Poche tesi sulla rielezione di Trump


In attesa di poter svolgere un’analisi più dettagliata del voto americano, quel che appare al momento è l’ampiezza inusuale della vittoria di Donald Trump e James Vance sul ticket democratico. Vittoria che si è estesa a Camera e Senato e ha spostato significativamente i rapporti di forza dall’ormai tradizionale ‘quasi pareggio’ presidenziale.

Una vittoria che si presenta quindici anni dopo il termine del ciclo Bush junior, e otto dopo quello di Obama. Ovvero sedici anni (quindici e mezzo) dopo la crisi-spia della finanziarizzazione esemplificata dal crollo del 2008. Se pure questa data simbolo del 2008 si colloca in effetti al termine di un ciclo di bolle alimentate politicamente che risale almeno ad un decennio prima, fu il segnale della necessità di tornare a qualcosa che potesse essere, almeno per il grande capitale finanziario, come una sorta di ‘big state’. Il segno dei tempi fu il pacchetto di stimoli bypartizan promosso dalla coppia Bush-Obama e la ricerca costante di un nuovo ‘motore’ economico, oltre alla crescente consapevolezza della crisi della “mondializzazione” anni Novanta (avviata dalle crisi multiple degli anni ’97 e ’98, le cosiddette “Crisi asiatiche”, che poi furono anche del Messico della Russia, etc.) e delle “Classi medie”. Tentativi di riprendere il “Doha Round” del 2001, con il TIPP e TPP, in chiave sempre più chiaramente anti-cinese, ma anche anti-europea[1] (tentativi che vedono, forse per la prima volta, manifestarsi contro l’amministrazione democratica una coalizione sociale interna contro l’ulteriore potenziale invasione di prodotti a basso costo, e quindi l’ulteriore deindustrializzazione). Quindi velleitarie politiche per un milione di posti di lavoro nell’industria[2], oppure di rivitalizzare la formazione tecnica, poco dopo i vaniloqui della Clinton sulla lotta alla “società freelance” o la “gig economy”[3]. Si può anche ricordare il Discorso sullo Stato dell’Unione del 2015 di Obama[4], a metà del secondo mandato, quando avviene una significativa svolta ambientalista e nelle politiche energetiche, mentre continuano assolute macchie come Guantanamo e si sviluppa la politica delle “primavere arabe”.

Come ricorderemo a quel ciclo ricco di parole e molto meno di fatti, segnato dalla difficoltà a far cambiare direzione alla balena americana senza scontentare i piani alti dell’economia e della finanza (ovvero senza uscire dal modello di produzione della finanziarizzazione), seguirà la messa da parte (saggia con il senno di poi) di Biden, vice di Obama, per puntare sui vecchi Clinton. Precisamente sull’abile, ma antipaticissima e certamente fortemente intrecciata con il potere inscalfibile, Hillary Clinton. Fu una tornata elettorale, quella del 2016, che cadde nel pieno del punto alto del ‘ciclo populista’ (Brexit, elezioni in Europa) e vide l’emersione di Sanders e di Trump[5]. Autosconfitto Sanders si andò al primo trionfo di Trump. Nel suo “Discorso di insediamento”[6] questi oppone allo stile di Obama (universalistatecnocratico, basato sull’indicazione di una “agenda”, che sceglie dei valori come forza motivante, astratto, radicato nella libertà come destino storico), un discorso: nazionalistapopulista, basato sull’indicazione di un nemico, che sceglie come forza motivante l’indicazione di un meccanismoconcreto, radicato nella promessa della protezione.

Questa diversa agenda, come quella di Sanders, si radica direttamente nel fallimento di Obama. Se pure, infatti, la disoccupazione è calata, il lavoro povero è cresciuto, la disuguaglianza con esso, la partecipazione della forza lavoro è calata sotto il 60%, e sono cresciute la violenza e la povertà sanitaria. La classe media si è sentita abbandonata ed assediata dai “poor job”, e minacciata dal tentativo insistito di rilanciare la mondializzazione.

