Il saggio dal titolo “Nord e Sud. Divari economici e politiche pubbliche dall’euro alla pandemia”, uscito in libreria di recente per la Carocci editore”, scritto da Carmelo Petraglia, prof. di economia dell’ UNIBAS, e da Stefano Prezioso, componente del coordinamento della SVIMEZ e studioso di economia regionale e industriale, ha la capacità di rendere comprensibile ad un vasto pubblico un argomento complesso e specialistico come è lo studio delle politiche economiche poste in essere dai governi che si sono succeduti nell’ultimo quarto di secolo. Per i due economisti negli anni compresi tra la fine della Seconda guerra mondiale e il 1973, anno della crisi petrolifera dovuta al conflitto arabo – israeliano, l’Italia si allinea agli altri Stati ad economia avanzata entrando a far parte del gota dei paesi più industrializzati al mondo: USA, Giappone, Germania, Regno Unito Francia e Canada. Alla crescita economica dell’Italia contribuisce anche il Mezzogiorno e questo grazie alle politiche economiche e finanziarie attuate dai governi di quegli anni. Come scrivono gli autori << Gli anni del boom economico furono caratterizzati, infatti, da un processo di convergenza regionale mai più verificatosi nel resto della storia repubblicana. (…) Tra il 1952 e il 1973 l’Italia crebbe a un tasso medio annuo del 5,5% (tassi quasi “cinesi””!), mentre al Sud il tasso fu del 5%. La crescita meridionale fu trainata dagli investimenti industriali che aumentarono, mediamente, di quasi l’8% all’anno, circa due punti percentuali in più del Centro – Nord. (…)>>. Di quella crescita oggi nella Basilicata restano le aree industriali dismesse o ridotte ai minimi termini. Nell’arco di tempo considerato il ruolo dei governi è stato fondamentale. Ad ispirare il corso di quegli anni è stata la SVIMEZ, ispiratrici del “nuovo meridionalismo”. Come scrivono i due economisti << Nella visione della SVIMEZ , la base imprescindibile dell’avvio di uno sviluppo autonomo del Mezzogiorno doveva essere l’industrializzazione (…)>> Idea questa che, a parere di chi scrive, andrebbe ripresa nel contesto attuale caratterizzato dalla desertificazione industriale e demografica del Mezzogiorno. Negli anni ‘50 il triangolo industriale del Nord si stava riprendendo dalle distruzioni causate dal conflitto mondiale. I Governi dell’epoca, consapevoli che la rapida ripresa del Nord non si sarebbe tradotta, automaticamente, in una ripresa anche del Sud, posero in campo politiche economiche finalizzate al superamento del gap esistente tra le due parti dell’Italia. A beneficiare del “decollo industriale” del Mezzogiorno fu l’intera economia nazionale. Un ruolo fondamentale venne svolto dalla Cassa per il Mezzogiorno. << La “prima” Cassa – quella che dal 1950 alla fine degli anni sessanta – basò la sua azione sull’adozione di politiche attive dell’offerta orientate, all’inizio, alla creazione delle precondizioni dello sviluppo e, successivamente, all’industrializzazione esogena>>. Le risorse finanziarie furono utilizzate per costruire reti idriche e fognarie, strade, opere di sistemazione idrogeologica. Gli interventi seguirono due vie: obbligo per le partecipate pubbliche di destinare al Sud il 60% degli investimenti programmati, incentivi a favore delle imprese private che investivano nel Mezzogiorno. A partire dagli anni 70, a causa sia di fattori internazionali che interni, il processo di convergenza mirante a ridurre il divario tra Nord e Sud subisce una primo frenata che si accentuerà a partire dalla metà degli anni ‘80 e degli anni ‘90. Tra i fattori internazionali che contribuirono ad allargare la “forbice “ tra Nord e Sud sono da ascrivere la crisi petrolifera del 1973 e l’arrivo sul mercato internazionale di nuovi competitori asiatici come Corea del Sud, Taiwan, Singapore e Malaysia. I due fattori in combinato disposto imposero al nostro sistema industriale, tanto pubblico quanto privato, l’adozione