Il giubilo con cui la stampa c.d. progressista, servilmente allineata al potere economico sovranazionale, ha accolto l’apparizione qua e là di banchi di “sardine” induce a qualche sospetto sulla genuinità di un fenomeno che ha già assunto i connotati di un movimento organizzato perbenino, capace di inondare il web con manifesti generici e di spedire in tivù accattivanti giovinette occhialute. Più che ai ruspanti 5stelle degli esordi i pesciolini venuti dall’Emilia rassomigliano ai girotondi anti-Berlusconi di inizio secolo: si presentano come pura antitesi, non come sintesi. Esperienza insegna che, giustificate o meno che siano, le demonizzazioni/chiamate alle armi non portano granché bene, anche se servono a compattare un fronte minoritario (e magari, nel caso di specie, a far fuori il terzo incomodo); più interessante del quesito relativo al ruolo ambito dai giovani contestatori democratici mi sembra tuttavia quello riguardante l’atteggiamento dell’establishment economico nei confronti del nuovo dominus del centro-destra. Dichiarazioni roboanti – e ripetitive – a parte, l’adesione di Salvini al sistema neoliberista e ai suoi (dis)valori è totale: nell’ultimo anno e mezzo il buon Matteo ha dismesso la maschera del popularis, indossata sin dal principio senza troppa convinzione, passando da padrino degli esodati a propugnatore di una tardiva reaganomics (leggi flat tax ad uso e consumo dei benestanti), da segretario-operaio a difensore d’ufficio di Archelor Mittal&co, da irriducibile patriota da comizio ad aspirante riformatore dell’irriformabile UE. Impiegati, operai, pensionati e piccolissimi imprenditori pronti a votarlo in blocco prenderanno un doloroso granchio, visto che dal ticket Salvini-Meloni possiamo solo attenderci tutela degli interessi padronali, scelte privatistiche in ambito sociale (onde finanziare l’iniqua tassa piatta), poco spazio riservato al dissenso e urla inarticolate. L’Unione Europea sarà mediaticamente insultata e nei fatti obbedita, se non oggetto di segreta riverenza. Buona fortuna insomma ai percettori di redditi fissi (ne avranno disperato bisogno!), ma tutto quanto detto fin qui non implica per forza che i “padroni del vapore”, cioè i c.d. mercati e i loro mandatari continentali, vedano di buon occhio l’affermazione di questo fregoli della politicuzza italiana. Dobbiamo in sostanza chiederci se la “carta di riserva” che egli indubbiamente impersona sia da considerarsi una figura o piuttosto una scartina da sbattere sul tavolo in mancanza di meglio. Gli allarmistici ed ossessivi richiami a una storia lontana, vale a dire all’epoca del fascismo, potrebbero essere fuorvianti per una serie di ragioni. E’ ben vero, infatti, che a lungo il padronato italiano appoggiò e si appoggiò all’autoritarismo mussoliniano, e che il regime fu trattato amichevolmente dal Gotha finanziario internazionale fino a metà anni ’30 ed oltre (Monaco docet), ma all’epoca le condizioni erano assai differenti da oggi: la globalizzazione dei mercati e della finanza era il segreto auspicio di pochi eletti, e soprattutto il Capitalismo – fiaccato dalla crisi del ’29 – faceva costernato i conti con deficienze interne e debolezze esterne. Una minaccia incombeva all’orizzonte: l’opaco, indecifrabile monolite di un’Unione Sovietica che, seppur giovanissima, compiva appariscenti prodigi in campo economico (il costo dei quali non era noto…), offrendo ben più di una larvata speranza a movimenti operai poderosi, anche se quasi mai risoluti. Tanto per fare un esempio, il Biennio rosso costrinse l’imprenditoria italiana a lottare de damno vitando, cioè per sopravvivere, e a rivolgersi – a fronte dell’inadeguatezza repressiva dei partiti liberali – ad un Mussolini disfattosi in fretta delle primitive