto legge, fonte provvisoria per natura, è senz’altro inappropriato, ma fra i lasciti del renzismo annoveriamo il proliferare di bozze testuali che si inseguono e si sovrappongono, complicando la vita già di per sé dura dell’interprete, alle prese con norme scritte sempre peggio e raramente intelligibili: l’istituto oggetto d’analisi dovrebbe comunque avere oramai acquisito una sua precisa fisionomia, ed eventuali future modifiche sarebbero cosmesi normativa.
Un paio di settimane fa, su La7, il giornalista Massimo Giannini ha parlato, a proposito del provvedimento, di “cambio di paradigma”, riconoscendo ai pentastellati il merito di aver mantenuto le loro promesse elettorali (cosa che in Italia non è avvenuta praticamente mai nell’ultimo trentennio!). Pur nutrendo seri dubbi sul carattere più o meno rivoluzionario della misura non posso non apprezzare l’onestà intellettuale esibita da Giannini, che pochi emuli ha trovato a «sinistra»: per PD e affiliati il reddito è da buttare (lo stesso vale ovviamente per quota 100, cui nuoce a parer mio l’infelice formula «pensionamento anticipato» contenuta in premessa, che la qualifica come eccezione alla regola, restringendone anche sul piano lessicale la portata innovativa).
Intendiamoci: un socialista o un comunista avrebbero parecchio da ridire sulla filosofia che sta alla base della manovra, poiché essa prevede un sostegno statale che è benevola ma condizionata concessione ai bisognosi anziché riconoscere un pieno diritto al lavoro a cittadini in temporanea, incolpevole difficoltà – e tutti i richiami in premessa al «lavoro» non scalfiscono l’impressione che il reddito sia in fondo un paternalistico aiuto dall’alto. Il PD[3] e i suoi propagandisti si guardano bene, tuttavia, dal contestare l’impostazione generale del reddito proponendo alternative più rispettose della dignità individuale: al contrario, prigionieri di una logica sfacciatamente neoliberista, condannano come eretica l’idea stessa di un soccorso pubblico ai poveri, descritti come sfaccendati, incapaci e – in sostanza – come persone meritevoli del proprio status di emarginati. La compiaciuta e infelicissima battuta di un’ex ministra che richiama un successo sanremese dello scorso anno fa il paio con i sarcasmi inaugurati dal suo mentore (uno, tra l’altro, che prima di impiegarsi in politica ha fatto di mestiere il figlio del padrone…) sui “frequentatori di divani[4]”: tutte queste prese di posizione, culminate nell’ipotesi di raccogliere le firme per un referendum abrogativo, denotano un disprezzo di classe che, se il termine non fosse abusato, potremmo assimilare al «razzismo».
Il fatto che i portavoce partitici della classe privilegiata assumano un atteggiamento preconcetto, oltre che odioso, e muovano impudenti obiezioni di «assistenzialismo» (proprio loro, che con tanto servile fervore assistono finanzieri e multinazionali!) non deve tuttavia condurci a difendere il reddito di cittadinanza per partito preso. Al di là della visione del mondo che esso esprime (che non è quella di chi scrive), sono proprio le concrete modalità di realizzazione a non persuadere: al vizio di base si accompagnano puntuali e gravi difetti che forse derivano dal primo e forse no, ma corroborano comunque l’opinione che il cambio di paradigma sia soltanto immaginario e che lo Stato sociale resuscitato da Di Maio&co. sia tutt’al più uno zombie.
Non essendo io un piddino dalle incrollabili, aprioristiche certezze (destrorse) sono umilmente partito dalla lettura del dettato normativo, di certo non facilitata dall’abituale farraginosità delle formule impiegate.