di processi di ristrutturazione industriale che si tradussero in minori investimenti al Sud se non addirittura nella dismissione degli impianti industriali presenti in quella parte dell’Italia. Tra i fattori interni bisogna considerare la crisi economica e finanziaria che interessò l’Italia in quegli anni e le politiche di austerità miranti a combattere l’inflazione e il debito pubblico. Mentre il Nord si ripiegava su se stesso per reggere la concorrenza delle economie emergenti, il Sud, nonostante gli interventi degli anni ‘50 e ‘60, non era in grado di reggere la concorrenza per cui vedeva via, via decrescere gli indicatori economici che negli anni passati si erano avvicinati, e di molto, a quelli del Nord. Gli anni ‘70 del secolo scorso vedono l’istituzione delle Regioni e nel contempo un profondo mutamento dei paradigmi economici che avevano ispirato i governi fino ad allora. Prima vittima del nuovo corso il ridimensionando della CASMEZ e la successiva soppressione a far data dal 1° agosto del 1984. Come scrivono i due autori << Archiviato l’intervento straordinario per il Mezzogiorno, nel 1992 iniziò la fase degli interventi ordinari per le aree sottoutilizzate del paese. Solo nel 1998 si diede avvio alla già citata nuova programmazione , in vista dell’avvio del ciclo di programmazione 2000 – 06 della politica di coesione(…)>> I nuovi interventi sono ispirati a paradigmi culturali completamenti differenti da quelli che avevano caratterizzato le politiche degli anni ‘50 e ‘60. In primo luogo bisogna evidenziare che gli interventi non riguardarono solo il Mezzogiorno, che scompare come categorie dal lessico politico nazionale, ma le “aree sottoutilizzate” del Paese. Tra queste “aree” rientrano regioni, ad esempio, come il Piemonte investito dal processo di ristrutturazione dell’industria automobilistica. I processi di trasformazione sociale ed economica che investono l’Italia a partire dagli anni ‘70, ancora di più dagli anni ‘80 e ‘90; ridisegnano il triangolo industriale. I vertici non sono più Torino, Milano e Genova ma Milano, Triveneto ed Emilia. Questa trasformazione strutturale porta alla ribalta, grazie al titolo famoso di un saggio di Luca Ricolfi sociologo dell’Istituto Davide Hume, la “Questione settentrionale”. Sono questi gli anni di Tangentopoli e di una narrazione che vuole il Mezzogiorno come palla al piede che impediva la crescita del Nord. E’ in questo contesto che emergono a Nord, in modo prepotente, istanze localiste ben rappresentate dalle varie “Leghe”. Il nuovo corso, sostengono a ragion veduta gli autori, capovolgendo i paradigmi precedenti si pone in discontinuità con le politiche degli anni precedenti che puntavano a rafforzare la debole base produttiva del Sud. I nuovi interventi più che mirare all’accumulazione di capitale fisico e tecnologico puntano alla valorizzazione del contesto sociale e culturale. In sostanza l’idea è quella di stimolare i fattori di produzione locale in modo da avviare uno sviluppo endogeno. Il punto è che con l’affermazione di politiche neoliberali i singoli territori vengono messi in competizione tra di loro sul mercato unico europeo in modo da attrarre investimenti per lo sviluppo. Condizione perché ciò possa verificarsi è, appunto, la valorizzazione delle risorse proprie del territorio a partire dal capitale umano. Gli effetti di tali politiche sono stati limitati e quando arriva la crisi prima degli hedge found nel 2007 e poi dei debiti sovrani l’anno successivo il Mezzogiorno è ancora una volta impreparato finendo con il pagare il conto più salato. La crisi pandemica, a causa delle misure adottate per combattere il diffondersi del virus, ha contribuito ad un ulteriore peggioramento delle condizioni sociali ed economiche del Sud. Di fronte alla crisi economica provocata dalla pandemia la risposta in termini di sostegno alla ripresa economica è stata affrontata sia in