Non sono nato sovranista. Anche perché sono vissuto nell’Italia del dopoguerra. Un paese che aveva conosciuto il sovranismo stupido e, all’occorrenza feroce, del fascismo: quello della o accentata al posto della ho, del passo dell’oca, della durezza spietata della razza superiore nei confronti di slavi, libici e abissini, del culto della guerra. E che l’aveva rifiutato al punto di cancellarlo dalla sua memoria storica.
Naturalmente, chi aveva vissuto in un ambiente antifascista non poteva essere sovranista. Anche perché l’esterofilia (“abbiamo preso Chisimaio”, diceva mio padre, dove l’”abbiamo” si riferiva agli inglesi; anch’io lo dicevo, suo modesto discepolo, seguendo e mostrando sull’atlante l’avanzata dell’Armata rossa) era parte essenziale della cultura antifascista. In questo in “concordia discors” con gli italiani, esterofili perché sempre preoccupati di “non essere all’altezza” (è l’immortale “che figura ci facciamo all’estero” con il quale Aldo Fabrizi, in “Guardie e ladri”, inseguendo Totò, assieme all’americano da lui truffato gli chiede di farsi catturare in nome della patria); ma anche perché convinti che le loro istituzioni pubbliche non reggano mai il confronto con quelle degli altri paesi.
Con l’andare dei decenni sono diventato asovranista. L’Europa e l’occidente non erano il massimo. Ma erano anche lo spazio in cui l’Italia aveva potuto crescere nell’arco di decenni; e dove le maggiori forze politiche avevano saputo combinare l’adesione alle regole e alle alleanze con la loro interpretazione limitata e difensiva e, soprattutto, con la capacità di una gestione autonoma delle nostre politiche mediterranee e mediorientali.
Il sovranismo è venuto dopo. Nei decenni che hanno seguito la “rivoluzione” di Mani pulite e del partito di “Repubblica”. E, attenzione, non tanto per l’ostilità all’Europa ( il cui difetto maggiore è quello di non esistere politicamente), ai suoi trattati, alle sue regole e ai suoi comportamenti (nel gergo politico un avversario ma non il nemico principale) ma per il sentimento di vera e propria vergogna che provo nei confronti dei suoi sacerdoti italiani. Un atteggiamento che non si può che definire altrimenti che come di “servitù volontaria”.
Esempi? Quanti ne volete.
L’Italia è l’unico dei grandi paesi d’Europa occidentale ad aver subito senza battere ciglio (se non ansiosa di passarli in conto profitto e perdite) innumerevoli tragedie collettive e personali: dalla morte, beninteso accidentale, di Mattei, al tiro a segno di Ustica, alla tragedia del Cermis, agli assassini di giornalisti, servitori dello stato e attivisti per i diritti umani in Medio oriente e in Somalia, fino all’episodio forse più oggettivamente vergognoso di tutti, quello di Giulio Regeni, dove politici e giornalisti hanno fatto a gara nello sbarazzarsi del suo cadavere e delle sue torture pur di non dar fastidio all’amico Egitto (tralascio, per carità di patria, le vicende degli anni di piombo).
L’Italia è l’unico dei grandi paesi d’Europa occidentali a dire sissignore alle richieste altrui prima ancora che queste vengano formulate: in un ciclo che inizia con la liquidazione frettolosa dell’Iri negli anni novanta, passa per gli impegni sulla riduzione del debito e sul bilancio e finisce oggi con il frettoloso e del tutto incomprensibile adeguamento dell’attuale governo alla politica anti iraniana di Trump.
L’Italia è l’unico dei grandi paesi d’Europa occidentale a sentire il dovere (vedi Napolitano) di partecipare a guerre – come quella alla Libia di Gheddafi – scatenate da altri e in contrasto con suoi interessi fondamentali. Come è l’unico a firmare ed ad accettare per decenni, senza battere ciglio, accordi, come quello di Dublino, che, nel giro di pochi anni, si riveleranno assolutamente insostenibili per il nostro paese. Così come ad accettare di considerare come suo peccato originale e irredimibile il suo debito; al punto di non porsi neppure per un attimo il problema, elementare, della sua rinegoziazione. Attenzione: il momento della verità è assai più vicino di quanto si pensi. E porterà all’irresistibile franare dell’ordoliberismo, dell’austerity , del “sistema Europa” costruito su queste basi e delle forze che l’hanno sostenuto.
In tutto questo le nostre occasionali gesticolazioni – di precedenti governi o di questo – sono epifenomeni, fumo negli occhi; utili a coprire la realtà di una classe dirigente, politica, economica, mediatica che, al dunque, tifa regolarmente per l’Europa, per la Commissione, per lo spread, per gli investitori, per i mercati, insomma per gli altri.
Che fare allora? Come reagire? Personalmente penso che i nostri nemici principali e più immediati non siano la Ue e i suoi trattati. Ma piuttosto classi dirigenti che in Italia come in Europa hanno fatto di un conservatorismo cieco a servile la loro bandiera; sino a portarle ambedue alla rovina.
E, allora, per favore, nessun ripiegamento nazionale e nazionalista. Nessun isolamento o isolazionismo. Ma ricerca, tra le macerie, delle più ampie alleanze e delle comuni idee forza per ripartire. In Italia e in Europa.
Fonte foto: Il Sole 24 Ore (da Google)