Proviamo a riassumere la disciplina contenuta negli articoli che vanno dall’1 al 10: il Reddito di cittadinanza (acronimo: Rdc), il cui avvio è previsto per aprile, è una misura di contrasto alla povertà che, in quanto «unica[5]», sostituisce quelle preesistenti – unica ma fino a un certo punto, visto che vanta un “gemello” nella c.d. Pensione di cittadinanza, destinata agli ultrasessantasettenni[6] che versano in condizioni identiche ai destinatari del primo. Costoro sono cittadini italiani (o di Paesi dell’UE ovvero firmatari di convenzioni bilaterali con l’Italia) oppure stranieri altri residenti nel nostro Paese da almeno un decennio che combinino un ISEE modesto (inferiore ai fatidici 9.360 euro), un patrimonio immobiliare non superiore ai 30 mila euro al netto della casa di eventuale proprietà, un ristretto patrimonio mobiliare e un reddito non eccedente i limiti di cui all’art. 2, co. 1, lett. b). La disoccupazione non è a stretto rigore indicata come requisito, ma il diritto al RdC – evidentemente compatibile con i c.d. mini jobs o con prestazioni occasionali – viene meno, oltre che per i detenuti e i ricoverati in istituti et similia con retta a totale carico dello Stato, anche per quanti nei dodici mesi precedenti si siano dimessi dall’impiego in mancanza di giusta causa.
L’ammontare del beneficio è fissato dal successivo articolo 3: per chi fa nucleo familiare a sé l’integrazione può arrivare fino ai 500 euro mensili (erogati in toto se il reddito è 0), cui si aggiungono 280 euro a copertura forfetaria della spesa per il canone di locazione, se il beneficiario è privo di casa di proprietà, oppure 150 euro se la persona ha contratto un mutuo per l’acquisto dell’abitazione. Il medesimo tetto di 9.360 euro annui si applica pure alle Pensioni di cittadinanza, ma una differenza si coglie sotto l’aspetto della durata, che per i pensionati non conosce limiti mentre per gli altri beneficiari è fissata a 18 mesi, comunque rinnovabili (p.c.d. all’infinito) dopo un mese di pausa. Se il nucleo familiare è composto da più soggetti – maggiorenni o minorenni che siano – la sola voce integrativa aumenta, ma in misura regressiva: gli adulti in aggiunta al primo riceveranno un massimo di 200 euro mensili, mentre i minori dovranno accontentarsi di 100 euro. Il totale non può comunque eccedere i 1.050 euro al mese (più l’eventuale contributo affitto o mutuo) indipendentemente dal numero dei membri della famiglia. Il citato articolo 3 prevede l’ipotesi di una variazione occupazionale in corso d’anno, introducendo un complesso meccanismo di ricalcolo/adeguamento, e quella di una modifica quantitativa del nucleo familiare. L’erogazione del beneficio (art. 5), non tesaurizzabile, avviene per il tramite di una carta Rdc prepagata, impiegabile anche come bancomat fino a un prelievo massimo di 100 euro mensili (per singolo individuo); all’utilizzatore sono inoltre estese “le agevolazioni relative alle tariffe elettriche (…) e quelle relative alla compensazione per la fornitura di gas naturale” (co. 7).
Cosa richiede in cambio lo Stato al percettore del Rdc? Esaminiamo l’articolo 4, che consta di ben 15 commi: i componenti maggiorenni del nucleo familiare devono sottoscrivere una dichiarazione di “immediata disponibilità al lavoro”, frequentare – se disoccupati – corsi formativi finalizzati all’inserimento (o al reinserimento) lavorativo e mettersi a disposizione dei Comuni di residenza per non più di otto ore settimanali partecipando “a progetti utili alla collettività, in ambito culturale, sociale, artistico, ambientale, formativo e di tutela dei beni comuni”. Detti obblighi non gravano sui pensionati, sugli studenti, sui disabili, su chi già lavor(icchi)a nonché su chi risulta occupato nella cura di bimbi fino a tre anni o di familiari gravemente disabili o non autosufficienti; per gli altri scatta l’obbligo di “accettare almeno una di tre offerte di lavoro congrue” (co. 8, lett. b) n. 5). Sul concetto di «congruità» torneremo tra poco, perché il termine ci pare adoperato in maniera quantomeno impropria; per quanto concerne le sanzioni – draconiane – che dovrebbero scoraggiare comportamenti opportunistici rinviamo il lettore interessato all’articolo 7 del decreto: basti anticipare che i “furbetti del Rdc” rischiano, se scoperti, fino a 6 anni di carcere (pena un tantino eccessiva: il sospetto è che l’esibizione della “faccia feroce” serva a mascherare i dubbi nutriti dallo stesso legislatore sull’efficacia dei controlli/monitoraggi) oltre all’obbligo di restituzione delle somme indebitamente ricevute.
