La mancanza di fiducia nell’informazione professionale che colpisce gran parte della popolazione è esplosa durante la crisi derivante dall’espansione del virus COVID. Il fenomeno non è da sottovalutare poiché poggia le proprie radici su presupposti comprensibili. Mai come nell’era della “fine della storia” l’informazione si è uniformata dedicandosi a sviluppare un’unica narrazione che ha irradiato specifici dispositivi di comando. Ma essi a differenza di quanto avveniva nei Regimi totalitari classici, nei quali la propaganda era imposta attraverso l’uso della forza e dell’intimidazione affinché fosse edificata una specifica retorica destinata a catturare il consenso della popolazione, vengono costruiti in un apparente sistema democratico e pluralista. Non si nutrono di bollettini governativi ma appaiono come un naturale scorrere della realtà, vestiti dall’aura della credibilità e della competenza. La specifica narrazione neo-liberale abbraccia la totalità della vita politica, sociale, economica e antropologica della comunità ma si rivela attraverso meccanismi persuasivi apparentemente docili. I paradigmi ideologici di riferimento non vengono urlati o ordinati esplicitamente, sono composti da frammenti eterogenei – marketing, informazione, pubblicità, format televisivi, intrattenimento, politica spettacolo – i quali separatamente consacrano una determinata descrizione dell’economia, della società e di ciò a cui deve aspirare l’essere umano. (1)
L’accanimento delle politiche di austerità a seguito della crisi del 2008 ha messo in crisi le fondamenta su cui poggiava quella narrazione. L’idea del “sogno” individuale da perseguire a tutti i costi, in un sistema privo delle protezioni sociali assicurate dallo Stato che un tempo – grazie alla presenza dei partiti e dei movimenti di massa d’ispirazione marxista – garantiva la popolazione dalle storture del sistema capitalistico e slegava determinati beni dai meccanismi dell’economia di mercato, ha perso il proprio appeal. L’individuo a cui è richiesta una continua prestazione con la contropartita dell’ apparente assenza di vincoli, divieti e ordini espliciti è naufragato nel progressivo impoverimento e nella assoluta incapacità di percepirsi nel futuro. Ma al tempo stesso resta ancorato a determinate parole d’ordine che poggiano le basi su una presunta razionalità d’impresa che promette gioia nell’eterno presente attraverso l’assolutizzazione del principio di libertà personale slegato da qualsiasi obbligo morale o comunitario. (2) Al tempo stesso la propaganda ufficiale – in tempo di crisi – ha perso quella sottigliezza che la contraddistingueva per avviare campagne d’informazione smaccatamente di Regime seppur ancora coperte da un manieristico pluralismo e dal fumo della democrazia formale. (3) La perseveranza con cui l’intero sistema mediatico continua a rappresentare le medesime parole d’ordine in un clima di forte crisi sociale e di mutati rapporti di forza internazionali per cui l’Occidente a guida americana non ha più la forza di esercitare la propria potestas indirecta, ha dato il colpo di grazia alla sua credibilità.
Nella situazione data l’avverarsi della pandemia ha evidenziato reazioni di pura schizofrenia anche in chi negli anni ha esercitato funzioni di critica nei confronti dell’assetto di potere liberale e della sua costola sovranazionale rappresentata dall’Unione Europea. La tendenza a non fidarsi della comunicazione ufficiale ha generato l’idea che il COVID rappresentasse un grimaldello per imporre una chiusura ulteriore del sistema democratico, anche nella sua veste formale; insomma per instaurare una vera e propria dittatura in salsa novecentesca. Nascosta in questa formulazione però appare evidente la pervicacia proprio della cultura libertaria che pone il singolo come unico soggetto in grado di rivendicare spazi di continua libertà per sé incurante di possibili limitazioni poste nell’interesse generale della comunità. Furono proprio i liberali a mettere in relazione l’avvento del fascismo internazionale del secolo scorso con l’espansione progressiva dello Stato che con la sua mastodontica articolazione opprimeva il libero corso dell’economia di mercato. Visione questa che si poneva in netta contraddizione con lo spirito che portò al concepimento delle costituzioni moderne le quali tennero conto del doppio movimento descritto da Polanyi secondo il quale alla prima globalizzazione dei mercati corrispose la reazione contraria di chiusura che diventò terreno fertile per l’espansione del fascismo. (4) Proprio grazie a questa cornice interpretativa gli stati costituzionali del dopoguerra abbandonarono la teoria del laissez-faire per fortificare la presenza dello Stato che si assumeva il compito di dirigere l’economia anche a scopi sociali riconoscendo l’esistenza di una forte diseguaglianza tra le classi.
