L’attuale contesto storico vede
l’egemonia del femminismo liberale la cui ideologia si integra perfettamente
con il modello neoliberale occidentale. Al di sotto di questa ampia coperta pseudo-ideologica
agiscono ancora le due forme di femminismo duali l’una dell’altra – il
femminismo della differenza e il femminismo queer – che però si integrano
vicendevolmente rendendo difficile se non impossibile il dialogo con chiunque
si ponga in una posizione critica nei confronti del sistema capitalista,
elevato ormai da tempo ad una sorta di condizione ontologica e quindi non
superabile. Nonostante il secondo sia quello maggiormente favorito dal capitale
globale, il primo, ancora molto diffuso soprattutto in Italia, sta vivendo un
suo revival, ma si tratta, nella sostanza, di due facce della stessa medaglia:
il femminile concepito come migliore/superiore rispetto al maschile individuato
come responsabile dell’oppressione delle donne e di altri “gruppi”, fin
dall’inizio dei tempi. Al momento sembra mancare un vero interlocutore.
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Il femminismo e il maschile
Tutto il femminismo o tutti i
femminismi si basano sulla totale cancellazione del lato maschile della
società. I femminismi si occupano solo di donne, a chi chiede se il femminismo
favorisce anche gli uomini, si risponde sempre di sì, ma quando poi si chiede
un effettivo riscontro ci si scontra col fatto che le femministe non hanno a
cuore i problemi degli uomini (come i morti sul lavoro, i suicidi, i morti in
guerra), nell’analogia del campo di calcio, dovuta a Santiago Gasco Alba: si
guarda solo un lato del campo quello femminile e si ignora l’altro. Tutto ciò
che fanno gli uomini è ‘cosa da uomini’, mentre se le donne fanno azioni da
uomini esse sono derubricate come aver preso un cattivo modello. In questo
senso la ‘virilità’ auspicata dal femminismo è una virilità depotenziata,
perché per qualsiasi femminismo la virilità è associata con egemonia o
tossicità del maschio secondo i contesti. A volte tutto questo è definito col
termine ora tornato di moda “patriarcato”, termine che, senza essere rapportato
alle vere strutture sociali (patrilocalità, matrilocalità) è spesso usato in
modo improprio per definire l’oppressione che gli uomini eserciterebbero sulle
donne. Non si capisce dunque dove mettere il confine, donne si comportano da
uomini o uomini si comportano da donne, si configura così un equivoco che falsa
del tutto i rapporti alla ricerca di una presunta nuova via per gli uomini
‘stressati’ dalla condizione post-moderna (come se non lo fossero mai stati in
precedenza).
Femminismo liberale
Vi è una sufficiente coscienza
anche in certe analisi che il femminismo liberale è un’ideologia interclassista
e fondamentalmente reazionaria. Il femminismo liberale è quello propagato dal
mainstream, quello dei riti di massa del 25 novembre e dell’8 marzo, della
‘violenza di genere’ che è un solo genere quello maschile, del gender gap,
nella sostanza inesistente, vi è un’ampia manipolazione dei dati favorita dalle
istituzioni sia nazionali, europee, sovranazionali da UN Women fino all’ISTAT.
Con questo tipo di femminismo, che è il femminismo della donna “emancipata”,
che di solito ha letto molto poco di letteratura femminista o critica, o
dell’uomo “progressista” che ha un’idea del femminismo come lotta per la parità
di genere da parte delle donne. Il femminismo liberale, che è quello praticato
dalla maggioranza delle donne in politica che si definisco progressiste, anche
se sono magari di destra, ha permeato il dibattito politico sui generi
spostando l’attenzione dalla sfera sociale alla sfera dei diritti, introducendo
ad esempio concetti come “certificazione della parità di genere”, “quote rosa”,
legislazioni emergenziali in tema di violenza sulle donne con una deriva verso
la situazione spagnola ove vige una legge che è incostituzionale, arretramento
sull’affido condiviso dei figli riuscendo tramite l’influenza sulla
magistratura a depotenziarne gli effetti tramite l’introduzione della figura
del ‘collocatario’ (che poi è quasi sempre la madre), fino alla tuttora confusa
definizione di femminicidio come omicidio di una donna “in quanto donna” cosa
che porta subito a macroscopiche contraddizioni abilmente messe a tacere
dall’apparato mainstream. Il femminismo liberale non è un interlocutore in
nessun senso per chi volesse rifondare un’ipotesi di socialismo, esso è una
struttura portante del sistema insieme al politicamente corretto, all’ideologia
del mercato, all’individualismo programmatico.