E’ tempo di tirare le somme, evidenziando sia gli aspetti positivi che quelli negativi della misura appena introdotta e ricordando che, come ha tenuto a sottolineare Salvini [7] in persona, essa va ascritta per intero a merito (o demerito) del M5stelle. Sotto il primo profilo notiamo che, per la prima volta in questo nuovo millennio, una forza politica di governo registra la diffusione della povertà nella popolazione italiana (quasi 1/10 della quale sopravvive in stato di indigenza) e si fa carico del problema, proponendo un rimedio non settoriale o episodico. Con tutti i suoi molti limiti (anche “ideologici”) il Rdc non è la mancetta preelettorale del sig. Renzi. Anche taluni difetti di coordinamento con altre discipline paiono facilmente rimediabili: con riferimento all’imposta sui redditi, ad esempio, la soglia massima di 9.360 euro potrebbe venir utilizzata per delimitare la c.d. no tax area, attualmente fissata a 8 mila per i lavoratori dipendenti[1]. Venendo alle singole previsioni, piace a chi scrive l’attenzione rivolta ai pensionati poveri, che sono tanti e a cui il benefit garantirà, nell’inverno dell’esistenza, un tenore di vita decente. Certo, ad avvantaggiarsi della Pensione di cittadinanza saranno anche alcuni soggetti, per lo più lavoratori autonomi, che – senza mai davvero conoscere la miseria – hanno semplicemente fatto scelte contributive di corto respiro, ma si tratta di una minoranza, e nel suo complesso la norma è pregevole. Egualmente va salutata con favore la sottrazione degli inabili al lavoro al rispetto degli obblighi connessi all’erogazione del beneficio: l’attuazione dell’articolo 38 della Costituzione è un obbligo, non un suggerimento, ma com’è noto il legislatore si distrae di frequente… Reputo assennata e opportuna la decisione di far prestare ai percettori del Rdc fino a 8 ore di lavoro settimanale a beneficio dei Comuni di residenza, cioè della rispettiva comunità: sfibrati da anni di tagli indiscriminati e divieti assunzionali gli enti acquisiranno preziose risorse suppletive che, affiancandosi allo sparuto personale in servizio, dovrebbero consentire un potenziamento dei servizi resi alla popolazione (è una soluzione tampone, ma intelligente). Da ultimo lo strumento della carta Rdc prepagata, se non innovativo, appare coerente con la logica keynesiana che ispira la misura: vista l’impossibilità oggettiva di risparmiare (il credito rimasto a fine mese va infatti perduto), il “cittadino” sarà obbligato a spendere l’intero reddito – e questo permetterà l’accesso al consumo da parte di fasce popolari che, in precedenza, ne erano sostanzialmente escluse. Che poi il moltiplicatore effettivamente si attivi è tutto da dimostrare, ma la direzione – in una società che permane capitalista – è quella giusta.
Fin qui le virtù dell’intervento, perlomeno dal punto di vista di chi scrive. I vizi però non mancano, e taluni di essi mi sembrano davvero capitali. Di alcuni i proponenti non sono affatto responsabili, discendendo da situazioni pregresse o vincoli esterni: l’inadeguatezza dei centri per l’impiego è un retaggio del passato, cui buone intenzioni di riforma non possono supplire in quattro e quattr’otto (i propositi di nuove assunzioni sono in ogni caso lodevoli), mentre la palese insufficienza delle risorse stanziate – che si traduce nella cennata penalizzazione ai danni delle famiglie numerose – è figlia del compromesso con la tecnocrazia iperliberista beffardamente definita “Europa”.