ambito nazionale che europeo. Per prima cosa sono stati sospesi i vincoli di bilancio rivenienti dal Fiscal Compact introdotto dal Patto di stabilità e crescita. La sospensione di questo vincolo ha consentito ai governi di indebitarsi oltre il dovuto. Alla sospensione delle regole di bilancio si sono aggiunte una serie di facilitazioni a favore delle imprese e del lavoro autonomo. Gli autori ricordano: il programma di garanzia pubblica a sostegno dei prestiti alle imprese, il sostegno finanziario alle imprese al fine di salvaguardare i livelli occupazionali, la rete di sicurezza rappresentata dalla B.E.I, S.U.R.E. e M.E.S. . Tra gli interventi quello che ha rappresentato un cambiamento non indifferente rispetto alle politiche condotte sino ad allora dall’U.E. è il New Generation E.U. con il quale è stato finanziato il P.N.R.R. . Scopo del P.N.R.R. è quello di contribuire << a ridurre le disuguaglianze economiche e sociali, con particolare riferimento alle tre grandi questioni dei giovani, delle donne e delle regioni in ritardo di sviluppo. (…)>> a tal fine al Mezzogiorno è stato destinato il 40% delle risorse del piano. A conclusione del saggio la domanda che i due autori si pongono è se il P.N.R.R. riuscirà a colmare i divari. A leggere l’analisi dei due economisti mi sembra di evincere una buona dose di scetticismo. Scrivono << La SVIMEZ ha valutato che Regioni e Comuni del Sud dovrebbero gestire nell’intero sessennio del PNRR circa 20,5 miliardi di euro aggiuntivi , concentrati per circa il 50% nel biennio 2024 – 25. (…) Le competenze del personale degli enti territoriali del Mezzogiorno sono relativamente deboli rispetto a quelle del resto del paese. L’aggravio aggiuntivo di progettualità e capacità realizzativa richiesta dal PNRR pesa sugli enti locali, soprattutto i Comuni del Mezzogiorno, depauperati di risorse umane e finanziarie, con dipendenti sempre più anziani a causa dei reiterati blocchi del turn over, e deresponsabilizzati dalla crescente tendenza a esternalizzare funzioni essenziali delle politiche pubbliche alle assistenze tecniche delle società di consulenza. Rafforzamento e riqualificazione degli organici richiedono tempi non compatibili con le tempistiche del PNRR, e le procedure avviate per le nuove assunzioni hanno mostrate non poche falle(…) >> . Questo passaggio è fin troppo esplicativo rispetto all’impianto complessivo del P.N.R.R. Lo stanziamento di risorse così ingenti arriva su un sistema sociale ed economico impoverito da anni di politiche di austerità e di riduzione della spesa pubblica. Il dibattito in corso sull’attuazione del P.N.R.R. con i ritardi e il rischio che si debbano addirittura restituire e/o rinunciare a parte delle risorse assegnate è la presa d’atto del fallimento delle politiche economiche neoliberali e di coloro che hanno sostenuto “l’austerità espansiva”.. Gli autori, a conclusione dell’analisi, avanzano delle ipotesi che possono così essere riassunte: ritorno ad un ruolo più attivo dello Stato centrale e superamento delle contrapposizioni territoriali che finiscono con il contrapporre Nord e Sud invece di attivare politiche sinergiche tra i due pezzi d’Italia come è successo in passato. Il saggio chiude con spunti per ulteriori riflessioni sul conflitto ucraino – russo, sul dibattito in corso in U.E. circa gli strumenti da adottare per il rientro dal debito pubblico contratto durante la pandemia e sull’attuazione del PNRR. Più che una conclusione è la premessa per un altro saggio. In attesa della pubblicazione di un nuovo studio per adesso è importante leggere quello che in queste pagine ho provato a riassumere. Ultima cosa, dato importante è che lo studio è il frutto del lavoro di due economisti dell’Università della Basilicata a dimostrazione del ruolo non secondario svolto dalle piccole università spesso bistrattate e a corto di risorse finanziarie ed umane.
Fonte foto: SVIMEZ (da Google)