Le matrici ideologiche
Il femminismo liberale tuttavia
prende, mescolandoli insieme a volte, concetti che sono espressi da due
correnti di pensiero maggiormente ideologiche del femminismo. Il femminismo
queer e il femminismo della differenza.
Femminismo Queer
Uso il termine “queer” per
evitare confusione con la ‘teoria del gender’ che è spesso invocata a destra e
che per i difensori di questo pensiero è “inesistente”; tuttavia, esiste
certamente un femminismo queer nella misura in cui esso rifiuta la divisione
delle persone in due categorie ben precise, uomini e donne, indipendentemente
dai loro gusti sessuali; quindi, queste categorie sono viste come sfumate e
addirittura confuse l’una nell’altra nel neologismo “non-binario”. In qualche
modo si assume che l’uomo/donna è infinitamente plasmabile e che ogni sua
determinazione è in realtà una costruzione culturale o, meglio ancora, gli
individui non fanno altro che ripetere delle performances (Butler) del
tutto indipendenti dal genere e dal sesso biologico [1]. Anche per questo il
femminismo queer è particolarmente attento al linguaggio poiché ritiene che la
chiave del potere sia nelle parole (Michela Murgia ne era un’esponente tipica a
metà tra consacrata icona del femminismo liberale e femminista queer
nell’ideologia). È appena il caso di notare che questa visione dell’individuo è
quella che meglio si sovrappone al modello neoliberale dell’individualismo
assoluto per poi sfociare nelle illusioni del transumanesimo, e pertanto come ha
mostrato Silvia Guerini[2] è anche quello che riceve i maggiori finanziamenti
dalle multinazionali globali. Il favore delle istituzioni (anche quelle
apparentemente più conservatrici ricordiamo i passi della Chiesa Cattolica
verso il mondo LGBT+) e del mondo imprenditoriale verso questo tipo di femminismo
è anche favorito dal fatto che esso tende a smorzare le tensioni demolendo le
identità, siano esse sessuali, etniche, di classe, anche le stesse identità
LGBT+ sulle spoglie delle qualila teoria queer è nata, rendendo l’individuo una
monade indistinta, il prototipo del consumatore universale.
Femminismo della Differenza
Il femminismo della differenza
nasce con la c.d. seconda ondata femminista ovvero tra gli anni 70 e 80 del
secolo scorso. Esso porta alle estreme conseguenze la natura dell’alterità, della
differenza tra uomo e donna arrivando a teorizzare una lotta tra generi
preesistente e prevalente rispetto alla lotta di classe. Una struttura di lunga
durata che nasce con la specie e dura tutt’ora e che vede una sostanziale lotta
per il dominio tra matriarcato, perdente finora, e patriarcato. Il femminismo
della differenza esalta la donna come sistema valoriale a sé, addirittura
definendola come fosse una specie diversa dall’uomo. In Italia la tradizione
del femminismo della differenza ha molte importanti teoriche come Carla Lonzi,
Marina Terragni, Lea Melandri e molte altre. Oggi questo tipo di femminismo ha
un revival in funzione di alcuni fattori: la necessità di dare profondità
ideologica al femminismo liberale per quella parte di donne e uomini che
stentano a riconoscersi in un femminismo queer troppo lontano dalla vita reale
delle persone; la polemica a volte violenta con il femminismo queer su alcuni
temi come il transgender o la GPA che le femministe della differenza sentono
come un attacco al femminile, in modo non dissimile forse da quanto gli uomini
sentano tutto il femminismo, come un intero, come un attacco al maschile. Tuttavia,
anche il femminismo della differenza si basa sulle stesse identiche premesse
del femminismo liberale o queer: il punto principale è la grande metanarrazione
dell’oppressione maschile, per il femminismo della differenza ancora più importante
dovendo teorizzare, con McKinnon ed altre, la lotta di genere. In questo senso
il femminismo della differenza è anch’esso basato su un’interpretazione della
storia universale fondamentalmente di parte e ne utilizza il linguaggio per
costruire il mito della superiorità morale della donna (tipico esempio “la
guerre degli uomini”). Da un punto di vista queer si potrebbe dire che esso
costruisce una performance totalmente a favore di un solo genere, un
approccio costruttivista basato su un presupposto essenzialista [3].