Altre storture sono però senza dubbio imputabili a chi ha ideato il meccanismo, e a parer mio portano a una valutazione complessivamente negativa. Scarsa equità, una «congruità» che pochissimo ha di congruo e, infine, un eccesso di attenzioni rivolte agli imprenditori degradano il Reddito di cittadinanza a promessa (scientemente?) non mantenuta. Esaminiamo le questioni una per volta.
Nel primo tema ci siamo già imbattuti cammin facendo: se un reddito mensile di 500 euro – al netto del bonus affitto – può essere ritenuto (appena) sufficiente per un individuo, il raddoppio della somma neanche lontanamente soddisfa le esigenze basilari di una famiglia di cinque o più persone. Anche coniuge, figli ecc. hanno bisogno di cibo, vestiti, scarpe, tessere del bus ecc. Dal punto di vista dell’equità e persino della ragionevolezza la scelta normativa appare censurabile, anche perché se il “povero” che vive per conto suo usufruisce spesso di forme di supporto esterno (in genere prestato dai genitori), le famiglie numerose sono di regola abbandonate a se stesse, non avendo in terra santi cui votarsi. Stravagante dunque che il legislatore abbia invertito le priorità, assegnando ai più bisognosi un beffardo premio di consolazione – dico beffardo perché parlare, a queste condizioni, di “povertà sconfitta” equivale a farsi gioco di centinaia di migliaia di italiani. Capisco che le risorse erano poche, ma spartirle con maggior raziocinio non era impresa impossibile…
Quella descritta è la prima pecca, ma non certo la più grave. La «congruità» così come definita dall’art. 4, co. 9, è un bizzarro nonsenso. Quand’è che un’offerta di lavoro può a ragione considerarsi congrua? Al ricorrere di due presupposti, uno qualitativo e l’altro quantitativo/economico. In sostanza: una proposta è congrua se risulta coerente con il titolo di studio e le competenze acquisite dal candidato nel corso della sua vita lavorativa. E’ assurdo pretendere che un laureato accetti un lavoro da spazzino, così come sarebbe insensato offrire un ruolo dirigenziale a chi ha la scuola dell’obbligo[2] – tralasciando gli esempi limite deve sussistere una certa equivalenza tra vecchio e nuovo lavoro. Non basta: se una persona, per potersi impiegare, acconsente a un trasferimento a centinaia di chilometri da casa anche la retribuzione deve essere adeguata, in modo da assicurarle “un’esistenza libera e dignitosa (art. 36 Cost.)”. Bisognava insomma fissare un limite minimo netto che tenesse conto, tra i fattori, anche della lontananza dal precedente luogo di residenza: partire da mille euro – cioè dal doppio del Rdc – poteva avere un senso, se non altro perché è logico che all’inserimento nel mercato del lavoro corrisponda un miglioramento della condizione economica. Di questi ragionamenti nel decreto non v’è purtroppo traccia: la congruità in versione caricaturale si riduce a una distanza chilometrica – nei primi dodici mesi il beneficiario dovrà prendere in considerazione una prima offerta entro cento km da casa sua, ma se ne arriva una seconda il raggio si espande sino a 250 km. Qualora poi si ottenga il rinnovo del beneficio (o anche entro il primo anno, una volta rifiutate due proposte) toccherà accettare la prima offerta proveniente da qualsiasi parte del territorio nazionale, anche se economicamente e professionalmente poco vantaggiosa: la proroga trimestrale dell’assegno graziosamente concessa a chi accetta “a titolo di compensazione per le spese di trasferimento sostenute (co. 10)” sarà ben magra consolazione per quanti dovranno emigrare dal Mezzogiorno a Milano o in Veneto. Teniamo conto che la maggioranza dei beneficiari del Rdc saranno ex lavoratori scarsamente specializzati: facile preconizzare che per costoro al perdurare della miseria (il fenomeno dei working poors è sempre più diffuso nell’opulento Occidente) si aggiungerà la pena dello sradicamento.
