Detesto intervenire in questo momento a caldo quando ancora il web è infestato da una marea ancora montante di idiozie sull’islam, sull’Is, sui migranti e sul resto. Come odio la retorica del mettere la bandiera francese o il “je suis…. “. Rispetto i morti e solidarizzo con i parenti e tutti i francesi, ma solo individualmente non come nazione, non come stato e tantomeno come governo al quale va il mio discreto disprezzo.
L’Islam e la Francia sono legati da un insieme di circostanze particolari che non si ripetono in altri luoghi d’Europa forse eccetto solo, ma con diversi esiti dato il minor centralismo, la minore ostentazione della “grandeur”, nel Regno Unito. Il motivo lo sappiamo tutti, è il colonialismo imperialista che portò questa nazione a spartirsi l’intera Africa e parti dell’Asia con l’allora potenza dominante, l’Inghilterra appunto. Le conseguenze sono state una decolonizzazione traumatica e l’immigrazione di vecchia data di diverse coorti di uomini e donne da quei territori all’epoca colonie (senza contare il revanscismo dei “pied-noir” uno dei pilastri fondanti del FN). Di più potremmo dire una decolonizzazione imperfetta, il legame che non si è mai voluto recidere (se non in casi estremi come l’Indocina) con i “regimi post-coloniali” spesso con governi da operetta (chi ricorda Bokassa?) collusi e corrotti fino al midollo per motivi di convenienza con l’ex-padrone. Prima conseguenza: la mania dell’intervento “umanitario” in stile USA, ma senza la grancassa mediatica, il che ci fa dimenticare come la Francia sia intervenuta direttamente negli ultimi anni in Mali, in Costa d’Avorio, in Ciad, nella Repubblica Centrafricana [1] (senza ovviamente contare le numerose operazioni d’intelligence a favore di questo o quel dittatorello, volte ad eliminare persone scomode come ad esempio Thomas Sankara). In sostanza, oltre alla Costa d’Avorio, interventismo in buona parte del Sahel che è regione a maggioranza mussulmana. Poi l’ultima escalation: l’intervento in Libia nel 2011 e quello tutt’ora in corso in Siria (senza dimenticare prima l’Afghanistan e l’appoggio alla 1° guerra del golfo). Seconda conseguenza: i “Beurs”, i ragazzi delle banlieu d’origine maghrebina o più in generale di religione islamica, tra cui molti dei futuri “foreign fighters” attentatori di CH o molto probabilmente del 13 novembre. Ricordo bene quando fui a Marsiglia per lavoro per alcuni mesi nel 1995 come appariva evidente la spaccatura tra le classi e come questa attraversasse come una ferita aperta il confine tra le etnie. Su un muro di banlieu la scritta “ISLAM VAINCRA” (l’Islam conquisterà) era quasi disperata ma conteneva un’idea del futuro. La rabbia era palpabile già allora, in una città divisa in cui girato un angolo si poteva entrare in un’altro mondo, quasi fosse il “Dar al Islam”.
La Francia ha avuto studiosi dell’Islam eccezionali in Gilles Kepel e Bruno Etienne (ma non li ha mai ascoltati evidentemente). Kepel da anni scrive di porre attenzione al problema Palestina e al “fronte interno” ai musulmani francesi che dovrebbero essere integrati con una battaglia “culturale” e non isolati nei bassifondi della società. D’altra parte secondo Etienne per alcuni teologi musulmani moderni il “Dar al Islam” ormai è il mondo: laddove esiste la comunità mussulmana. Anche e soprattutto la Francia può essere Dar al Islam e gli “altri” francesi, in quanto cristiani, sono popoli della Dhimma [2]. Questa è una concezione colta, aperta alla convivenza, non il semplificato linguaggio che apprendono i terroristi derivato dal wahabismo di marca saudita, inflessione o deviazione “politica” della religione come è sempre necessario quando si tratta di guerre “sante” [3]. Ma è bene saperlo che l’Islam è plurale, come è bene ricordare che lo scontro in atto è principalmente uno scontro tra gli stessi mussulmani e che ha per vittime soprattutto mussulmani. E che la Francia sia coinvolta nello scontro, in fondo solo di striscio, non è poi tanto sorprendente se pensiamo appunto a come essa possa essere stata oggetto di riflessione da parte di pensatori musulmani in quanto parte essa stessa di un Islam mondiale (non ci sembra più così singolare che Houllenbeq ne faccia un romanzo in cui immagina un governo francese islamico moderato).