Due facce di una stessa medaglia
Ci troviamo quindi di fronte ad
un substrato ideologico che comporta che la differenza sia invocata quando necessario
porre ostacoli agli uomini (in questo senso il peggio dell’attacco al maschile
viene dal femminismo della differenza con il suo odio anti-maschile), mentre
all’opposto il queer è invocato quando è necessario porre l’enfasi
sull’eguaglianza che è diventata la generica eguaglianza del consumatore monade.
L’equivoco del linguaggio
il linguaggio non crea il mondo,
tra lingua e realtà ci possono essere differenze (questo dovrebbe chiamarsi
mal-francese poiché grande è stata l’influenza dei post-strutturalisti nel
dibattito sul linguaggio che è seguito alle loro teorie [4], anche se l’idea
che il linguaggio fosse l’unico modo di rendere reali le cose non è nuovo in
filosofia se si pensa a filosofi come Wittgenstein). L’antropologia, scienza
derelitta perché lega l’uomo al suo intrinsecotroppo umano a volte
viene in aiuto. Il linguaggio può creare mondi di fantasia, ed in effetti il
grande successo della letteratura fantastica ci dovrebbe perlomeno mettere in
guardia dalle sue costruzioni. Lo stesso celebre romanzo di Michela Murgia L’Accabadora
è per gli antropologi basato su di una costruzione falsa, come falsa è la
costruzione piuttosto fantasiosa di Virginia Woolf in Una stanza tutta per
sé. Le ragioni di queste costruzioni sono ovviamente di natura ideologica
si vuole forzare la realtà al proprio punto di vista, possiamo dunque capire
come certe costruzioni possibili nella lingua siano idealtipi, per non dire
forzature.
Ma la questione è più sottile,
l’idea post-moderna del mondo costruito o ricostruito dal linguaggio, che si
traduce nell’odierna ossessione per cose di scarsa importanza come la schwa, va
al di là dalla torsione dovuta all’ideologia, secondo il post-strutturalismo esso
permea tutta la nostra immagine della realtà. Ma non sempre questo si traduce
in una descrizione coerente. Leggiamo il seguente pezzo di Mary Douglas,
antropologa, quando scrive a proposito dei costumi delle caste indiane [5]: “Noi
sappiamo che, secondo il rito, toccare l’escremento significa essere
contaminato e che i pulitori di latrine si trovano al grado più basso della
gerarchia castale. Se questa regola di contaminazione esprimesse le angosce
individuali dovremmo aspettarci che gli indù siano controllati e discreti circa
l’atto della defecazione. Ci lascia esterrefatti leggere invece che il loro
normale atteggiamento prevede una sciatta indifferenza, al punto che i
pavimenti, le verande e i luoghi pubblici sono insudiciati dalle feci finché
non arriva lo spazzino…è verosimile che la contaminazione tra le caste sia ciò
che dice di essere un sistema simbolico…il cui fine principale è la gerarchia
sociale. Questo pezzo è interessante per diversi motivi, ma soprattutto il fatto
che un sistema simbolico, descritto tramite una lingua, non sempre corrisponde
perfettamente all’idea che noi ci facciamo di chi lo adopera e che quindi
esistono “non detti” che sfuggono al controllo dei parlanti. Si può considerare
che il c.d. dominio maschile o patriarcato sia appunto un sistema simbolico
codificato dallinguaggio, ma anch’esso non esaurisce la possibilità che ci
siano meccanismi di dominio non linguistici fuori da questo sistema, l’ambito
maschile può essere tanto separato da quello femminile da creare due o più
differenti sistemi di dominio che interagiscono solo ai fini dei loro interessi
[6]. Possiamo dunque pensare che esistono cose come, la Mafia, le cui regole
esoteriche mimano il dominio di un principio femminile, o semplicemente il
fatto che alle donne è stata da sempre affidata l’educazione dei figli o la
gestione dell’economia familiare e che in questi ambiti esse hanno esercitato
un potere non espresso verbalmente.
Al di là della barriera: uomini e donne, biologia e
transumano.
È chiaro che le differenze
biologiche (a meno di non credere alle fantasie del transumanesimo) implicano
che non vi sarà mai una totale uguaglianza tra uomini e donne (vedi il
paradosso nordico dove alla massima libertà di scelta corrisponde una
divisione dei ruoli tra uomini e donne ancora presente).Ma quale deve essere il
compito di chi si batte contro lo sfruttamento dell’umano? Per comprendere questo
facciamo un caso estremo e pensiamo ad una società immaginaria in cui ci sono
due etnie A e B, ovvero una divisione verticale della società (potrebbe
applicarsi anche a due sessi o ad altre categorie ancora più suddivise,
l’esempio delle etnie è tratto da Coyne e Maroja [7] e riguarda la carenza di
Iodio) ad una delle due, B per fissare le idee, manca per ragioni genetiche un
certo aminoacido che permette di fissare un elemento che è importante per lo
sviluppo cerebrale, per cui l’etnia B che ha questa mancanza è sfavorita
rispetto alla prima. Quali sono le possibili conseguenze sul piano sociale?