Non finisce qui: la rubrica dell’articolo 8 recita “Incentivi per l’impresa e per il lavoratore”. Chi vuole avviare una propria attività è effettivamente incoraggiato a farlo (co. 4), ma agli aspiranti prestatori va molto peggio. E’ forse un’opzione realistica, ancorché poco promettente, quella di affidarsi alle famigerate agenzie di lavoro interinale, considerata l’attuale inaffidabilità dei centri per l’impiego (art. 8, co. 12), ma tutt’altro che condivisibile mi appare la scelta di “trasferire”, in caso di assunzione, l’assegno mensile dal percettore originario al nuovo datore di lavoro, che intascherà, sotto forma di sgravio contributivo, un importo pari alla differenza tra 18 mensilità di RdC e quello già goduto dal beneficiario stesso, “non superiore a 780 euro mensili[3] e non inferiore a 5 mensilità” (se l’avviamento è stato fatto da un’agenzia, le “spoglie” saranno equamente suddivise tra i due soggetti imprenditoriali). L’agevolazione è subordinata alla realizzazione di un incremento netto del numero di dipendenti a tempo pieno e indeterminato, a meno che attraverso tali assunzioni si provveda alla sostituzione di lavoratori cessati dal servizio per pensionamento: minimo sindacale, verrebbe da chiosare, ma a suscitare scandalo è (cioè: dovrebbe essere) la seconda condizione imposta all’imprenditore, vale a dire il divieto di licenziamento del beneficiario nei primi 24 mesi, senza giusta causa o giustificato motivo. Mi spiego: dopo la cancellazione de facto dell’articolo 18 (che i 5stelle avevano proclamato di voler reintrodurre… chi l’ha rivisto?) l’impiego del licenziamento per giustificato motivo oggettivo è assurto a solida, “accettabile” prassi, ma anche a prescindere da ciò siamo al cospetto dell’introduzione di una nuova fattispecie di rapporto a tempo determinato di durata biennale, eventualmente rinnovabile a capriccio dell’imprenditore, sul quale non grava in sostanza nessun vincolo. A suo tempo avevo ottimisticamente immaginato che il Rdc fosse stato concepito come antidoto a forme smaccate di sfruttamento (riders, operatori di call-center, raccoglitori di pomodoro ecc.), togliendo a queste schifezze qualsiasi “attrattiva”, ma la norma che sanziona le dimissioni volontarie e soprattutto quella dianzi tratteggiata dipingono un quadro differente e fosco: la convenienza ad assumere i percettori del Rdc potrebbe avere un effetto depressivo sui salari in generale, nel senso che i lavoratori “normali”, per poter essere competitivi, dovranno accontentarsi di retribuzioni più basse. Insomma, il Rdc muta fisionomia in corso d’opera, e così facendo svela la sua natura autentica di sussidio di disoccupazione (almeno nella maggior parte dei casi) che aspira ad essere al contempo incentivo alle assunzioni: dubito che questo raddoppio fittizio degli stanziamenti possa produrre risultati positivi, se non altro perché, in passato, la moltiplicazione delle risorse (nel caso di specie: pani e pesci) è riuscita ad un individuo soltanto…
Come tramutare – in sede di conversione – questo pastrocchio in un Reddito di cittadinanza come si deve? In parte l’ho già detto: anzitutto sarebbe doveroso modificare i parametri della scala di equivalenza, portandolo da 0,4 (per i maggiorenni) e 0,2 (per i minori) a 0,5 per tutti: in tal modo un nucleo familiare composto da 5 persone porterebbe a casa 1.500 euro al mese. In secondo luogo bisognerebbe rivedere il concetto di «congruità», restituendogli un contenuto degno di questo nome; le distanze chilometriche andrebbero inoltre accorciate sensibilmente. Si conservino pure le tre offerte, ma stabilendo che la prima deve riguardare un impiego nella località di residenza, per la seconda prendendo a riferimento il territorio provinciale e per la terza quello regionale, fino a una distanza massima di 250 km: questo anche per evitare la completa desertificazione produttiva di zone già depresse. Infine sarebbe opportuno individuare un minimo salariale (da estendere a tutti i prestatori) ovvero, in alternativa, riservare al lavoratore neoassunto una quota residua di Rdc in maniera da consentirgli un tenore di vita dignitoso: il resto vada pure all’imprenditore, a condizione che si impegni a non licenziare (se non per giusta causa o giustificato motivo soggettivo) per almeno un lustro.
