Premessa: come siamo arrivati alla situazione attuale
Le condizioni di vita e di lavoro sono decisamente peggiorate dopo la pandemia. Anche gli strumenti di controllo sulle maestranze sono stati intensificati e con essi le norme, i codici di comportamento, l’obbligo di riservatezza e fedeltà aziendale.
I mesi pandemici hanno rappresentato una svolta anche se la stragrande maggioranza di noi era impegnata a salvarsi la vita, a scappare da luoghi affollati nella ricerca di qualche dispositivo di protezione individuale, lavorando in smart con decurtazioni economiche o perfino rinunciando a settimane di salario per evitare i contagi.
Dalla pandemia in poi gli aiuti statali alle imprese sono stati strumenti indispensabili per scongiurare la crisi, o meglio per rinviarne gli effetti deflagranti e tamponare una situazione economica e sociale devastante. Ma negli anni pandemici numerose aziende di determinati settori hanno accumulato enormi profitti e distribuito maggiori dividendi tra gli azionisti, mentre crescevano le disuguaglianze economiche, sociali e salariali ma anche la ricchezza indirizzata ai profitti. Si diffondono ammortizzatori sociali (di scarsissima entità), sgravi e aiuti alle imprese, deboli piani statali di sostegno al reddito familiare… e da lì prendono le mosse le politiche di bonus, che ormai dominano a livello locale modificando radicalmente modalità e prospettive del welfare, individualizzando le prestazioni erogate attraverso il ricorso alla monetizzazione o a dei servizi che poi si traducono in buoni alimentari, sconti in bolletta, sgravi fiscali alle imprese, fino al taglio delle tasse sul lavoro.
Questa premessa è indispensabile per comprendere da dove inizi la recrudescenza di una crisi sistemica, percepibile in realtà già da molti anni ma nascosta dietro l’illusione che delocalizzando le produzioni o costruendo un variegato sistema di appalti e subappalti all’ombra del pubblico e del privato si sarebbe raggiunto un fondamentale obiettivo: la riduzione del costo del lavoro. Come? Creando una forza lavoro di serie A e una di serie B, destinando intere filiere produttive alla gestione indiretta attraverso il sistema delle cooperative (vere o spurie che fossero\siano), creando un mix tra delocalizzazioni, appalti al ribasso, riduzione del costo del lavoro, incrementando i ritmi, alimentando un sistema di controllo sulle maestranze (fino all’inserimento nel codice penale di nuovi reati che prevedono pene pesanti e sono costruiti ad arte contro i picchetti davanti ai cancelli dei magazzini logistici) e diffondendo, in tal modo, paura e rassegnazione. E al contempo anche nella Pubblica Amministrazione venivano introdotti un clima da caserma e l’obbligo di fedeltà aziendale. Lo stravolgimento dello Statuto dei lavoratori è servito anche a questo, a facilitare i licenziamenti individuali senza l’obbligo della riassunzione, eccezion fatta per casi veramente eccezionali, e in fondo anche gli aumenti delle malattie professionali e degli infortuni, nonché l’alto numero di morti sul lavoro, sono la conseguenza di questo stato di cose.
Questa premessa, allungatasi in corso di scrittura, si rende indispensabile per capire cosa è realmente accaduto nei luoghi di lavoro e come siamo arrivati alla situazione odierna per focalizzare l’attenzione sulle singole questioni era prima necessaria qualche considerazione preliminare.
L’inchiesta della Fondazione Di Vittorio https://www.fondazionedivittorio.it/sites/default/files/content-attachment/FDV-CGIL_Inchiesta-Sintesi_21ott2023.pdf
Da un punto di vista metodologico lo studio è serio e condotto coi metodi di ricerca usuali per chi è attivo in questo campo: questionari distribuiti fra i lavoratori (con le dovute precauzioni che il ricercatore deve prendere per non influenzare il campione di ricerca) e analisi dei risultati, almeno in parte tramite associazioni statistiche. Quest’ultima espressione vuol dire che ai dati, espressi in percentuale (esempio: percentuale di risposte uguali a una medesima domanda), viene attribuito un significato in associazione con altri dati (esempio: la percentuale di risposte uguali è stata data, al 90%, da lavoratori che avevano tutti risposto in una certa maniera a un altro quesito del questionario. Per cui da ciò si possono trarre delle deduzioni; produrre delle inferenze, come si dice in gergo tecnico).