istanze sociali. Si temeva, non ingiustificatamente, una possibile crisi di sistema e l’avvento di un nuovo modello tratto non dai libri ma dalla realtà; oggidì, al contrario, non esiste in Europa né oltreoceano alcuna concreta alternativa al modo di produzione capitalista, e questo dato purtroppo indiscutibile rafforza nell’élite occidentale la sicurezza in se stessa e nella stabilità di un predominio che movimenti protestatari acefali non mettono di certo a repentaglio. Insomma il fascismo non le serve, e neppure (in linea di principio) le cannonate “liberali” di Bava Beccaris, sostituite da raffinatissimi strumenti di plagio di menti e coscienze. Il fatto che in America Latina le cose vadano all’opposto, e che colà il sedicente “mondo libero” si affidi a loschi reazionari e militari golpisti, prediligendo cioè le maniere forti, deriva non soltanto dalla tradizionale preferenza statunitense per il maneggio in quell’area del “nodoso bastone”, ma anche e soprattutto dalla presenza di forti e radicati movimenti socialisteggianti, cioè dall’esistenza di un effettivo rischio per gli interessi capitalistici non minimizzabile con contromisure (fintamente) democratiche: Morales, Correa, Lula, i chavisti e il peronismo di sinistra si sono rivelati non già innocui critici da salotto, bar o piazzetta, bensì contendenti capaci di fare – e come tali sono stati presi sul serio da un potere mellifluo, ipocrita e del tutto immune da inibizioni morali. Farse giudiziarie, traditori prezzolati, sollevazioni eterodirette, strangolamenti economici: ogni espediente criminale può essere spacciato per virtuoso da un’informazione complice e priva di ritegno. Da noi non esiste nulla di paragonabile agli arditi esperimenti sociali del Sudamerica: l’opposizione – quella autentica, intendo, non la pseudo-sinistra di complemento – nuota ai margini della società, e nelle sue formazioni ricorda gruppuscoli di ribaltavapori o girai, al cui confronto le umili sardine doc giganteggiano. Di affidare a un Salvini gli agognati “pieni poteri” l’élite non sente affatto la necessità anche perché, se scattasse l’allarme rosso, essa si rivolgerebbe a fiduciari ben più tosti ed affidabili. Quell’allarme è comunque improbabile che risuoni. In caso di fallimento dei politicanti di servizio l’asso nella manica sarebbero semmai tecnocrati tipo Monti o Draghi: lo stesso cavaliere brianzolo, all’epoca, fu trattato alla stregua di un due di coppe quando briscola è spade (oggi è semplicemente fuori gioco). Un successo della Lega alle elezioni sarebbe – immagino – tollerato come un fastidioso incidente di percorso, ma in questo quadro i presumibili sforzi salviniani di cattivarsi sottotraccia la benevolenza dell’establishment sarebbero destinati all’insuccesso, anche a causa della necessità per il nostro di seguitare ad esibire una poco credibile faccia feroce a beneficio dei telespettatori. Alla prova dei fatti Matteo Salvini si rivelerebbe ancor più remissivo di Tsipras, ma la sua pessima fama e qualche incauta parola regalata alla piazza fornirebbero ai dominanti l’alibi perfetto per mettere l’Italia a ferro e fuoco, affidandola alle cure di una troika ben più feroce e razzista (nei confronti di noi comuni mortali) del capopopolo padano. Lui punta i soldi del Monopoli, noi mettiamo in palio i nostri risparmi. Più che il fascismo è il suo spettro, agitato ad arte, a costituire per il neoliberismo egemone una risorsa spendibile – ai nostri danni. Sulla scacchiera del reale l’alfiere Salvini retrocede a pedone, ma ciò non deve rassicurare troppo: anche i pedoni possono mettere all’angolo il giocatore disattento e spianare la strada, volenti o nolenti, a torri e regine prontissime a mettersi in marcia.
Fonte foto: Esquire (da Google)