Mentre un significativo dibattito non riusciva a sfondare nelle stanze decisionali Trump vi ha fatto irruzione. Parlando di “ricostruzione” e di “ripristinare la promessa”. Parlando a sezioni diverse della società (quelle che Sanders cercava di intercettare), il nuovo Presidente cambia completamente tono; dall’ottimistico ‘viaggio’ si passa ai toni cupi che indicano un ‘nemico’ interno: i “piccoli gruppi” che, fiorendo, vivono alle spalle della “gente” che perde il lavoro e vede le fabbriche chiudere. Trump guarda a “madri e bambini intrappolati nella povertà”, in “fabbriche arrugginite”, sparse “come lapidi”, alle prese con un sistema educativo costosissimo, ma che lascia troppi senza speranza, dove il crimine si espande. La definisce una “carneficina”.

Mentre Obama volava su alte parole, in questo abilissimo, Trump, simulando rozzezza e semplicità, indica concretamente nemici, vicini. Ciò che ci danneggia è la concorrenza di altri. Quindi è la globalizzazione, proprio quegli immigrati che la sinistra vuole accogliere.  Sono quelle politiche, derivanti dall’idea che “il mondo è sempre più piccolo” e che bisogna proseguire avanti sulla strada, e “rischiare”, che bisogna essere adulti e forti, orgogliosi e vincenti. Sono le politiche che hanno solo “arricchito le industrie estere”, sovvenzionato gli eserciti di altri (ad esempio attraverso la Nato), difeso i confini di altri. Fatto altri ricchi e “noi” poveri.

Nel suo discorso del 2017 Trump dice cose semplici:

“Il giuramento di ufficio prendo oggi è un giuramento di fedeltà a tutti gli americani. Per molti decenni, abbiamo arricchito l’industria estera a scapito dell’industria americana, sovvenzionati gli eserciti di altri paesi, consentendo nel contempo lo stesso triste esaurimento dei nostri militari. Abbiamo difeso i confini di altre nazioni, mentre il rifiuto di difendere la nostra propria.

E migliaia di miliardi e miliardi di dollari spesi all’estero, mentre le infrastrutture degli Stati Uniti sono cadute in rovina e degrado.

Abbiamo fatto altri paesi ricchi, mentre la ricchezza, la forza e la fiducia del nostro paese si è dissipata sopra l’orizzonte. Uno dopo l’altro, le fabbriche chiuse e lasciato le nostre coste con nemmeno un pensiero circa i milioni e milioni di lavoratori americani che sono stati lasciati alle spalle.

La ricchezza della nostra classe media è stata strappata dalle loro case e poi ridistribuita in tutto il mondo.”

Quindi, come a suo tempo fece Roosevelt[7], promette essenzialmente “protezione”.

Promette anche di fare grande l’America, di farla dominante; ma mentre nell’altissima retorica di Obama questo significava apertura, coraggio, guardare avanti, in Trump è direttamente affermazione imperiale, lotta, sottrazione.

Obama chiudeva i suoi discorsi diversamente. Ad esempio, così chiude il primo discorso alla nazione:

“Di fronte ai nostri comuni pericoli, in questo inverno delle nostre fatiche, ricordiamoci queste parole senza tempo. Con speranza e coraggio, affrontiamo una volta ancora le correnti gelide, e sopportiamo le tempeste che verranno. Che i figli dei nostri figli possano dire che quando fummo messi alla prova non ci tirammo indietro né inciampammo; e con gli occhi fissi sull’orizzonte e la grazia di Dio con noi, portammo avanti quel grande dono della libertà, e lo consegnammo intatto alle generazioni future”

E così il secondo:

Che ciascuno di noi abbracci, con solenne dovere e meravigliosa gioia, ciò che è il nostro retaggio permanente. Con sforzi comuni, e comuni intenti, con passione e dedizione, rispondiamo alla chiamata della storia, e trasportiamo la preziosa luce della libertà verso un futuro incerto.

Trump, in sostanza, reagisce all’altezza inumana di questo ideale, risponde alla bassezza del suo fallimento.