Rimaniamo tuttavia perplessi di fronte all’adozione di un campione di ricerca che, per stessa ammissione del team di ricerca, presenta le seguenti problematiche: troppe donne; pochi giovani; livello d’istruzione eccessivamente elevato; troppi intervistati del Centro Italia e pochi del Sud; pochi stranieri; dimensionalità d’impresa troppo alta (quasi solo aziende grandi o medie); tasso di sindacalizzazione troppo elevato. Simili caratteristiche possono facilmente produrre delle distorsioni:
- la ridotta percentuale di lavoratori non autoctoni probabilmente inficia in parte le conclusioni della ricerca, perché quella non autoctona è la forza lavoro che gode di minori tutele, subisce il ricatto del permesso di soggiorno legato al rapporto di lavoro (niente rinnovo di contratto = niente più permesso di soggiorno), e percepisce salari decisamente più bassi, che conducono a condizioni di vita e lavorative spesso precarie;
- l’eccessiva presenza di lavoratori di imprese grandi e medie lascia fuori quelli delle piccole, dove non esiste la contrattazione di secondo livello, nonostante parte del questionario somministrato si articoli attorno alla questione di questo tipo di contrattazione;
- fra gli intervistati il tasso di sindacalizzazione è molto elevato, quando invece gli iscritti al sindacato sono in continua diminuzione (tanto che oramai i pensionati costituiscono la maggioranza degli aderenti ai sindacati rappresentativi). Siamo certi che intervistando più lavoratori non iscritti i risultati della inchiesta sarebbero stati assai diversi, specie se si considera che il numero di RSA/RSU/RLS intervistati è superiore al numero di lavoratori senza tessera (!);
- a nulla vale specificare che il campione «rappresenta l’opinione di una platea specifica: le lavoratrici e i lavoratori intercettati dall’inchiesta attraverso le reti sindacali della CGIL». Il rischio è che i dati vengano interpretati sulla base della linea politica della Cgil, ossia che le domande somministrate diano luogo, tramite le risposte dei lavoratori Cgil (che almeno parzialmente hanno assorbito la linea del sindacato), alla rilevazione di dati che confermano i motivi sottesi alla scelta di tali domande. Per spiegarci forniamo un esempio: «Si registra una relazione tra i livelli più elevati di retribuzione e i contesti nei quali è presente un accordo aziendale/di secondo livello: tra chi ha un reddito da lavoro che supera i 35.000 euro netti annuali, oltre il 70% dichiara la presenza di un accordo aziendale/di secondo livello; tra chi ha fino a 15.000 euro, questa quota non supera il 23%». In questo caso si rischia di auto-convincersi del fatto che la presenza di accordi di secondo livello comporti una retribuzione salariale tendenzialmente più alta, quando in realtà potrebbe essere stata la presenza di un tasso di sindacalizzazione più elevato fra i lavoratori di fascia alta e di aziende grandi (talvolta anche per via di comportamenti clientelari messi in campo dalle organizzazioni sindacali stesse) a determinare questo risultato di analisi. Comunque sia, nonostante per giudicare si debba aspettare l’uscita dei risultati dell’inchiesta, è evidente come si sia coltivata l’illusione che siano proprio gli accordi di secondo livello ad aumentare il potere di acquisto, quando invece rappresentano la pietra miliare di un sistema funzionale all’accrescimento della produttività, specie considerando i numerosi istituti contrattuali sospesi tra deroghe e intese a perdere. Il modello “cislino” ha fatto breccia anche in casa Cgil, tanto che sono stati proprio i salari (intesi sia complessivamente che nella loro componente base) ad avere accumulato una consistente perdita del potere di acquisto, tra paghe orarie basse e il ricatto dello straordinario per aumentare l’importo di buste paga sempre più leggere.
