Gli esiti della consultazione europea di ieri ribaltano quelli delle politiche di un anno fa, e non soltanto perché 5Stelle e Lega si sono “scambiati” le percentuali, a tutto vantaggio di quest’ultima: se nella primavera del 2018 gli elettori avevano posto una forte domanda di cambiamento[1] ora sembrano essere ritornati sui propri passi, esprimendo un voto che definirei reazionario.
Non alludo esclusivamente al plebiscito in favore della Lega, che ha sedotto oltre il 34% degli italiani (di quelli votanti, s’intende, ma i dati sull’astensione rientrano nella norma): mi vorrei soffermare anche sull’avanzata di un PD non meno invotabile di quello naufragato nelle urne 14 mesi orsono.
La Lega, anzitutto: è lei il vincitore di giornata. Comincio col fare ammenda: ero convinto – e l’ho detto – che negli ultimi tempi Salvini avesse smarrito il senso della misura, andando “fuori giri”, e che il mix di buffonate sanfediste, smargiassate e difese a oltranza dell’indifendibile gli sarebbe costato non poco in termini di popolarità e consenso. Agli italiani invece il trash piace – o perlomeno non li disturba. Mettiamola così: apprezzano lo stile salviniano e hanno imparato a memoria il ritornello, senza pretendere che il resto delle strofe sia all’altezza. Vanno bene anche muggiti e parole a caso, insomma. Tra sbaciucchiamenti di (incolpevoli) madonne ed esibizione di ex voto Matteo II – che è abile comunicatore e testa fina – sta di certo aggiornando la sua strategia di breve-medio termine. Nell’immediato ha tre opzioni, che si riducono ad una e mezza. Provocare una crisi di governo per sostituire Fratelli d’Italia e i rimasugli di FI ai grillini sarebbe una mossa scriteriata, e non solamente a causa dell’attuale composizione delle Camere e dell’ingombro rappresentato da Berlusconi: meglio approfittare di un partner allo sbando e in crisi di identità per imporre una linea di governo fino a prova contraria gradita all’elettorato. Il leader leghista potrebbe rinunciare a un rimpasto non essenziale, ma da oggi in poi le sue richieste diverranno sempre più pressanti e “garbatamente” ultimative: i 5Stelle potranno scegliere di sottomettersi (sparendo) oppure di mettersi di traverso, ma in entrambe le ipotesi il rischio di una deflagrazione interna resta alto. Il logoramento sarà in ogni caso inevitabile, amplificando i dissidi tra capi e capetti e conducendo, tosto o tardi, a una rottura del contratto che Salvini non ha interesse ad affrettare. A quel punto potrà ergersi a vittima e giocare la carta di nuove elezioni, Colle (e Mercati) permettendo.
E poi? Poi si vedrà, ma per il momento le manifestazioni muscolari paiono accontentare gli italiani, preoccupati più di garantirsi una sicurezza e un’inviolabilità illusorie che di accedere a un minimo di benessere.
Queste elezioni hanno però un secondo vincitore: un vincitore “segreto”, che è il PD (22,7%). Il partito non è cambiato affatto rispetto alla stagione renziana: il nuovo segretario sfoggia un linguaggio più morbido (e meno fantasioso) di quello del predecessore, ma la proposta politica rimane invariata – neoliberisti erano e tali sono rimasti. Personalmente giudico la comunicazione dem mediocre, stantia e priva di attrattive – pure ingannevole, ma non è il sottoscritto che si ripromettevano di persuadere. La stucchevole manfrina sull’antifascismo ha compattato larghi strati di opinione pubblica spaventata dalla crescita leghista, cui è stato offerto per contorno un europeismo tanto acritico quanto “rassicurante”. Esacerbando i toni fino ai limiti del grottesco Zingaretti e compagnia sono riusciti ad accreditarsi come l’unica alternativa a Salvini, rinunciando disinvoltamente ai contenuti e tagliando fuori i 5Stelle, privi di un’identità forte e perciò apparsi all’elettorato né carne né pesce. Al pari della Lega anche il PD ha costruito il suo successo elettorale sulla paura: quella di un “uomo nero” che, anziché giungere sui barconi e sulle navette delle ONG, sfoggia divise da militare e inneggia al Duce. Il voto di ieri ha premiato questa rappresentazione, scandendo: europeisti/liberali da una parte e sovranisti dall’altra, per terze forze non c’è spazio.