E lo fa dal 2017 al 2021, nel primo mandato, abrogando le principali riforme di Obama (a partire dal sostanzialmente fallimentare Obamacare, su cui però a sua volta fallisce ed è costretto a compromessi, e dal TPP) avviando anche l’atto simbolico più importante, e parzialmente anche efficace, della ridiscussione del trattato NAFTA (di Clinton). Quindi oleodotti interni (l’industria petrolifera è uno dei principali sponsor, come lo era di Bush) per le sabbie bituminose e il fraking ed il muro del Messico. Lo sforzo più sbandierato, per tutto il mandato, è di produrre le condizioni per la reindustrializzazione del paese[8]. Non è mancata una riforma fiscale pro-ricchi e la sospensione della politica ambientale (Accordo di Parigi), oltre all’allentamento del Dodd-Frank Act. In politica estera inasprimenti con la Corea del Nord, lieve allentamento della tensione con la Russia, bombardamenti della Siria, accordi di pace in Afghanistan, forte pressione sull’Iran, appoggio ad Israele (inclusa l’uscita dall’Unesco), misure contro il Venezuela.

Quando poi, nel 2021, Biden vince delle contestatissime (da Trump) elezioni presidenziali svolge un discorso inaugurale che enfatizza l’unità della nazione e tocca i temi caldi dei cambiamenti climatici, del Covid ancora in corso, concentrandosi poi su temi razziali e toni obamiani.

Tra i primi atti concreti l’American Rescue Plan Act, che stanzia quasi duemila miliardi di dollari in investimento ed aiuti (inclusi diretti alle persone una tantum), ma non abroga i tassi di Trump e continua la sua politica di reinternalizzazione industriale. Inizialmente interrompe la costruzione del muro, per poi riprenderla nel 2023, incaricando la Harris di contenerli. Altre azioni, sono state il rientro degli USA negli Accordi di Parigi ed altre misure ambientaliste. Completano l’azione interna misure di lotta alle discriminazioni e quella esterna l’incrudimento ulteriore del confronto con la Cina, ma, soprattutto l’escalation in Ucraina (che porterà alla guerra) e il disastroso ritiro dall’Afghanistan. Infine, la politica di deindustrializzazione (via distruzione delle relazioni e delle infrastrutture) europea e reindustrializzazione via incentivi del paese.

Questo il brevissimo quadro con il quale arriviamo all’oggi.

Sinteticamente, con il primo mandato Trump, e in diversi punti qualificanti, anche con il mandato Biden (che non inverte le politiche di chiusura, e non torna al tempo di Obama e Clinton) si ha la percezione di essere stati ad un punto di biforcazione instabile, nel quale diversi agenti e network organizzativi si trovavano a competere per attrarre capitali e risorse, incluso risorse di autorità e forme di legittimazione, verso schemi concorrenti. Intanto tra le due logiche dell’espansione produttiva, con relativi effetti di consenso su cui la campagna di Trump ha sempre fatto particolarmente leva, e quella commerciale, che rappresenta il punto più evidente di attacco. È stato uno scontro tra proposte egemoniche nella quale la fase finanziaria, fino ad ora dominante, è stata comunque sfidata[9]. Bisogna considerare che non si tratta solo di idee. Tutte queste proposte egemoniche sono incarnate in parzialmente diversi network di tecnici (con relativi saperi), agenti, capitali (“vivi” e “morti”, fissi o mobili), istituzioni, luoghi, che determinano strutture a diverso radicamento. Ma anche in posizioni ideologiche, per cui da una parte si presume che lo scambio sia sempre a vantaggio reciproco e porti ad una tendenza a equalizzare i fattori verso l’alto, dall’altra si segnala l’evidenza della crisi di questo paradigma, al momento senza disporre di un altro.

Riassumendo ed in linea generale, in questo quindicennio, abbiamo assistito a tentativi di ristabilizzare la situazione nel quadro di una crescente sfida internazionale (dei Brics). Avendo, da una parte un declinante network globalista (ad occhio costituito da grandi banche, istituzioni di regolazione, reti professionali e agenzie di servizio, alcune decine di migliaia di grandi imprese, potenti think thank massicciamente finanziati, molti media e professionisti del settore, molti politici), e dall’altra un raggrumarsi ancora frammentario e contraddittorio di interessi e desideri (i cui confini si chiariranno per strada). In particolare, Trump sarebbe stato eletto (e rieletto) da un network in formazione, ma dotato di potenti agganci di potere e in sincronia affettiva con una potente corrente sociale, per riportare in termini controllabili la proiezione di controllo dalla quale dipende la stessa possibilità di accumulazione, in qualsiasi forma. 