Ma veniamo alle considerazioni finali del documento:
- la scarsa propensione all’innovazione e ai processi formativi è parte integrante delle politiche improntate a un basso tasso d’investimento e che puntano, all’opposto, sulla riduzione del costo del lavoro. Ma anche sui processi innovativi e tecnologici dovremmo sciogliere un nodo rilevante, cercando di capire se siano finalizzati ad accrescere la produttività o a migliorare, anche e in buona parte, le condizioni lavorative e di vita. Per anni il sindacato ha invocato l’innovazione senza mai chiedersi quali fossero le finalità reali di questi processi e i dati della ricerca potrebbero, ancora una volta, essere il risultato di tale comportamento irresponsabile: da parte dei lavoratori, infatti, viene registrato il consistente timore di riduzione del personale ma non di una riduzione dovuta a sostituzione tecnologica. Anzi, la maggior parte degli intervistati pensa che la tecnologia migliorerà la qualità del lavoro (seppure una minoranza consistente, circa un terzo, è convinta che aumenterà i ritmi);
- molti degli intervistati mostrano maggiore lungimiranza del proprio stesso sindacato, tanto che si aspettano un futuro di delocalizzazioni e tagli al personale;
- si comprende come la rilevazione diffusa di sotto-inquadramenti (livelli contrattuali più bassi di quanto spetterebbe al dipendente), aumento dei ritmi (per oltre un terzo degli intervistati) e dilatazione del tempo di lavoro rappresentino problemi rilevanti per la forza lavoro, a conferma dell’estrema debolezza che contraddistingue oggi l’istituto del contratto nazionale, specie laddove esistano deroghe che rinviino alla contrattazione di secondo livello. Tuttavia i dati potrebbero essere sottostimati, sempre in ragione dell’elevato tasso di sindacalizzazione del campione, che rispetto alla media nazionale rifletterebbe una precarietà del rapporto di lavoro relativamente scarsa e un’anzianità (e migliori condizioni di lavoro) relativamente alta. Si consideri, tanto per fare un esempio, che la media oraria settimanale per i full-time intervistati è di sole 38 ore… roba d’altri tempi;
- particolarmente importante è l’opinione, diffusa e raccolta nell’inchiesta, che critica la rigidità degli orari e il mancato coinvolgimento delle maestranze nella definizione degli obiettivi. Argomento assai scivoloso, che potrebbe rilanciare la vecchia proposta della socialdemocrazia del secolo scorso per una rappresentanza operaia dentro i consigli di amministrazione aziendale (nella pia illusione di influenzare le politiche del lavoro e le strategie aziendali) e anche l’idea che la flessibilità degli orari sia una sorta di valore aggiunto utile a migliorare la qualità della nostra vita. L’approccio agli orari e all’organizzazione del lavoro dovrebbe essere improntato a un criterio di fondo: non subire aumenti della produttività e dei ritmi in cambio di orari flessibili, evitando che le settimane corte diventino strumenti di controllo e direzione nelle mani dei padroni e non conquiste sindacali. Vogliamo essere ancora più chiari: indirizzare i quesiti verso richieste di maggiore flessibilità oraria può, al limite, anche essere utile per comprendere tipologie e caratteristiche dei bisogni individuali dei lavoratori, ma bisogna ricordarsi che la gestione oraria resta subalterna all’accrescimento della produttività, proprio come richiesto da Confindustria. Se si pensa che la liberazione dallo sfruttamento e dai ritmi incessanti passi attraverso un lavoro per obiettivi si finisce con l’acquisire un punto di vista datoriale e non conflittuale, men che mai rispettoso della conquista di nuovi tempi di vita a discapito di quelli lavorativi (molti lavoratori e lavoratrici garantiscono prestazioni anche nel tempo libero semplicemente rispondendo a chiamate, messaggi whatsapp ed e-mail). Infine è del tutto inaccettabile, anche dal punto di vista della disciplina d’analisi, che le categorie di autonomia e controllo vengano declinate nei termini di flessibilità oraria, flessibilità operativa (modalità di svolgimento della mansione più o meno discrezionali) e partecipazione alla definizione degli obiettivi aziendali. Va bene per la flessibilità operativa, ma che la fruizione di maggiore flessibilità oraria e possibilità di condividere segmenti delle strategie d’impresa siano associabili a una maggiore autonomia per i lavoratori dipendenti è pura ideologia e andrebbe, perlomeno, supportata da un tentativo di analisi ad hoc (comunque quanto mai improbabile);