Chi oggi nega non tanto la portata infettiva del Virus ma la sua esistenza riducendo il tutto a un complotto ordito da qualche grande capitalista e da Governi compiacenti o addirittura dalla Cina per avviare un sistema repressivo e disciplinare denominato “dittatura sanitaria”, non fa che iscriversi a un preciso filone politico/culturale preso in prestito direttamente dagli Stati Uniti d’America. Per ovviare alla crisi della narrazione neo-liberale sul singolo che ha il dovere di condurre un’esistenza votata alla performance, si fa riferimento alla cultura sudista americana (dixie) sul mito dello stile di vita genuino scevro da intromissioni indebite del Governo federale e delle grandi banche usuraie, portatore dell’originale sentimento americano non inquinato dalla cultura yankee germanico/protestante legata all’espansione del grande capitale industriale. I confini della libertà del piccolo proprietario vanno difesi anche con le armi. (5) Questa cultura è magicamente apparsa – a seguito della pandemia – anche in quel contesto di critica che negli ultimi dieci anni ha messo in discussione la novella favolistica sulla natura dell’Unione Europea portatrice di benessere e pace tra i popoli.
A ben vedere all’interno della critica ai trattati istitutivi della UE, i quali impongono la costituzionalizzazione dell’economia di mercato attraverso l’azione di un forte apparato centrale posto a tutela della concorrenza con il compito di spegnere sul nascere il conflitto tra capitale e lavoro, si scorgono oggi delle assonanze proprio con i sentimenti individualistici connessi al mito della frontiera americano. Attraverso l’ondata negazionista sul COVID una parte dell’antieuropeismo si slega dalla difesa della Costituzione per abbracciare la rivendicazione della totale libertà del singolo anche di fronte alla doverosa protezione della salute pubblica. Come se la difesa della Costituzione del ’48 fosse stata fino ad oggi un semplice specchietto per le allodole. Al contrario questo antieuropeismo appare del tutto compatibile con chi in America contesta l’ingerenza nella vita individuale del Governo federale. Ci si oppone in questo modo a una sorta di tradimento dell’ordo-liberismo delle origini.
Difatti gli autori ordo-liberali – che hanno ispirato la stesura degli stessi trattati – immaginavano anch’essi un mondo arcadico dove la vita del singolo era condotta all’interno di piccoli villaggi pacificati e dove tutti dovevano partecipare alla vita sociale da produttori. Il Governo seppur concedendo una discreta autonomia ai piccoli Land interveniva per proteggere una sana concorrenza evitando concentrazioni di capitali e intromissioni indebite nel mercato. Tutti potevano anzi dovevano diventare produttori. Questa era l’economia sociale di mercato che, a differenza della vulgata popolare secondo la quale il termine sociale starebbe a indicare una limitazione alla libertà di iniziativa economica e un freno allo sfruttamento capitalistico, voleva rappresentare una diffusione capillare dei meccanismi del mercato tra la popolazione che appunto si socializza. Ogni individuo è un’impresa e come un’impresa dovrà sottostare a determinate regole di condotta. In buona sostanza si contesta la UE perché è troppo poco ordo-liberale e con la protezione del grande capitale trans-nazionale affossa la virtuosa imprenditoria nazionale la quale richiede sempre maggiori spazi di libertà di azione possibilmente per aumentare la quota del proprio profitto ai danni dei lavoratori.
Questo nuovo sentimento che assolutizza l’individualismo e così cerca di superare la crisi del singolo incatenato nelle strettoie della società della prestazione ha dato manforte a Confindustria per rivendicare la protezione degli interessi di profitto e al Governo per deresponsabilizzarsi dalla crisi economica che cadrà soprattutto sulle teste dei lavoratori. Con evidenti contraddizioni. Proprio nel momento in cui si cercava di indirizzare l’azione del Governo al fine di proteggere la salute pubblica con interventi in controtendenza rispetto al ciclo neo-liberale e quando ci si doveva apprestare nel mettere in moto un vasto movimento di opinione per slegarsi dai vincoli di spesa europei e dalle condizionalità previste dai fondi di aiuto agli stati, insomma quando si faceva strada nel popolo (6) una rinnovata coscienza politica di opposizione ai meccanismi perversi della globalizzazione dei mercati e della libera circolazione dei capitali, ecco che la spinta libertaria dei movimenti “no mask” ha condizionato sia gli individui ormai assuefatti e perennemente attratti dalla narrazione permissiva sulla supremazia del soggetto, sia lo Stato il quale non vedeva l’ora di riaprire tutte le attività senza alcun obbligo di spesa sociale e limitando nel tempo le protezioni poste a tutela dei lavoratori. Dopo la riapertura indiscriminata di tutte le attività economiche l’unica spia della cosiddetta “dittatura sanitaria” si riduce nell’obbligo di indossare una mascherina mentre i capitali circolano liberi e spensierati. Con i primi risultati tangibili: il mancato rinnovo di quota 100 e il tentativo di indirizzare il Reddito di Cittadinanza verso una nuova riforma del lavoro ancor più punitiva per chi il lavoro lo perderà a seguito della crisi.