Sono possibili tre risposte:
- Non
fare nulla lasciando che le differenze sfavoriscano B mettendola in una
condizione di sudditanza da parte di A;
- Ignorare
le differenze affermando che A e B sono uguali, ma in questo modo si sfavorisce
comunque B perché spostarel’attenzione sul linguaggio non risolve il problema;
- Riconoscere
la differenza e fare in modo che possa essere eliminata, o quanto meno ridotta riducendone
per quanto possibile l’impatto sociale.
La risposta 1) è quella che
sicuramente appartiene alla destra: le differenze esistono e sono purtroppo
inevitabili; quindi, influiranno sempre sulle vite e le scelte delle persone, a
secondo dell’epoca storica possiamo chiamarle razzismo, sessismo, etc. se la
mancanza di B fosse semplicemente un problema di risorse e del loro accesso,
diventerebbe anche schiavismo, sessismo, colonialismo, e così via. È abbastanza
palese che il femminismo della differenza rientra in questo caso: in effetti il
femminismo della differenza è una teoria reazionaria. La risposta 2) è quella
che oggigiorno è pensata dalla attuale “sinistra”, tutto è costruzione
culturale e per questo è sufficiente modificare il linguaggio perché la
differenza sparisca.
Se applichiamo A e B a donne e
uomini cosa accadrebbe? La destra sarebbe concorde con queste affermazioni: se
sei donna e sei incinta stai a casa, se sei uomo e hai problemi di sicurezza
licenziati e trovati un altro lavoro. In entrambi i casi il lavoro è perso a
favore di altri, magari chi si sente “non binario” e non intenzione di fare
figli per cui il problema nell’ambito della queerness non si pone perché non ci
sono differenze (salvo poi ricredersi quando queste si manifestano) e il figlio
lo si acquista sul mercato tramite GPA. Non dovremmo piuttosto pensare: se sei
donna e hai un problema sul lavoro perché sei incinta è una giusta battaglia,
se sei uomo e hai un problema sul lavoro perché rischi la vita a causa della
mancata sicurezza è una giusta battaglia. Ma questo passa per il reciproco
riconoscimento che donne e uomini hanno problemi diversi per i quali dovrebbero
però lottare insieme e che è la risposta 3) al problema è quella corretta (per
inciso è quanto afferma la nostra inapplicata costituzione).
Ho fatto l’esempio dell’attesa di
un bambino perché è una delle differenze biologiche inevitabili delle
differenze tra i sessi, che non può essere “curata” in modo semplice (a
differenza di una carenza di Iodio come in [7]) a meno di non pensare a
fantascientifici uteri artificiali, ma il discorso si può applicare anche ad
altri problemi come le differenze tra uomini e donne nei lavori c.d. pesanti,
nelle guerre, nell’asimmetria tra i gameti che implica strategie riproduttive
differenti. Sono tutte questioni radicate nel nostro essere umani, che non
sembrano avere una risoluzione in un ipotetico transumanesimo le cui promesse
sono tutte da verificare [8].
L’intersezione vuota
L’ultima versione del femminismo
ascrivibile alla sinistra radicale è il cosiddettofemminismo intersezionale, che
proviene dal femminismo afroamericano ma ha anche aspetti del queer (che
d’altra parte è nato proprio in opposizione ad una normalizzazione identitaria
del femminismo bianco lesbico). Nella sostanza il femminismo intersezionale
ammette che vi siano divisioni verticali o orizzontali e relative conflitti
orizzontali e verticali. Tuttavia, come sempre, ogni discussione del maschile
finisce per adeguarsi al postulato fondamentale di ogni femminismo: ovvero la
metanarrazione dell’oppressione delle donne. Per questo motivo l’intersezione
va cercata semmai nella donna, immigrata, povera o nelle comunità BT+
discriminatemagari escludendo LG ormai normalizzati. Il rischio di questo modo
di pensare è collegato al fatto che differenti gruppi hanno necessità e
obiettivi di lotta differenti, per cui si ha una dispersione in mille rivoli
che finisce per risultare in una intersezione vuota. Diventa in questo modo una
forma di ribellione al sistema di tipo sindacale quando non sfocia direttamente
nella pura anarchia. D’altra parte, questo esito era già insito nell’opera di
Carla Lonzi ed è continuato fino ad oggi con altre teoriche come, ad esempio,
Chiara Bottici il cui recente libro Manifesto anarca-femminista[9] va
esattamente in questa direzione, la presentazione già dice molto: «O tutte,
o nessuno di noi sarà libero». Questo il motto dell’anarca-femminismo. Questa
nuova e rivoluzionaria visione vuol dire la liberazione di ogni creatura vivente
dallo sfruttamento capitalista e dalla politica androcentrica di dominazione.
