Foto: Corriere della Sera (da Google)
E’ evidente che il sistema di potere del nostro Paese sia entrato in una fase di crisi, legata ad un sempre più difficile governabilità di una società in crisi, nella quale crescita delle diseguaglianze, pressione migratoria, atomizzazione sociale e parallelo smantellamento del sistema delle tutele socio-lavorative dello Stato, in linea con i diktat della Ue, destabilizzano i tradizionali sistemi di controllo e pacificazione sociale, nati nella fase welfaristica dello sviluppo postbellico.
La politica, già strutturalmente debilitata dallo spostamento dei centri di decisione economica fuori dai confini territoriali entro i quali può esercitare la sua sovranità è, nel nostro Paese, in una fase specifica di paralisi sistemica. La legge elettorale è stata ideata dalla componente renziana del Pd (dietro le pressioni di Mattarella, che non voleva il proporzionale puro prodotto dalle sentenze della Corte Costituzionale) con l’intento, scientificamente ponderato, di non produrre alcun vincitore, al fine di diluire l’effetto del declino elettorale del renzismo. L’idea di corto respiro e di pura sopravvivenza che alberga dietro l’aborto giuridico e politico del Rosatellum è infatti quella di salvare il renzismo anche nel caso di una sconfitta elettorale (che i dati previsionali annunciano di portata gigantesca) rendendolo ancora, nell’ingovernabilità complessiva che si annuncia dopo il 5 Marzo, un interlocutore indispensabile per formare un Governo dopo il voto. Ciò però contribuirà inevitabilmente a riprodurre formule di Governo transitorie e fragili, molto probabilmente un Governo-Gentiloni-bis di scopo, sostenuto da un arco politico ampio (Pd, Fi, forse LeU e micro-alleati vari) con un orizzonte di sopravvivenza di un anno-anno e mezzo, finalizzato ad approvare una nuova legge elettorale più razionale, fare la legge di bilancio e riportare al voto il Paese. La previsione di un simile esito di transizione giustifica, peraltro, la totale assenza dal dibattito elettorale di temi fondamentali, come la politica estera e quella economica, sostituiti da grottesche promesse di regalie improbabili. Cui prodest ragionare di strategia se già si sa che la prossima legislatura sarà di transizione?
Ad ogni modo, ed anche se l’esito dovesse restituire una formula politica in grado di resistere per più tempo, è un fatto che il partito-architrave del sistema di potere eurista e liberista di questi ultimi dieci anni, il Pd, sia entrato in una fase di crisi strutturale, non facilmente superabile nel medio termine conservando i numeri necessari per continuare a svolgere il suo ruolo centrale negli assetti dell’establishment italiano. L’esperimento renziano, peraltro perfettamente inscritto nel DNA di un partito nato in una fase sociale di liquefazione dei blocchi sociali novecenteschi, è stato quello di fare del Pd una organizzazione socialmente anfibia, interclassista ed in grado di muoversi rapidamente fra le varie sponde della società in funzione delle convenienze del momento del sistema di potere. La componente non inscritta nel DNA del Pd e portata dall’innovazione degenerante di Renzi, però, è stata quella di superare la forma-partito pluralista che, negli intenti dei fondatori, sarebbe stata la migliore garanzia di avere una organizzazione politica con i piedi su più staffe sociali, garantendone la funzione di intermediazione socio-politica complessiva. Un bonapartismo da bar di Paese ha condotto il rignanese a demolire la struttura partitica del Pd, per sostituirla con un circolo di potere stretto attorno al segretario, scardinando radicamento territoriale e sociale, demolendo quella sia pur degenerante dialettica che albergava ancora fra chi si riteneva, molto più a torto che a ragione, erede della storia del vecchio PCI. La scissione di dalemiani e bersaniani e il conflitto acuto, non componibile, con la componente non renziana del Pd, sono sintomi di una perdita dei riferimenti sociali tradizionali, in nome di un tentativo di ricostruirne di nuovi nei bacini della destra piccolo borghese, che però non si è mai verificato, perché Berlusconi, per quanto oramai alla fine del suo percorso politico, ha resistito a sufficienza per impedirlo.
Il problema di un partito ridotto a comitato elettorale attorno al leader è che esso perde gli anticorpi per sopravvivere al declino del suo leader. L’incapacità di spostare il Pd verso il progetto di Pdr, ed il contemporaneo taglio dei riferimenti sociali ed elettorali tradizionali degli ex Ds, hanno messo Renzi in una terra di nessuno dalla quale non è capace culturalmente (e non ha la generosità umana) di uscirne, ed al contempo un partito esangue, sradicato, disabituato alla dialettica interna, non può produrre alternative politico-culturali in grado di rilanciarlo. Non è un fatto nuovo. E’ stato osservato più volte nella storia: quando il bonapartismo craxiano prosciugò il PSI, riconducendolo al partito del capo (peraltro comunque sempre più dialettico al suo interno del Pd attuale) il declino del gruppo dirigente trascinò il partito verso la fine. Oggi il Pd non riesce a produrre più alcuna idea nuova. Vecchi e logori protagonisti di una stagione chiusa, come Prodi, indicano strade vecchie e poco praticabili, come ricostruzioni di Ulivi a matrice socio-liberista come negli anni Novanta. Si cerca dentro il partito una figura di mediazione, un Franceschini, che però non emergerà perché Renzi ha già annunciato di voler rimanere abbarbicato alla segreteria anche in presenza di una sconfitta elettorale gigantesca, come quella che si prospetta. C’è da scommettere che il Pd, dopo il 5 Marzo, si trasformerà in una linea Maginot di un renzismo che ha perso il treno della storia, e si produrrà in nuovi strappi e scissioni, senza ritrovare il bandolo di una linea di governo di un Paese allo stremo e soggetto ad inedite tensioni civili e democratiche.