Quindi per:

  1. Restringere le catene logistiche bisognose di protezione, e ridurre drasticamente i costi di protezione sostenuti in proprio,
  2. Rinegoziare il multilateralismo e quindi i margini di autonomia economica degli attori principali (USA, Europa in via di disarticolazione, Russia, Cina, Giappone),
  3. Rigarantirsi gli spazi di autonomia strategica, e quindi reindustrializzare e ribilanciare il commercio.

Una delle cose decisive da osservare (in parte anche in Biden) è che questo rivolgimento presuppone la messa sotto controllo da parte dello Stato delle forze animali del capitale mobile (facendo leva su quelle delle diverse forme di capitale fisso), dunque l’affermazione della “logica territorialista” (Arrighi) alla scala opportuna. Ma un impero americano sempre più sfidato, che non può più essere certo di controllare i meccanismi estrattivi che nutrono la sua debolezza (la mancata produzione, l’eccesso di consumo, la dipendenza dai flussi finanziari, l’insostenibile centralità del dollaro) deve ripristinare prima che sia troppo tardi l’autentica fonte di sovranità statuale: il controllo della domanda interna. Ciò può avvenire solo se si pongono sotto controllo responsabile, se si riconducono alla logica della potenza dello Stato e non del singolo agente, i flussi di capitale e se si commercia su un piano di parità. Comunque su un piano appropriato.

Ecco la questione.

Per interpretare questi eventi, alla luce della vittoria rinnovata di Trump (e Vance) tento perciò le seguenti tesi:Trump è espressione dell’esaurimento per estenuazione, soprattutto sociale, e dopo numerosi tentativi falliti, del modello di accumulazione per spoliazione del liberismo. Tale modello fallisce soprattutto per l’aumento della concorrenza internazionale (come avvenne nel ciclo di fine Ottocento e inizio Novecento descritto da Michel Polanyi[10] che pose termine all’egemonia inglese).

E’ quindi espressione del tentativo di trovare una nuova formula politica di gestione della situazione.

Parte necessaria di questo tentativo è il superamento con assorbimento-incorporazione e quindi funzionalizzazione delle spinte popolari. Il populismo deve diventare forma di governo e rientrare. Al contrario del tentativo di Obama, questo avviene sul piano del “nazionalismo imperiale” (un poco come fece Benjamin Disraeli[11], primo Ministro inglese nel 1868 e nel 1874-80, che offre alle classi lavoratrici organizzate dai cartisti e dai protosocialisti l’orgoglio di appartenere ad un Impero e il relativo ‘dividendo’).

La ricerca di un “dividendo imperiale”, intorno al quale ritrovare l’equilibrio interno necessario per vincere (pacificamente si spera) la sfida storico-epocale con la Cina, deve perciò passare per l’estrazione dalle province (principalmente l’Europa, come peraltro tentava di fare Biden), e la creazione di una nuova coalizione di potere, con referenti sociali precisi.

Quindi per la ricerca di una soluzione storica che abbia la forza di riattivare un ciclo di egemonia che rivoluzioni conservando, per stabilizzare l’impero e la nazione insieme (questa è la novità direi), sopendo e reprimendo e creando nuova gerarchia.

Ci sono delle cose principali e delle cose secondarie in questo passaggio:

  1. Le principali sono la nuova forma del progetto imperiale, con un’aspra riorganizzazione del mondo su base presumibilmente bipolare, e una nuova divisione dei compiti e delle gerarchie che ne consegue. Perderanno, o almeno questa è l’idea, i centri industriali e finanziari semi-rivali (la Germania, l’Italia, il Giappone, la Francia probabilmente l’Inghilterra) se non accettano di stare al loro posto di fortini di confine.
  2. In questa struttura d’ordine, potrebbe esserci uno spostamento relativo di ricchezza dalla economia dell’intrattenimento e immateriale, privilegiata nella fase finanziaria, a quella produttiva. Non è necessariamente una buona notizia nelle condizioni della tecnologia contemporanea e perché servono competenze diverse. Ma potrebbe essere necessario in un mondo nel quale la Cina laurea molti più ingegneri (e migliori) di tutto l’Occidente messo insieme, ed in India il doppio (che è dieci volte il numero USA) e nel quale l’Iran laurea come gli USA, la Russia il doppio.
  3. Il “Nazionalismo imperiale” potrebbe essere la nuova forma ideologica adatta a questa configurazione (che richiederà anni per affermarsi) che, nella versione Usa, potrebbe essere vestita di universalismo predatorio esattamente come il progressismo liberal, ma sotto vesti di diverso colore (che all’inizio confonderanno).

Tra le secondarie, che se questa ipotesi è fondata diventeranno presto lotte di retroguardia contro fantasmi senza vitalità, ci sono:

  1. La critica alla finanziarizzazione che in modo polare vede l’industria (soprattutto hard) come “buona”; né l’una né l’altra sono autonome, ma sono entrambe incorporate nel sociale e nel politico e si vedrà sempre meglio.
  2. La lotta al post-moderno, al politicamente corretto (o meglio, ai suoi abusi identitari), ai costumi (seguendo il pifferaio che ci porta in giro sui social, mandandoci continui segnali ai quali come cani di Pavlov reagiamo dividendoci, intrattenendoci, esibendoci e facendoci osservare, schedare, utilizzare).

Mi fermerei qui.


[1]https://tempofertile.blogspot.com/2014/03/la-battaglia-di-obama-per-fare-il-mondo.html

[2]https://tempofertile.blogspot.com/2014/01/steven-rattner-il-mito-della-ripresa.html

[3]https://tempofertile.blogspot.com/2016/02/gig-economy-o-sharing-economy-della.html

[4]https://tempofertile.blogspot.com/2015/01/barac-obama-discorso-sullo-stato.html

[5]https://tempofertile.blogspot.com/2016/02/verso-la-societa-freelance-sanders-e.html

[6]https://tempofertile.blogspot.com/2017/01/donald-trump-barac-obama-discorsi-di.html

[7]https://tempofertile.blogspot.com/2019/01/kiran-klaus-patel-il-new-deal-una.html?q=trump

[8]https://tempofertile.blogspot.com/2017/05/donald-trump-intervista-alleconomist.html

[9] – Una “fase” che si presenta quando lo stato di sviluppo delle forze produttive in competizione le une verso le altre porta ad una riduzione del saggio di profitto tale da implicare un “disimpegno” (o, nei termini di Streeck, uno “sciopero”). A questo punto gli agenti economici, utilizzando le infrastrutture messe a disposizione dagli Stati e prodotte nella fase precedente di investimento, spostano gli investimenti sul terreno finanziario e questo si espande in cerca di “terreni vergini” in cui rintracciare occasioni più convenienti (o che possano essere ritenute tali nella trasformazione finanziaria, con gli opportuni strumenti ed artifici, come CDO, strumenti assicurativi, etc.). La fase finanziaria è una cura a breve termine per il “ristagno dei capitali” (secondo la dizione di Hicks) e quindi per l’esistenza di una sovrabbondanza di capitali “liberi”. Ma una sovraccumulazione è intrinsecamente instabile e porta a continue tendenze al crollo, fino a che non interviene nuovamente la “logica territorialista” ad assorbirli (spesso nelle spese del sistema militare-industriale).

Secondo questo schema idealtipico Trump sarebbe il primo segnale di una inversione di logica che continua anche, se pure in forma diversa e sotto la spinta di industrie in parte diverse (in particolare quelle militari nell’ultima fase e quelle della new economy e ambientale nella prima) anche con Biden.

[10]https://tempofertile.blogspot.com/2016/08/karl-polanyi-la-grande-trasformazione.html

[11] https://it.wikipedia.org/wiki/Benjamin_Disraeli

Fonte articolo: https://tempofertile.blogspot.com/2024/11/poche-tesi-provvisorie-sulla-rielezione.html

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