In Italia, secondo l’Inail, muoiono due persone al giorno a causa di incidenti sui luoghi di lavoro. Luana D’Orazio, la giovane orditrice che ha perso la vita al telaio di un’azienda tessile a Prato, è una di queste. Nel settore tessile gli incidenti, anche mortali, sono purtroppo molto frequenti. In passato, proprio nel distretto di Prato, erano così all’ordine del giorno che, amaramente, si diceva che in ogni famiglia c’era un operaio che aveva perso, se non la vita, almeno qualche dita, una mano, un occhio.
Ogni giorno, dicevamo, in Italia muoiono in media due o tre persone sul lavoro. Il che vuol dire, a conti fatti, circa settecento o mille vite spezzate all’anno. Un dato che pone l’Italia, secondo l’Eurostat, al tredicesimo posto tra i ventisette Paesi dell’Unione Europea, con una media di tre decessi ogni centomila abitanti per incidenti, sopra di poco la media unionista. Quello delle morti bianche, dunque, è un problema sociale di non poco conto. Un problema, direi, che è anche di classe, dal momento che la grande maggioranza delle persone che periscono a causa della loro occupazione sono operai che rimangono stritolati in qualche ingranaggio, muratori che cadono giù da impalcature, manovali seppelliti sotto il crollo di strutture od uccisi da mezzi meccanici. E’ raro, infatti, trovare manager o funzionari che perdono la vita cadendo dalla sedia mentre sono seduti alla scrivania del proprio ufficio.
Un dramma di classe, dunque. Ma anche di genere. Perché, sempre secondo l’Inail, in Italia circa il 95 per cento dei morti sul lavoro appartengono al genere maschile. Un punto, questo, su cui andrebbe aperta una riflessione seria e profonda. Sia chiaro, è giusto e doveroso che a seguito della sciagura di Prato, vi sia stata una collettiva levata di scudi. La Toscana ha proclamato un giorno di lutto regionale, dopo il lutto cittadino, mentre sia a livello toscano che nazionale si è assistito a dichiarazioni ed impegni presi da politici e sindacalisti a favore della sicurezza e di aiuti specifici da garantire alla famiglia di Luana. Il ministro del Lavoro, Andrea Orlando, dopo aver fatto visita alla famiglia, ha presieduto una riunione alla Prefettura di Prato e ha dichiarato che adesso servono fatti concreti.
Eppure, sia detto con il massimo rispetto per la giovane ragazza pratese e per la sua vita stroncata, per il dolore della famiglia che è il dolore di tutti quelli che vorrebbero che il lavoro servisse a vivere e non a morire, crediamo che sia espressione di un Paese sregolato ed abituato al peggio il fatto che, per scoprire la tragica realtà delle morti sul lavoro, sia stato necessario il sacrificio di una giovane donna. Solo la triste ed ingiusta vicenda di Luana, difatti, ha permesso e sta permettendo che, in modo tardivo, si accendano i riflettori sulle garanzie dei lavoratori, sulle effettive condizioni di sicurezza e sull’adeguamento dei diritti di chi lavora rispetto ai rischi a cui molti continuano ad essere sottoposti anche a fronte dell’avvento delle nuove tecnologie che non sempre si trasformano in avanzamento dei diritti. Il fatto che ogni giorno ci sia il sacrificio di due lavoratori e che questi siano in netta prevalenza maschi, purtroppo, non è servito, fino ad oggi, a scalfire un sistema che concepisce la vita degli uomini come una delle variabili da sacrificare, eventualmente, al profitto.
Solo per rimanere alle stesse ore in cui si è interrotta la vita di Luana, almeno altri quattro tra operai e lavoranti, tutti uomini, tutti giovani, sono rimasti uccisi dal loro lavoro. Ad Alessandria un addetto è rimasto sotto il magazzino crollato di una multinazionale, a Taranto è toccato a un gruista del porto, a Montebelluna un giovane manovale è stato investito da un’impalcatura, a Bergamo un altro operaio è rimasto sotto un blocco di cemento. Anche loro erano tutti o quasi padri di famiglia, uomini che si sacrificavano per il futuro dei loro figli così come la giovane mamma pratese faceva per il suo. Ma per loro non c’è stata nessuna levata di scudi. Le loro tragedie, al di là delle notizie apparse sui giornali, non hanno avuto la stessa valenza mediatica, lo stesso clamore. Perché? La risposta è fin troppo semplice. Alla morte di un uomo sul luogo di lavoro ci si è in qualche modo assuefatti e in qualche modo anche anestetizzati. Che la tragedia di questa ragazza pratese, su cui la Magistratura dovrà indagare e non fare sconti a nessuno, serva in definitiva ad aprire gli occhi su un dramma di classe che riguarda quasi esclusivamente gli uomini, ma che non per questo deve iniziare a riguardare anche le donne. Anzi, che la sua tragedia serva a garantire più sicurezza a tutti, lavoratori e lavoratrici, nel segno di una ripartenza dei diritti e della sicurezza sui luoghi di lavoro dalla quale una società che ama dirsi evoluta non può prescindere.