Dalla parte opposta, non è che il centrodestra offra garanzie di governabilità particolarmente confortanti per l’establishment. L’incapacità di Berlusconi di uscire con onore dall’agone politico, sospinto anche dai Popolari europei, spaventati dall’irruenza leghista, avrà come conseguenza che, una volta riabilitato politicamente dalla futura sentenza della Corte Europea dei Diritti Umani, che presumibilmente cancellerà gli effetti della Severino, si arriverà allo scontro finale con Salvini. Salvini che deve egli stesso dibattersi dentro un partito dove la componente governista, bossiana e maroniana, preme per un ritorno alla Lega di protesta e di Governo del passato, vedendo la torsione da destra nazionale lepenista impressa da Salvini come fumo negli occhi e promessa di una sostanziale emarginazione dalla mangiatoia del potere. La battaglia fra una leadership ancora efficace elettoralmente ma sempre più anziana e stanca, ed una leadership portatrice di una torsione populista che però fatica ad emergere per le resistenze che incontra, rende il centrodestra un oggetto poco stabile e poco promettente, in termini di governabilità, per l’establishment.
Dentro questa crisi di sistema il ruolo del M5S potrebbe emergere in termini del tutto nuovi, e ben lontani dall’atteggiamento giacobino e ribellista delle origini. Abbandonati i propositi anti-euro, fatte le dovute genuflessioni alle varie City finanziarie europee, sfocata sempre più la parola d’ordine originaria della partecipazione diretta e dell’uno vale uno, tramite elezioni interne gestite da poco trasparenti sistemi informativi amministrati dall’alto dal vertice politico-imprenditoriale del MoVimento, con Di Maio esso sta attraversando una fase di cambiamento. Si forza la natura autonomistica delle origini per cercare canali di dialogo istituzionale e inter-partitico, si annunciano tavoli di negoziato, si aprono momenti di confronto con il Quirinale, normalizzando sempre più il contenuto originariamente ribellista e giacobino del Movimento, come peraltro da sempre auspicato dalle classi dirigenti (si ricorderà l’invito di Letta a Grillo a “scongelare” il M5S, nel 2013).
Andate in dissolvenza le promesse più di rottura, indossato un abito più istituzionale nei comportamenti ed un assetto più gerarchico nella conduzione del Movimento, la parola d’ordine sempre più marcata nella sua offerta politico-culturale è divenuta quella dell’onestà. Associata ad una gestione sempre meno collettiva e sempre più personalistica, in nome di un principio di autorità non dissimile da quello delle altre forze politiche. Ed adesso gli ex grillini (perché Grillo si sta allontanando, evidentemente non più utile per un Movimento che si vuole sdoganare dall’anticonformismo delle origini) si stanno mettendo in casa mezzo Stato Maggiore delle Forze Armate, fra Comandanti della Capitaneria e generali dei carabinieri, senza contare i magistrati, anche quelli che in qualche modo aprono loro dall’esterno, per verificare possibili convergenze politiche (come Emiliano del Pd). Ed adesso Di Maio elogia Minniti e la sua politica securitaria, offrendogli una sponda di possibile ingresso in un futuro di Governo. Una politica basata sull’onestà ed il legalitarismo è quanto di più reazionario ci possa essere. Le dittature militari sudamericane nascevano sulla pretesa di riportare alla legalità. Fondare la propria azione sulla legalità come valore monotematico, e non come comportamento da associare ad una visione generale del mondo, significa infatti negare la funzione trasformatrice degli assetti che è l’essenza della politica, votarsi a difendere l’esistente.
E, d’altra parte, la pretesa onestà ha anche un versante molto interessante per i poteri costituiti in termini di politiche economiche: il contrasto alla corruzione nella Pubblica Amministrazione ha, nell’immaginario collettivo, un parallelo con la stessa funzione di intermediazione sociale ed economica della mano pubblica. In altri termini, si associa più corruzione con più Stato. Combattere la corruzione diventa quindi la comoda foglia di fico per smantellare la funzione pubblica, dare maggior spazio al mercato, ridurrei l ruolo dello Stato nell’economia e nel sociale, in linea con i più ortodossi precetti del neoliberismo imperante nelle nostre classi dirigenti. Non è un caso se le Giunte comunali grilline dichiarano guerra alle partecipate comunali, in un furore di concordati preventivi che colpiscono, a Livorno, la partecipata ambientale, ed a Roma l’azienda di trasporto pubblico urbano.
Le proposte pauperistiche del programma del M5S, incentrate sul reddito di cittadinanza, offrono un comodo compromesso sociale per tenere a bada le classi subalterne, sempre più amplificate dall’aumento delle diseguaglianze sociali e dalla precarizzazione del mercato del lavoro, e si coniugano bene con la riduzione complessiva del lavoro disponibile che sarà generata dall’imminente rivoluzione cibernetica, lubrificandone i possibili impatti in termini di opposizione sociale.
Da questo punto di vista, la proposta politica del M5s nella veste del suo attuale tandem di gestione (Di Maio-Casaleggio jr.) appare sempre più filo-establishment, fornisce garanzie di controllo sociale che i partiti logori della Seconda Repubblica non riescono più ad assicurare, diviene, se non nell’immediato, quantomeno in prospettiva, interessante. Che gli ex grillini possano diventare, in un futuro non troppo lontano, la chiave di volta diuna blindatura securitaria di un sistema in crisi?