Il fanatismo è nient’altro che una forma mentis e, in quanto tale, “viene prima” delle certezze espresse da un determinato soggetto: non è raro – anzi, è piuttosto frequente – che nel corso degli anni il fanatico rivolga la sua attenzione a questioni e temi diversi e persino antitetici, passando ad esempio dall’esaltazione di un’idea politica alla sua furiosa demonizzazione oppure cambiando radicalmente campo: la giovane beghina può risvegliarsi a mezza età salutista e vegana dopo aver smarrito il Vangelo in soffitta.
Trattandosi di una tendenza insopprimibile e “interclassista” essa inevitabilmente alligna anche a sinistra, e proprio il ripiegamento su se stessa di una cultura in altri tempi vitale, la sua odierna, conclamata incapacità di incidere hanno reso più evidente e forse acutizzato il fenomeno. Nei periodi di crisi l’essere umano è naturalmente portato a rifugiarsi nel porto sicuro di convinzioni radicate e incrollabili che, semplificando la realtà, hanno l’effetto di rassicurare.
Un marxismo di maniera si presta alla bisogna se fornisce al viandante una mappa per orientarsi in un mondo che di quello concretamente esistente è una versione meno complessa e in astratto più “coerente”. In sintesi: un Marx formato bignami e “sproblematizzato” diviene un dispensatore di assiomi e verità assolute spendibili in qualunque occasione. In un periodo storico contrassegnato da confusione, incertezza e repentini mutamenti, problemi che si presentano in una veste inedita vengono “risolti” applicando categorie ottocentesche oppure travisando specifiche conclusioni e concetti per adeguarli a una visione ideologica influenzata (se non imposta) dai ceti dominanti.
L’emozione suscitata dalla tragedia di Cutro e l’eco mediatica delle parole (inopportune) pronunciate dal ministro Piantedosi hanno acceso un infuocato dibattito in seno alla c.d. sinistra antagonista: in nome di un internazionalismo no border alcuni compagni hanno messo sotto accusa concetti come “patria” e “nazione”, a loro detta intrinsecamente fascisti. È stato nuovamente affermato un preteso “diritto di migrare” cui corrisponderebbe ovviamente un obbligo di accogliere chiunque arrivi da un altro paese.
Ora, i termini patria e nazione sono contenuti nella Costituzione repubblicana e antifascista, assai più avanzata sotto il profilo della tutela dei diritti rispetto alle normative di matrice europea affastellatesi negli ultimi decenni: già questo dovrebbe garantire che si tratta di sostantivi “innocenti” o perlomeno neutri. Che una certa destra abbia tentato di appropriarsene non cambia le cose: la parola patria, in particolare, evoca sensazioni positive poiché richiama alla mente la terra natia, i tratti distintivi di una comunità più o meno estesa, il culto degli avi. Capita, specialmente nei territori di confine e in periodi di forti tensioni, che il patriottismo trasmodi, convertendosi in perniciosa “patriomania” (il neologismo fu coniato un secolo fa dal mio conterraneo Adolfo Leghissa), cioè in nazionalismo, ma lo stesso sentimento amoroso assume alle volte connotati patologici: vogliamo perciò bandirlo dall’esperienza umana?
Diffidiamo della patriofobia: è un rimedio non migliore del male perché interviene nella stessa maniera su un organismo ammalato e uno sano. Il fatto che poi a sinistra qualcuna, in odio a un patriarcato immaginario, abbia proposto di introdurre il brutto neologismo “matria” testimonia soltanto che nell’era del politicamente corretto il femminismo si è ridotto a caricatura: un sinonimo “inclusivo” già esiste, ed è madrepatria. In tedesco ci imbattiamo in due vocaboli distinti: Vaterland indica la patria in senso lato, vale a dire la collettività nazionale, mentre Heimat il luogo d’origine, la città o il villaggio in cui si è nati e cresciuti. Impegnarsi per abbattere muri e frontiere non significa annacquarsi in un’identità indistinta, recidere le proprie radici: la fratellanza proletaria è solidarietà e comunanza di valori, tutto il contrario della fredda omologazione capitalista che priva gli individui del passato e del futuro, trasformandoli in risorse/consumatori intercambiabili. Chi auspica un’umanità uniformata dal pidgin english non è un internazionalista, ma un adepto (magari inconsapevole) del globalismo neoliberista.
Anche il presunto “diritto di migrare” è espressione di una visione del mondo capovolta, e non è arduo spiegare il perché. L’esperienza insegna che quasi tutti gli esseri umani sviluppano un forte legame, anche emotivo, con il luogo d’origine e se ne distaccano a malincuore: sul tema mi sono già soffermato in altri scritti, cui rimando. In genere chi emigra lo fa perché costretto da condizioni di vita divenute difficili o insopportabili, cioè per cogente necessità: il grand tour è uno sfizio dei ricchi. Parlare di “diritto” è allora ipocrita e fuorviante: semmai andrebbe garantito quello a vivere in pace e dignitosamente nella terra nativa. Le vittime del recente naufragio provenivano quasi tutte da paesi martoriati da conflitti in corso o recenti – conflitti provocati fra l’altro dall’aggressività occidentale (al pari di quello che oggi insanguina l’Ucraina): tocca pertanto concludere che le migrazioni in atto, oltre a essere un dramma di per sé, sono la nefasta conseguenza delle spoliazioni commesse dagli “esportatori di democrazia” – nefasta ma vantaggiosa per il Capitale, che dalla disgregazione sociale e dalla remissività di una forza lavoro polverizzata trae sicuro profitto.
Non è dunque per caso che i parenti dei naufraghi pretendono (a torto o a ragione) che i loro congiunti siano sepolti nei paesi di provenienza: l’affermazione “buonista” di un diritto di migrare cela in realtà la piena adesione a un’ideologia – quella del mercato globale – che si traduce in condotte spietate e narrazioni compassionevoli.
Meglio non infatuarsi in buona fede di cause sbagliate (più che perse).