Proporre riflessioni sui fatti di Parigi è doveroso, oltre che per il fatto in se, anche per cercare di capirne i risvolti mediatici, come ci viene proposto l’avvenimento e cosa innesca nelle coscienze. Ed è doveroso capirlo in un momento in cui è evidente che l’opinione pubblica viene indirizzata in un senso piuttosto che in un altro. Infatti sono noti a tutti gli attentati dell’Isis a Beirut, contro Hezbollah, in Kenya, così come l’abbattimento dell’aereo russo sul Sinai, ed è altrettanto evidente che in questo scenario agli attentati di Parigi viene dato un peso specifico maggiore.
Alcuni potrebbero pensare che il maggior rilevo mediatico che viene dato agli attentati di Parigi piuttosto che ad altri, sia dovuto all’ “appartenenza etnica”, al fatto che “ci riguarda da vicino” appunto perché avviene in Europa. Avviene in Europa e dunque , il nemico è in casa nostra, questo è il punto di arrivo.
In un simile scenario, sembra chiaro che il sentire comune che si crea è il sentirsi minacciati, l’essere sotto attacco. Una condizione che trova terreno fertile nella paura. Il terrorismo non fa paura per le atrocità commesse per lo meno finchè queste restano lontane; fa paura perché ora toglie la convinzione di essere al sicuro. Facendo leva sulla paura si può creare così la condizione preliminare per fare qualsiasi cosa. Per eventuali offensive e nuove aggressioni imperialiste, ma soprattutto per giustificare ideologicamente la guerra; il tutto tramite improbabili retoriche comunitarie di unità nazionale.
Fatta questa premessa, sarebbe interessante porci la domanda: chi ci attacca?
Per come la questione ci viene presentata sembrerebbe proprio (almeno per una mente semplice) che l’offensiva jihadista sia incontenibile, che gli stessi governi occidentali si trovino con le mani legate, impossibilitati nel contrastare tali azioni . Noi ci chiediamo invece: è realmente in corso un’ inversione dei giochi di forza? I governi occidentali sono davvero messi con le spalle al muro?
La cosa sembrerebbe quasi irreale, quanto meno molto strano dal momento che se si guarda indietro nella storia, nessuno o quasi è mai riuscito, dalla fine della seconda guerra mondiale ad oggi, a farla franca senza il buon volere degli USA . Significativi in questo senso , a mio avviso, il comportamento e le strategie di contenimento utilizzate in America Latina dal dopo guerra ad oggi. Esempi lontani ma che possono rendere l’idea di quanto si vuole arrivare a sostenere.
L’America Latina, come molti sapranno, è stata storicamente teatro di movimenti di guerriglia, rivoluzioni, colpi di stato militari ed eserciti controrivoluzionari “ribelli”. Possiamo ricordare, in ordine cronologico: il caso del Guatemala di Arbenz che dopo aver ridistribuito le terre e messo in discussione una delle compagnie statunitensi più potenti ( United Fruit Company) subì l’invasione di un corpo di controrivoluzionari addestrati dalla CIA e il rovesciamento del governo a seguito di un’ operazione coperta. Il caso di Santo Domingo negli anni 60, in cui il governo statunitense dopo aver rovesciato il governo in carica, a seguito dello smantellamento della giunta militare, inviò 500 marines più altri reparti dell’esercito per sconfiggere gli insorti. Il caso noto ai più, quello del golpe in Cile del generale Pinochet nel ‘73 in cui 4.500 militari cileni furono addestrati in scuole statunitensi , la creazione durante il regime militare della polizia segreta (Dina) e l’operazione condòr , un’operazione clandestina volta ad eliminare gli oppositori ovunque si trovassero, gestita da una rete composta da servizi segreti dei paesi coinvolti uniti a FBI e CIA. Ancora, il colpo di stato nel ‘76 in Argentina che portò al potere una brutale dittatura militare. Se si vogliono poi ricordare i trattamenti riservati al movimento sandinista in Nicaragua e ai vari movimenti guerriglieri di liberazione latinoamericani, si possono far presente le operazioni segrete o dissimulate, le pressioni economiche e diplomatiche, l’interventismo mascherato.
Tale quadro e gli esempi riportati (ne potremmo citare tanti altri), ci portano a credere, a ragione, che la dirigenza americana (cioè la principale potenza imperialista) usa e userà sempre la forza e la potenza di cui dispone; lo ha fatto in passato e lo fa adesso.
Resta quindi difficile credere di essere di fronte ad un attacco che rischia di mettere in discussione lo strapotere dell’Occidente. Si tratta di un inganno che viene fatto passare come verità, un inganno che consiste nel mettere in dubbio la reale forza imperiale e imperialista per chiederne, in ultima analisi, la legittimazione e il dispiegamento.
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La retorica a cui siamo sottoposti in questi ultimi giorni non fa che aumentare malsani nazionalismi. Possiamo rendercene conto constatando le differenti reazioni e i differenti modi di esprimere cordoglio nei confronti delle vittime degli attentati. Un cordoglio con una struttura piramidale, in cui al primo posto troviamo la giovane donna italiana rimasta uccisa, a scendere troviamo le vittime parigine, ancora più in basso le vittime dell’aereo russo e all’ultimo posto gli studenti dell’università in Kenya e i libanesi sciiti di Hezbollah .
Tenendo a precisare che ogni vittima è degna di essere ricordata e compianta, quello che si vuole evidenziare è come anche nel lutto, si tenda a speculare e a fare retorica, ad appellarsi a una vaga idea di comunità e nazione (ovviamente scissa da ogni discorso di classe ma questo lo diamo per scontato) e di fatto a creare delle vittime di serie A e delle vittime di serie B.
Tutto ciò porta a sentirci all’interno di un indifferenziato e non meglio definito contesto, a un richiamo all’ ”occidentalità”, in cui nella drammaticità del momento ci si racconta che non si può far niente se non abbracciare e sostenere chi ci governa; dimenticando però che se è vero che tutti sono colpiti (fra le vittime degli attentati ci sono persone di ogni estrazione sociale) non tutti ne siamo però la causa. Questa è storicamente la strategia con cui le classi dominanti risultano vincenti. La strategia che permette di nascondere le responsabilità che sono alla base delle scelte e dei risvolti politici ed economici, che ne stabiliscono le conseguenze, facendole come in questo caso ricadere nel comune indifferenziato, in cui oppressori e oppressi, cioè i responsabili di queste politiche e coloro che ne subiscono gli effetti, possano sentirsi parte di un tutto, di un grande indistinto, che come tale li unisce e non li divide. In nome della difesa interna si giustifica l’incremento delle spese militari, creando legittimazione e consenso di massa agli interventi militari, cioè alla guerra imperialista.
È importante che questo meccanismo di manipolazione ideologica venga compreso dalle classi subalterne, al fine di essere parte attiva dei processi storici e delle decisioni e opporsi alle politiche di aggressione che tornano poi a svantaggio dei più. È fondamentale che si riconosca il vero avversario, che è in casa nostra, cioè l’avversario di classe che quotidianamente ci impartisce dure lezioni attraverso lo smantellamento del settore pubblico e dello stato sociale, le privatizzazioni, la precarizzazione del lavoro e la riduzione dei salari.
Se non altro per far si che quando la “bomba” scoppierà dalle nostre parti, non ci troveremo in giro a scriverci sul cellulare di quanto è brutta la guerra.