Come si vede l’androcentrismo non è nulla di nuovo, ennesimo attacco al
maschile. Di seguito leggiamo: Un femminismo al passo con i tempi deve
essere capace di comprendere e accogliere le lotte e le rivendicazioni del
femminismo tradizionale che esige l’uguaglianza per le donne, così come la
critica queer, la nozione di genere come dispositivo biopolitico, le battaglie
trans che mettono in discussione il dominio cisgender, i sospetti del
femminismo nero e decoloniale che vede il femminismo bianco come un femminismo
d’élite vinto a spese di corpi razzializzati e infine l’eco-femminismo che
capisce che lo sfruttamento della natura va di pari passo con lo sfruttamento
delle donne.Appunto si tratta di una teoria che non può che fare il
solletico al sistema, anzi ne è la benvenuta, ed in cui l’uomo eterosessuale è
escluso a priori in quanto oppressore [10]. Depotenziare l’unione tra
uomini e donne per combattere insieme una battaglia per la giustizia è uno
delle cose migliori che è riuscita al capitalismo.Lo strato privilegiato
apprezza, finanzia, ringrazia e continua a sfruttare.
Conclusione
Non siamo ancora nell’epoca di un
post-femminismo che riconosca come abbiamo detto all’inizio l’esistenza
dell’altra metà del campo di calcio nell’analogia che abbiamo presentato
all’inizio. Esistono certamente delle autrici femministe con le quali ci si può
confrontare, ma apparentemente il femminismo è un monolite che si fonda, nelle
sue varie declinazioni, solo e soltanto sulla metanarrazione dell’oppressione,
esso può essere queer nel tentativo di abolire semplicemente la differenza
sessuale, o femminismo della differenza esaltando il principio femminile come
superiore a quello maschile. Finché questa situazione durerà il femminismo deve
essere considerato un’ideologia reazionaria e non può essere ammesso a lottare
per l’obiettivo di una ricostruzione neosocialista. È evidente che rinunciare a
questo postulato costa un enorme fatica, ma è poi vero che sarebbe tanto grave?
«O tutti, o nessuna di noi sarà libera», dovrebbe recitare uno slogan
post-femminista [11].
[1] In Gender TroubleButler scrive:
And what is ‘sex’ anyway? Is it natural, anatomical, chromosomial, or hormonal,
and how is a feminist critic to assess the scientific discourses which purport
to establish such ‘facts’ for us? … Are the ostensibly natural facts of sex
discursively produced by various scientific discourses in the service of other
political and social interests?Quindi per Butler anche il ‘sesso’
come definito fisicamente è soggetto a costruzione, un atteggiamento che è,
indipendentemente dal ruolo svolto dagli ‘altri interessi’ è a mio avviso irrealistico,
se non altro per il banale motivo che il 99% delle persone appartiene ad un
sesso o ad un altro (vedi anche nota [5]). Sarebbe lungo discutere qui il
problema della validazione delle teorie scientifiche e della differenza tra
discorso sulla scienza e discorso della scienza che Butler
evidentemente confonde.
[2] Chi
finanzia il movimento LGBTQ+, Silvia Guerini, L’Interferenza, 28 giugno
2023.
[3] Scrive Annamarie Jagose in Queer Theory,an
Introduction: The essentialist claim that some people are born homosexual has
been used in anti-homophobic attempts to secure civil rights-based recognition
for homosexuals; on the other hand, the costructionist view that homosexuality
is somehow or other acquired has been aligned with homophobic attempts to
suggest that homosexual orientations can and should be corrected. Quindi
posizioni essenzialiste e costruzioniste possono coesistere negli stessi gruppi
che rivendicano diritti civili a loro favore.