Il PD, indietro di una dozzina di punti, permane all’opposizione e senza prospettive – nel breve termine – di approdare al governo, ma ha riacquistato una centralità che potrebbe rivelarsi preziosa nell’evenienza di passi falsi da parte dell’esecutivo e dello stesso Salvini ovvero dell’affacciarsi di un governo tecnico, sogno (neanche tanto) proibito dell’establishment nostrano ed europeo. Le Europee, tutto sommato, sono poco più che un “sondaggio ufficiale” – e i maggiorenti dem lo sanno benissimo. Si sono stabilizzati: possono aspettare.
Il Movimento5Stelle esce dalla competizione sbriciolato più che vinto. Il risultato di ieri (un miserrimo 17% acciuffato in extremis) è un castigo tanto severo quanto paradossalmente immeritato. In fondo, in un anno appena di governo i c.d. grillini hanno mantenuto parecchie delle promesse fatte nel 2018 e un tanto – oltre a rappresentare una rarità nella Storia d’Italia – avrebbe dovuto giocare a loro favore. Invece reddito di cittadinanza, decreto dignità, Spazzacorrotti ecc. non sono serviti a nulla, così come a nulla è valso il tentativo finale di marcare la lontananza ideologica e programmatica da Salvini. L’impegno non paga, si potrebbe chiosare, quando dai contenuti gli altri contendenti spostano l’attenzione sulle emozioni: stretto tra due vasi di ferro, uno dei quali arrugginito, quello pentastellato è finito in mille pezzi, ognuno dei quali cercherà d’ora in avanti di affermare la propria visione. Le colpe ricadranno presumibilmente su Di Maio, che ha fatto scelte a molti sgradite – scelte che, alla prova dei fatti, si sono rivelate fallimentari. La caduta del governo coinciderebbe con la sua fine politica: difficile preconizzargli un terzo mandato, con Di Battista che scalpita e un’infinità di oppositori pronti a rialzare la voce. Tenterà – stimo – di resistere alle pressioni salviniane, ma dovrà fare all’alleato-rivale inevitabili concessioni: scordiamoci un esecutivo che alternava politiche di destra ad altre (tutto sommato) di sinistra. I 5Stelle non sono morti, ma un’intera classe dirigente è in scadenza e d’ora innanzi non avrà altra opzione che giocare in difesa, sempreché non ceda alla tentazione di una guerra di tutti contro tutti che ne affretterebbe il seppellimento.
Altri perdenti: la sinistra, il cui antifascismo isterico ha favorito solo il PD, e Forza Italia, che Salvini attende di assorbire senza l’incomodo del fondatore. I fascisti reali – non quelli immaginari, che sarebbero ovunque! – si spartiscono briciole di decimali, ma “sorprende” il successo dei Verdi, contenuto da noi ma clamoroso specialmente in Francia e Germania. Almeno da un punto di vista elettorale l’operazione mediatica Greta Thunberg si sta rivelando un successone: molti – soprattutto giovani – hanno dato fiducia a un movimento sovranazionale, europeista ed assolutamente innocuo per l’establishment europeo; un movimento che per essere coerente dovrebbe presentarsi come anticapitalista ma non lo è affatto, come emerge dalla lettura di un banale programmino fatto di buone intenzioni vaghe e compatibilissime con ciò che esiste.
Ne avessi la forza (e la voglia) allargherei lo sguardo all’Europa, ma il pessimo risultato di France Insoumise (6,3%) mi induce a finirla qui: le righe che ho buttato giù di getto sono più uno sfogo che un’analisi, la delusione annebbia la mente. Dal futuro prossimo non mi aspetto niente di buono, le speranze sono al lumicino – la “lotta di classe” elettorale inscenata dalle moltitudini nel marzo 2018 è stata, più che un episodio, un’illusione e un (mio) abbaglio.
Fonte foto: TPI (da Google)