Bruno Vespa ha annunciato che Zelensky Presidente dell’Ucraina sarà a Sanremo da remoto. La guerra imperversa, il popolo ucraino è preso tra due fuochi, ma il suo Presidente arringherà gli italiani al festival di Sanremo sulla necessità della guerra, ringrazierà per l’invio delle armi e naturalmente si può congetturare che implicitamente chiederà al popolo italiano un ulteriore sforzo: nuove bellicose elargizioni per sconfiggere il male assoluto, ovvero i russi.
Il male assoluto è la guerra in ogni sua forma, ma in un’epoca in cui ci sono “guerre etiche e, quindi, guerre giuste” non c’è meraviglia nel constatare che la società dello spettacolo è diventata un immenso contenitore belligerante, in cui in modo indifferenziato tutto è omologato sulla linea della rappresentazione senza concetto e dialettica. Nei TG finanziati con le tasse dei cittadini gli spazi dedicati a cantanti e a lanci di nuovi pezzi musicali regnano sovrani. A Sanremo, dove per tradizione e senso del festival si canticchia, irrompe il Presidente dell’Ucraina, per cui guerra, annunci e musica sono tutte egualmente rappresentazioni della logica dello spettacolo che unifica ogni realtà svuotandola di verità e sottraendola al senso critico.
Sanremo è un’occasione ghiotta, la guerra è impopolare, gli spettatori sono a iosa, di conseguenza si coglie l’occasione per rilanciare le ragioni della guerra ad un pubblico reso da decenni passivo e fatalmente rassegnato all’irrazionale. Si insegna agli spettatori con tali incursioni fuori contesto che la logica e la razionalità non sono che convenzioni, si possono forzare i contesti e piegarli all’ordine del discorso dei potenti.
Sanremo è un Festival canoro, per il semplice principio logico di identità e non contraddizione non è il luogo dove fare proclami di ordine politico. In un clima di emozione e leggerezza il pubblico abbassa il proprio livello di difesa cognitivo, per cui i messaggi sono accolti con una mediazione critica più debole del solito. Si può congetturare che gli organizzatori ben sanno che in un clima festaiolo, in cui l’Italia celebra la virtù canora, gli italiani siano più “sentimentali”, e dunque le parole possono rinfocolare la “popolarità della guerra”.
La pace si allontana, la guerra rischia di diventare l’unica soluzione al conflitto. La presenza del Presidente dell’Ucraina, inoltre, potrebbe essere uno spot per il governo, il quale ha, ancora una volta, deciso di continuare a sostenere la guerra. Non ultima è la sacralità dell’audience, l’annuncio ha destato interesse, quindi vi sono buone probabilità che l’evento Zelensky possa contribuire ad aumentare i telespettatori. Parte dello spettacolo è la sorpresa del conduttore Amadeus che ha dichiarato di non essere stato informato dell’evento e di averlo saputo da Vespa come i telespettatori. La società dello spettacolo è un continuo tritacarne di chiacchiere.
La politica è nello spettacolo, al punto che un termine può sostituirsi all’altro. I giornalisti sembrano aver abdicato al loro ruolo di informatori critici al servizio della popolazione, semplicemente si schierano, ma chi è schierato non informa, fa parte della rappresentazione, rischia di diventarne l’aedo. In una democrazia bisognerebbe porre il popolo, ovvero tutti, nelle condizioni di capire la complessità e le responsabilità internazionali, in modo da condividere percorsi di uscita dalla guerra che, invece, è sostenuta. Pensiamo anche ai russi che saranno informati dell’intervento presidenziale dai loro organi di stampa e giornalisti. La pessima immagine che sarà data degli italiani non potrà che contribuire ad innalzare ulteriormente barriere e incomprensioni che non possono che favorire le scelte di Putin e dell’oligarchia. La società dello spettacolo è guerrafondaia, mentre la pace è pratica del concetto e della complessità. La logica dello spettacolo che annichilisce la razionalità e neutralizza il dissenso non può che condurre alla passività, vera premessa della guerra. Dove la rappresentazione e lo spettacolo si sostituiscono alla partecipazione, la democrazia affonda:
“. Lo spettacolo, compreso nella sua totalità, è nello stesso tempo il risultato e il progetto del modo di produzione esistente. Non è un supplemento del mondo reale, il suo sovrapposto ornamento. Esso è il cuore dell’irrealismo della società reale. Nell’insieme delle sue forme particolari, informazione o propaganda, pubblicità o consumo diretto dei divertimenti, lo spettacolo costituisce il modello presente della vita socialmente dominante. E’ l’affermazione onnipresente della scelta già fatta nella produzione, e il suo consumo ne è corollario. Forma e contenuto dello spettacolo sono ambedue l’identica giustificazione totale delle condizioni e dei fini del sistema esistente. Lo spettacolo è anche la presenza permanente di questa giustificazione, in quanto occupazione della parte principale del tempo vissuto al di fuori della produzione moderna”[1].
L’assurdo è che ormai il “re è nudo”, la decadenza è dinanzi a noi, la sostituzione della realtà storica e dei rapporti di forza con lo spettacolo sta consumando il suo tempo, le trovate spettacolari sono anche il sintomo di un sistema che teme di perdere il controllo, poiché la verità si fa sempre più palese.
[1] Guy Debord, La Società dello spettacolo, capitoli I, Paragrafo VI
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