Inutile nutrire illusioni: diventando legge il Rdc potrà solamente peggiorare (è accaduto lo stesso con il c.d. Decreto Dignità). Già la sua attuale impostazione ci rivela però una verità nascosta: il costrutto normativo è sintomatico di un atteggiamento di sfiducia e sospetto nei confronti dei “poveri” che è abbastanza tipico dell’ideologia neoliberale, di cui anche i pentastellati – malgrado le loro velleità (pseudo)rivoluzionarie – risultano permeati. La cosa non sbalordisce: non basta la buona volontà per sottrarsi a quello che chiamano lo “Spirito dei tempi”. Un tanto non implica alcuna automatica equiparazione tra il M5S e gli zelanti partiti di regime: dopo anni di provvedimenti spietatamente classisti i grillini stanno tentando, fra mille difficoltà, di fare qualcosa di vantaggioso per gli ultimi. Con loro dovremo necessariamente dialogare, sia pur partendo da posizioni critiche: anzi, la critica (non preconcetta, però: costruttiva) è essa stessa una forma di dialogo, forse al momento l’unica possibile.
La pretesa di umanizzare il sistema capitalistico è però utopica: pur ammantandosi di buonismo ipocrita esso rispetta soltanto le ragioni della forza.
[1] Le dichiarate necessità e urgenza dell’intervento normativo consistono – per il reddito-bandiera dei 5stelle – nel “prevedere una misura di contrasto alla povertà, alla disuguaglianza e all’esclusione sociale volta a garantire il diritto al lavoro e a favorire il diritto all’informazione, all’istruzione, alla formazione, alla cultura mediante politiche finalizzate al sostegno economico e all’inserimento dei soggetti a rischio di emarginazione nella società e nel mondo del lavoro” e – per quota 100 – nel “dare attuazione a interventi in materia pensionistica finalizzati all’introduzione di ulteriori modalità di pensionamento anticipato e misure per incentivare l’assunzione di lavoratori giovani”.
[2] https://www.pensionioggi.it/download/decreto-quota-100.pdf
[3] Idem dicasi per Forza Italia, che perlomeno non occulta la propria identità di centrodestra, e di cui il Partito Democratico è oramai una brutta copia.
[4] A me tutto sommato cari, dal momento che ho letto Oblomov…
[5] Oltre che inderogabile da parte del legislatore regionale, rientrando tra i LEP (livelli essenziali delle prestazioni) che l’articolo 117, 1° comma, lett. m) assegna alla competenza esclusiva dello Stato.
[6] Nella versione spacciata per “definitiva” il 18 gennaio bastavano due anni di meno, cioè 65.
[7] Che del governo impersona l’anima di destra: si vedano le recenti dichiarazioni contro il Presidente Maduro, grondanti servilismo nei confronti del padrone americano.
[8] Nella prima stesura c.d. definitiva ci si era persino dimenticati che, al di sopra di una certa soglia, il Rdc rileva ai fini IRPEF; nell’ultima leggiamo la seguente, opportuna integrazione all’art. 3, co. 4: “Il beneficio economico di cui al comma 1 è esente dal pagamento dell’IRPEF ai sensi dell’articolo 34, comma 3, del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 601.”
[9] Questa mia considerazione potrebbe riuscire sgradita a certa sinistra astrattamente egualitaria o parere a certuni una pretesa eccessiva: c’è crisi, bisogna accontentarsi…? Rispondo che una Repubblica democratica fondata sul lavoro ha il dovere di salvaguardare la dignità di ogni singolo lavoratore, e lo compie solamente se valorizza i talenti e le legittime aspirazioni di ciascuno.
[10] Il bonus locazione è dunque compreso!
Fonte foto: Guida Fisco (da Google)