Note:
1 – Si riprende la distinzione tra Consenso duro e Consenso molle specificata da Philippe Muray quando avvertiva della pericolosità di un totalitarismo non tirannico il quale tende a delegittimare la Critica. Nei Regimi assolutistici non veniva nascosta l’opposizione e non si negava all’individuo la possibilità di organizzarsi eroicamente per combattere le dittature esplicite. Certo la repressione si abbatteva con l’uso della forza e della violenza di regime ma non si negava l’esistenza degli oppositori. Al contrario Muray così descrive la nuova era della persuasione forzata “Il dispotismo del Consenso molle ha tutt’altre caratteristiche, ugualmente spaventose. La sua forza sta nell’essere quasi invisibile e al tempo stesso effuso, diffuso, senza vie d’uscita, senza alternativa, non c’è possibilità di guardarlo dall’esterno e magari accerchiarlo, o almeno colpirlo, obbligarlo a reagire e quindi a mostrarsi, in modo che riveli così la potenza e la vastità del suo impero tirannico. Il Consenso molle trova la propria legittimazione – e gli indici di ascolto ne danno la prova quotidiana – nell’essere desiderato da tutti, da tutti considerato come estrema forma di protezione.” (Philippe Muray, L’impero del bene, Mimesis, 2017)
2 – Byung-Chul Han si sofferma sull’incapacità della psicologia freudiana di comprendere i disturbi della personalità derivanti dai diktat prestazionali in capo all’individuo contemporaneo: “L’apparato psichico freudiano è un apparato di dominio che opera mediante ordini e divieti, che soggioga e sottomette. Si manifesta esattamente come la società disciplinare, attraverso muri, barriere, soglie, celle, frontiere e guardiole. Ne segue che la psicoanalisi freudiana è possibile solo in società repressive come quella del dominio o quella disciplinare, società che fondano la propria organizzazione sulla negatività dei divieti e degli ordini. La società odierna è tuttavia una società della prestazione che si sbarazza sempre più della negatività dei divieti e degli ordini presentandosi come una società della libertà. Il verbo modale che caratterizza la società della prestazione non è il freudiano “dovere”, bensì il verbo potere” (Byung-Chul Han, Topologia della violenza, Nottetempo, 2020)
3 – Si fa riferimento alla distinzione tra democrazia formale e democrazia sostanziale, dove la prima sta a indicare il mantenimento degli organi rappresentativi senza che essi sappiano rappresentare le contraddizioni di classe all’interno della società per cui la partecipazione politica si riduce al momento del voto. Alessandro Somma descrive il fenomeno post-democratico per cui lo Stato/Governo non è più al servizio dello Stato/Società causato soprattutto dall’asservimento nei confronti del vincolo esterno e attraverso cui il conflitto sociale non è più elemento costituivo della democrazia.. (Alessandro Somma, Sovranismi – Stato, popolo e conflitto sociale, DeriveApprodi, 2018)
4 – Karl Polanyi, La grande trasformazione, Einaudi, 2010
5 – Sul tema appare puntuale la ricostruzione storico/filosofica di un certo anticapitalismo di destra che affonda le sue radici proprio nel mito della frontiera americano compiuta da Giorgio Galli e Luca Gallesi (Giorgio Galli e Luca Gallesi, L’anticapitalismo di destra, Oaks Editrice, 2019). Inoltre si raccomanda la lettura dell’articolo di Dario Fabbri apparso su Limes 8/2020 nel quale descrive l’antagonismo tra le due culture americane dixie e yankee che oggi attraverso la strumentalizzazione delle proteste afroamericane arrivano a una definitiva resa dei conti (Dario Fabbri, Sulla memoria l’America si gioca il futuro, in Limes n.8/2020)
6- Qui popolo è inteso nella sua accezione politica secondo la teoria delineata da Ernesto Laclau e Chantal Mouffe che rimandano al concetto di democrazia radicale. Il tema è stato ripreso da Giacomo Marramao che così lo descrive “L’obiettivo perseguito da Laclau è quello di una saldatura tra populismo e democrazia radicale, guidata da una strategia egemonica volta a travalicare la frontiera che separa il popolo dal suo resto operando una traduzione della logica differenziale (l’insieme delle domande disperse rivolte al potere) in una logica equivalenziale che allinea quelle rivendicazioni attorno a un significante vuoto: nella lucida consapevolezza che anche l’operazione più democraticamente inclusiva produrrà sempre e comunque un resto, cifra della contingenza di ogni pratica egemonica e, al tempo stesso, garanzia di apertura di conflitti e delle dinamiche di cambiamento”. Il populismo politico di Laclau è perfettamente inserito nella dinamica di conflitto tra capitale e lavoro e si differenzia dal populismo mediatico sui cui poggiano le basi i sistemi post-democratici e la politica/spettacolo. (Giacomo Marramao, Sulla sindrome populista, Castelvecchi, 2020)
Fonte foto: Il Fatto Quotidiano (da Google)