L’INAIL ha reso disponibile la relazione annuale sugli infortuni sul lavoro e malattie professionali relativa all’anno 2022. Ne riportiamo i punti più significativi, rimandando all’infografica e alla scheda informativa allegate per maggiori dettagli.
Nel 2022 l’INAIL ha ricevuto 703.432 denunce di infortuni sul lavoro (+24,6% rispetto all’anno precedente); l’aumento è dovuto sia ai contagi professionali da Covid-19, quasi triplicati nel 2022, sia agli infortuni “tradizionali” (+13% rispetto al 2021).Gli infortuni riconosciuti sul lavoro nel 2022 sono aumentati (+18,2% rispetto all’anno precedente) e circa il 15% è avvenuto “fuori dell’azienda”, cioè “in occasione di lavoro con mezzo di trasporto” o “in itinere”. Le denunce di infortunio con esito mortale sono diminuite (-15,2% rispetto al 2021) ma il decremento è totalmente correlato ai decessi causati dal Covid-19, passati dagli oltre 230 casi del 2021 agli otto del 2022.
Passando ora alla scala globale, ogni anno circa 2,8 milioni di lavoratori perdono la vita a causa di un infortunio o di una malattia professionale. Di questi, circa 400 mila sono vittime d’infortuni mortali e 2,4 milioni muoiono a causa di malattie professionali. Ogni giorno, 6.300 persone muoiono a causa di incidenti sul lavoro o malattie professionali, causando più di 2,3 milioni di morti all’anno. Gli incidenti che si verificano annualmente sul posto di lavoro sono 317 milioni.
Nel 2022 è stata accertata la morte di 1090 persone (in schiacciante maggioranza, fra il 92% e il 94%, uomini) a causa di incidenti sul lavoro in Italia (in media dai tre ai quattro morti al giorno) ma assai più numerosi sono gli infortuni e le malattie professionali.
Stando ai dati, nei due primi bollettini trimestrali INAIL relativi all’anno corrente ci sono stati ben 450 decessi rispetto ai 463 dell’anno scorso, le statistiche delle ultime settimane fanno intravedere una crescita delle morti e degli infortuni tanto che il numero a fine anno potrebbe essere lo stesso o di poco superiore rispetto a quelli di 12 mesi orsono.
Se ci fermassimo alle mere statistiche, però, rischieremmo di non cogliere i problemi reali finendo con il ritenere che una semplice variazione statistica possa indicare il cambiamento di una situazione che, invece, è stagnante. Abitudine diffusa è infatti quella di affidarsi alle statistiche per dimostrare l’efficacia dei provvedimenti adottati in materia di salute, prevenzione e sicurezza o prendere atto del loro fallimento salvo poi finire per ripetere, come una litania, le medesime considerazioni negli anni a venire.
Ma perché ci sono tanti infortuni e morti sul lavoro? Le risposte sono molteplici, ma avviene soprattutto per via di contraddizioni e arretratezze del sistema produttivo italiano, della tendenza ad abbattere i costi del lavoro anche in termini di sicurezza, delle diffuse condizioni precarie di lavoro (soprattutto negli appalti e nei subappalti ma spesso anche all’ombra della Pubblica amministrazione o di aziende di grandi dimensioni).
La tendenza del capitalismo italiano a risparmiare sui costi del lavoro dovrebbe indurre a qualche riflessione anche sul ruolo acritico del sindacato, sulla passiva accettazione di logiche subalterne ai poteri datoriali dentro quella filiera della sicurezza aziendale che relega i rappresentanti dei lavoratori a ruoli subordinati e acritici, se non addirittura al silenzio, come si evince dagli innumerevoli provvedimenti disciplinari intrapresi contro chi ha contestato l’assenza di tutele reali per la forza lavoro.
Nel 2020, anno pandemico durante il quale innumerevoli attività sono state bloccate per mesi, in Italia registravamo 776 infortuni mortali rispetto ai 541 morti della Francia e i 392 della Spagna.
Arriviamo ora a lavoro nero e malattie professionali. Nel primo caso si rinvia alle statistiche e alle analisi redatte dall’Osservatorio caduti sul lavoro Osservatorio Nazionale di Bologna morti sul lavoro, disponibili in internet, ricordando quanto siano sottostimate le cifre in materia di infortuni e morti in un Paese dove intere attività produttive sono svolte da forza lavoro senza contratto.