Si è sempre parlato di guerra “asimmetrica”, ma si dimentica di dire che una guerra asimmetrica non si vince in due, tre, dieci o anche cinquant’ anni (Irlanda del Nord, Paesi Baschi non ci dicono qualcosa?). Nemmeno se l’Is sparisse domani sparirebbe il terrorismo islamico: ricordiamo il teatro Dubrovka? 129 morti, gli stessi di Parigi, o i bambini morti a Beslan? Con questi atti l’Isis non c’entra nulla, neanche esisteva, sebbene a Beslan fossero già presenti dei foreign fighters anglo-algerini. Certo erano attentati “politici”, ma anche prescindendo dallo stretto legame tra religione e politica che esiste nell’Islam, anche l’azione di guerra dell’altra sera a Parigi è un atto politico prima che religioso. Gli ostinati Ceceni hanno mostrato chiaramente una via, una via per colpire in modo duro e mediatico al massimo, colpire i modi di vita occidentali: il teatro in questo caso. Hanno (apparentemente) perso solo perché la loro causa era troppo distante, minore se non minuscola e tutto sommato “interna” ad uno stato sovrano molto forte e deciso. Una guerra asimmetrica cessa o per sterminio, caso raro, o per esaurimento “culturale”, ovvero una resa al modello culturale del nemico, e comunque sempre ben dopo che vengono a mancare i finanziatori occulti (che poi per l’Is non sono poi tanto “occulti” trattandosi primum di sauditi e qatarioti). Sui social più di uno si è chiesto la mattina dopo gli attentati, giustamente: se “vogliono colpire la nostra vita, le nostre abitudini, i nostri modelli, ergo vanno combattuti?” Il problema è che in una guerra asimmetrica non ci sono dichiarazioni di guerra, non c’è l’ora X, ma ci sono solo le scelte dei governi, e quelle di Hollande e compagni sono sicuramente state tragiche per la Francia. Si potrebbe dire che il francese sia in guerra senza saperlo. Più che alla “Ville Lumiere” dei teatri e delle brasserie è meglio pensare al teatro dell’”Ultimo Metrò” di Truffaut dove si recita con la paura di un’irruzione?
Ma in che razza di guerra si è andato a ficcare il governo (non il popolo) francese lo si deve anche ricordare: in un medioriente devastato in cui curdi, siriani governativi, sciti, isis e altri attori minori si fanno guerra appoggiati a vario titolo da USA, Francia, Turchia, Russia, Iran, Arabia Saudita e non ultimo Israele che tenta di portar l’acqua al suo mulino in tutti i modi possibili (che accordi ha fatto sottobanco con Putin?). Per dirne una ad esempio, ho la sensazione che i Russi difenderanno Assad alla morte, ma non si spenderanno troppo contro l’Is, perché rischiano di dare il via ad uno stato curdo troppo forte, il quale a sua volta darebbe troppo fastidio alla Turchia e alla stessa Siria. Peraltro nemmeno i curdi sono uniti in quanto quelli irakeni non sono per nulla in sintonia con quelli siriani o turchi. Se lo stesso bilancino si applica a tutte le fazioni in lotta se ne deduce che è meglio l’Is che ulteriore confusione. In questo caos Sykes, Picot, senza dimenticare Balfour [4], se la ridono all’inferno, ci sono sempre l’imperialismo di Regno Unito e Francia al fondo dei guai odierni: che possono essere 128 morti per chi giocava il “Grande Gioco”? L’imperialismo, l’ossessione del dominio del mondo per la propria nazione, che poi non è affatto la nazione intera ma solo una minoranza di privilegiati. Da sempre il potere ha coinvolto milioni di persone in guerre fatte a suo uso e consumo. Non esistono guerre “giuste” ma solo al massimo “necessarie” e l’unica guerra necessaria che conosco è una guerra di liberazione. “A Peace to End All Peace”, mal tradotto nel più morbido “Una pace senza pace”, si intitola il libro di David Fromkin [5] sullo smembramento dell’Impero Ottomano: io tradurrei “una pace per cessare tutte le paci (future)”.
Solo qualche parola sull’Itali-(etta): conta come il due di picche, non ha avuto colonie rilevanti ne è un paese neocoloniale, è una comoda base per i terroristi in approdo verso altri lidi. Si è detto che la camorra/mafia offrirebbe un terreno non favorevole ai jihadisti, ma è anche certo che i camorristi fanno affari d’oro vendendo passaporti falsi e forse anche armi. A meno che “Gian”-Matteo non si imbarchi in avventure poco auspicabili come Pinott-a desidererebbe per far da zerbino a qualcun’altro, non mi sembra che l’Italia corra gli stessi rischi della Francia. Tuttavia un pensierino su Roma per il suo significato simbolico se fossi una delle menti “del Golfo” lo farei.
La “guerra del terrore” non finirà domani, è cosa da metter in conto a lungo per il futuro il restarci secchi per qualche fanatico attentatore. Niente di cui preoccuparsi, a meno di non finire come la Siria: fatti a pezzi da eserciti etero-diretti (cosa al momento difficile in occidente anche se è accaduto di recente proprio ai nostri confini orientali). E’ sempre più probabile morire in un incidente stradale che in un attacco terroristico.
[1] http://mercatoliberotestimonianze.blogspot.it/2014/06/la-lunga-serie-di-interventi-militari.html
[2] Bruno Etienne, “L’Islamisme radical”, LGF 1989.
[3] Partner, “Il Dio degli eserciti”, Einaudi 2002 ; c’è da dire anche che la definizione di “guerra santa” è più appropriato di quello di jihad, termine fatto proprio dagli occidentali, ma che ha anche un significato interiore, di battaglia interna all’uomo per giungere alla verità e alla fede. Chi conosce la distinzione, come Kepel, ovviamente usa il termine nei due sensi, per cui jihad culturale può significare anche la battaglia per democratizzare l’Islam.
[4] Il piano segreto Sykes-Picot, dal nome dei due negoziatori inglese e francese, per la spartizione del medioriente ex-ottomano. Balfour, ministro degli esteri inglese, fu l’autore della famosa omonima dichiarazione del 1917 che consentì la nascita dello stato di Israele.
[5] David Fromkin, “A Peace to End All Peace”, Henry Holt 2001.