- l’inchiesta illustra poi come numerose siano le ore di straordinario non pagato e perfino non computato come eccedenza oraria da recuperare successivamente, il che ci riporta a una condizione di mera subalternità e di costante imposizione di prestazioni aggiuntive al di fuori di ogni regola contrattuale. Bene che si evidenzi la trasversalità del lavoro fuori orario, ma questa viene interpretata (almeno nella Sintesi) come trasversalità rispetto al livello di qualifica (bassa/alta), anziché al settore lavorativo. Un sindacato interessato a cogliere le potenzialità politiche che incontra dovrebbe almeno evidenziare subito, per prima cosa!, la presenza intercategoriale di contraddizioni e problematiche, specie quando evidenti, sentite e in palese contrasto all’ordine giuridico dello Stato;
- si rileva che sono più frequenti le denunce per malattia professionale che per infortunio, con percentuali di mancato riconoscimento e mancata denuncia piuttosto basse… anche qui, però, dobbiamo ricordare che si tratta di lavoratori sindacalizzati. Un vasto campione degli intervistati, poi, dichiara di avere accumulato un diffuso stress, con ripercussioni sulla sicurezza lavorativa e sulla salute. Le statistiche degli infortuni e delle malattie professionali sono eloquenti… la stessa idea del benessere organizzativo altro non è che la condizione prestabilita dal datore per accrescere la produttività dei singoli. E se è vero che «i due problemi più diffusi sono “mal di schiena e dolori articolari” (67,6% dei rispondenti) e “stress” (65,5%)», nonché che lo stress è più diffuso fra impiegati, venditori, ecc., e meno fra gli operai (arrivando comunque quasi al 50% del campione), lo studio afferma che «Un rispondente su quattro (24,4%) giudica la prevenzione dei rischi per la salute e sicurezza nella propria azienda come insufficiente e questa incidenza è maggiore nelle imprese/enti meno innovative [corsivo nostro]». Questo non ci convince: altre analisi mostrano una maggiore incidenza di disturbi come lo stress lavoro-correlato fra i lavoratori digitalizzati piuttosto che tra coloro i quali, pur trovandosi nella stessa azienda dei primi, svolgono le medesime mansioni ma senza gli ausilii tecnologici. Che l’opinione degli intervistati sia il riflesso di una scarsa coscienza di classe? Che sia il frutto della propagazione della “coscienza sindacale” Cgil, che punta sulla co-gestione dell’innovazione con l’azienda? C’è chi ha documentato la diffusione di un giudizio negativo sul rapporto lavoro tecnologico-salute personale [Fontana, 2021, p. 248], per quanto sempre sulla scorta di analisi per forza di cose parziali. Per una corretta interpretazione dell’inchiesta Cgil, però, sarebbe necessaria un’ulteriore articolazione del dato, fra chi considera i rischi per la salute come dovuti all’organizzazione aziendale del lavoro e chi pensa che siano invece una variabile indipendente;
- la questione della coscienza politico-sindacale è importante anche in relazione al rilevamento delle priorità individuate dai lavoratori. La principale differenza tra sindacalizzati e non è sul fatto che, rispetto ai primi, i secondi sono maggiormente interessati alla retribuzione (anche per quanto riguarda i premi di produttività) e al welfare aziendale, mentre i primi, pur rispecchiando le stesse inclinazioni, pongono un po’ più l’accento su questioni come i carichi di lavoro, gli orari, la salute e la sicurezza, le stabilizzazioni contrattuali. Segno, forse, che la diffusione di forme di consapevolezza, quantunque parziali, favorisca una percezione più globale del rapporto di lavoro e dei propri interessi. Nel campione di lavoratori v’è, infine, una propensione generale per la contrattazione nazionale anziché per quelle di secondo livello, europea, socio-territoriale, di appalto/sito/filiera.
Da queste considerazioni sembrerebbe che la finalità della ricerca non sia quella di fare i conti con l’irrisorio potere di acquisto dei salari italiani ma di potenziare un modello di contrattazione, da estendere alle piccole aziende, che nel corso degli anni ci ha “regalato” bassi salari e scarse tutele, nonché la tacita accettazione del criterio della produttività come faro guida assoluto. Aspettiamo la pubblicazione della ricerca, ma le premesse non sono buone.
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