Sulle malattie ricordiamo anzitutto che possono essere “tabellate” o “non tabellate”. Le prime sono quelle per cui il lavoratore non deve dimostrare l’origine professionale della malattia ma solo l’adibizione a una lavorazione rischiosa e l’esistenza della patologia. Le seconde sono quelle per cui va dimostrata l’origine professionale della malattia, se si vuole essere risarciti.
Molte malattie sono riscontrate con anni di ritardo, quando i casi appurati sono ormai centinaia. È accaduto in Italia con il mesotelioma provocato dalla esposizione alle fibre di amianto ma menzioniamo solo il caso più noto.
Una medicina del lavoro degna di questo nome non esiste perché le strutture pubbliche adibite a questo compito riscontrano da decenni carenza di risorse, di figure professionali e sono senza un effettivo potere sanzionatorio e repressivo.
Basterebbe ricordare il turn over esistente in molti magazzini della logistica con una forza lavoro che dopo alcuni anni non è più in grado di sopportare tempi, ritmi e modi produttivi devastanti.
Le cause delle malattie professionali sono assai note e variegate e vanno dalla classica esposizione a sostanze nocive, rumore, vibrazioni, radiazioni, campi elettromagnetici, allo stress fisico o psicologico (ad esempio mobbing, burn-out, disturbi psichici, ansia, o depressione) fino all’esposizione a posture o movimenti ripetitivi o scorretti che riguardano molti comparti lavorativi.
Ma se le cause sono note le soluzioni vengono invece demandate a protocolli inefficaci concepiti solo per ridurre ai minimi termini i rischi datoriali: perfino il riconoscimento di molte malattie professionali diventa assai arduo e a carico del singolo lavoratore costretto a sobbarcarsi di immani spese per vedersi riconosciuto un elementare diritto risarcitorio.
Ora, merita particolare attenzione la sentenza del 25 settembre 2023 della Corte di Cassazione che per la prima volta attribuisce al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza (Rls) la responsabilità dell’omicidio di un lavoratore «per aver omesso di promuovere l’elaborazione, l’individuazione e l’attuazione delle misure di prevenzione idonee a tutelare la salute e l’integrità fisica dei lavoratori, di sollecitare il datore di lavoro ad effettuare la formazione dei dipendenti … e di informare i responsabili dell’azienda dei rischi connessi all’utilizzo, da parte del C.C., del carrello elevatore».
È bene ricordare come questa Sentenza faccia giurisprudenza nell’immediato futuro attribuendo al Rappresentante dei lavoratori le responsabilità che dovrebbero invece competere al solo datore di lavoro e ai suoi collaboratori.
Se il giudice in futuro avrà l’obbligo di valutare i comportamenti di chi è stato eletto o designato come rappresentante dei lavoratori crediamo che il ruolo degli Rls dentro e in subordine alla filiera della sicurezza aziendale dovrà essere rimesso in discussione per restituire invece ruoli e funzioni conflittuali.
Questa sentenza per noi resta ovviamente aberrante alla luce del fatto che il Rappresentante dei lavoratori non ha potere reale nel modificare la organizzazione del lavoro a tutela della sicurezza dei lavoratori.
Il Rls è titolare di diritti di consultazione, di informazione, di accesso e di formulazione di proposte, ma non ha compiti o obblighi che lo vincolino a fare alcunché. Allora la sola strada percorribile è quella di aprire una vertenza nazionale per restituire al Rls un potere reale di contrattazione e di veto ricordando al contempo che l’adozione delle misure di sicurezza e la formazione del lavoratore è un compito, anzi un dovere, del datore.
Ha ragione Beniamino Deidda nello scrivere «Siamo di fronte ad uno scivolone della Suprema Corte, che andrebbe rapidamente archiviato. Sono tempi duri per i lavoratori e per i loro rappresentanti. Non solo da molti lustri continuano a morire al ritmo di almeno mille ogni anno a causa delle precarie condizioni di sicurezza. Ora si trova il modo di attribuire loro la colpa, perché non hanno informato i datori di lavoro che di lavoro si può anche morire. Becchi e bastonati».
Al contempo serve un cambio di prospettiva e una maggiore radicalità nell’azione degli Rls dentro un quadro legislativo diverso da quello attuale, che ha sancito la marginalità e l’ininfluenza degli Rls stessi.
Fonte foto: CGIL Imola (da Google)