[4] Anche la stessa neolingua
è stata mutuata da Michel Focault soprattutto: si veda l’interessante pezzo
sull’astrusa idea del monosessimo in riferimento ad una risposta data da
Chiara Valerio ad un’obiezione fattele durante una conferenza. L’era
monosessuale, un’arma formidabile per ideologi e accademici militanti
[5] Purezza e Pericolo,
Mary Douglas, Il Mulino, 1998.
[6] Nello stesso libro la Douglas
fa altri esempi, forse più interessanti, come quello dei Lele in cui il
conflitto di genere è un aspetto rilevante della vita quotidiana e dove le
donne hanno il controllo effettivo dei loro scambi tra gli uomini per i quali
avere più mogli e figlie ha una rilevante importanza sociale. In questo errore
è caduto a mio avviso Pierre Bourdieu, l’eccessiva confidenza con le strutture
definite dal linguaggio esplicito maschile gli ha oscurato altre forme più
sottili di potere. Lo stesso è accaduto con la grande enfasi sulla vita
quotidiana e di conseguenza gli studi sulle donne nel corso dei secoli, trascurando
il potere che esercitavano le donne della classe aristocratica (che o erano
femministe ante-litteram o donne che adottavano modelli maschili).
[7]The Ideological Subversion of
Biology, J. A. Coyne e L. S. Maroja, Skeptical Inquirer, vol. 47, 4,
2023.A rigore nell’articolo non si parla propriamente di etnie ma di
sottogruppi umani, da un punto di vista scientifico, infatti, il concetto di
razza è fragile e lo è per riflesso in parte anche quello di etnia in quanto
parti di DNA comuni ad altre etnie sono diffusi anche all’interno di gruppi
apparentemente omogenei. Da un punto di vista di un’ideologia costruzionista il
concetto di razza è un concetto effettivamente costruito, lo stesso, purtroppo
per la queer theory, non si può affermare in quanto il sesso biologico non è un
microscopico frammento di DNA, ma una
caratteristica macroscopica, non riducibile al fatto di avere la pelle nera o
bianca, che nel 98% degli individui è facilmente individuata (volendo essere
generosi riguardo alla percentuale di intersessuali). D’altra parte, l’identità
culturale di una data etnia è qualcosa a cui è difficile rinunciare essendo il
prodotto di un processo di adattamento all’ambiente di lunga durata, spesso
essa è una forma di resistenza all’invasività del capitale. Eliminare le
differenze definendole come costruzione sociale non sempre è una lotta
“progressista”, ma appartiene al campo
dell’”esportazione della democrazia”.
[8] Basti pensare alla relativa marcia
indietro che si sta verificando in molti paesi sulla c.d. disforia di genere. Inoltre,
la tecnologia, sebbene non sia neutra nelle sue ricadute specialmente oggi che
la ricerca è quasi totalmente funzione del mercato, oltre che nell’attuale
politica di riarmo, essa può sempre essere usata in sensi diversi da quelli in
cui viene prima pensata: e se l’utero artificiale fosse usato per impedire
gli aborti? (Questa idea compare già trenta anni fa nel romanzo di
fantascienza l’Onore dei Vor di Lois McMaster Bujold).
[9] Manifesto
anarca femminista, Chiara Bottici,
Laterza, 2022.
[10] Scrive Sheila Jeffreys nel 1993: Any
woman could be a lesbian. It was a revolutionary political choice which, if
adopted by millions of women, would lead to the destabilization of male
supremacy as man lost the foundation of their power in women’s selfless and
unpaid… come non leggere una similitudine in queste parole trenta anni
dopo. Anche la chiamata alla lotta del femminismo nero e decoloniale è
già presente almeno dagli scritti di Gloria Anzaldua degli anni Ottanta. Notare
come il lesbismo viene usato in senso prettamente politico, come se fosse un
costume da adottare per la lotta (quasi esattamente quanto intenderà Judith
Butler con la performatività).
[11] Nella versione inglese (either all, or none of us will be free) non vi è genere, per cui può essere letto “O tutte, o nessuna di noi sarà libera” oppure “O tutti, o nessuno di noi sarà libero”. Nella presentazione italiana è stato tradotto da Federico Zappino, teorico Queer italiano, come “O tutte, o nessuno di noi sarà libero” che o è un errore o un voluto riferimento al fatto che tutti gli uomini (altro tormentone femminista) devono liberare le donne (tutte).Nella frase ovviamente io intendo tutti come uomini e donne.