Per quanto possiamo sapere, la figura istituzionale del “capo politico” non esiste in nessuna parte del mondo. L’unica eccezione è il Messico di fine ottocento ai tempi di Porfirio Diaz; dove gli jefes polìticos erano i rappresentanti locali del presidente-dittatore. Incaricati di mantenere l’ordine, di impedire ai boss locali di vessare troppo i peones e di controllare le loro ambizioni politiche.
Nulla di simile oggi. Grillo, checché se ne dica, non è un presidente-dittatore. Mentre Di Maio non è il capo politico del M5S ma piuttosto il suo capoclasse. Una figura che ora non c’è più ma che la mia generazione aveva ben presente: nei libri ma anche nella realtà.
Capoclasse era chi era: gradito ai professori e al preside cui riferiva gli umori e le contestazioni della ciurma; sempre pronto ad alzare la mano per dare la risposta o dire la battuta appropriata; naturalmente predisposto al conformismo e al rispetto delle gerarchie; amico di tutti e di nessuno; prevedibile in tutto ciò che faceva o non faceva. L’anticipatore/ predecessore dell’ “aziendalista” che vediamo correre indaffarato per i corridoi per rispondere all’appello del dirigente di turno e che fa propri senza se e senza ma gli slogan elaborati dai capi al punto di non essere in grado di spiegare, e magari anche di capire quale sia il loro significato.
Tipi perfetti per garantire la continuità di una struttura di potere consolidata. Ma certamente inadeguati a guidare una formazione ribelle e antisistema. Tipi capaci di spiegare la linea ( anche se con stereotipi sempre meno convincenti) ma non di elaborarla.
Ma allora perché Grillo gli ha affidato questo ruolo ? La risposta sta nel carattere del comico genovese; e, al tempo stesso, nella terra di nessuno in cui si è trovato il Movimento negli anni successivi al 2013.
Quest’ultimo non è abbastanza forte per tradurre i risultati concreti la grande sbornia ideologica di cui Grillo, Casaleggio e le loro intense letture lo hanno imbevuto nel corso degli anni: decrescita felice, democrazia diretta, “nessuna alleanza”, “onestà, onestà”, “né di destra né di sinistra”, “reddito di cittadinanza come alternativa al lavoro che non c’è “ ; e così via. Ma, nel contempo, gode di una rendita di posizione, a livello nazionale, che non ne stimola né la crescita a livello locale né soprattutto il dibattito interno.
Nel contempo il suo leader carismatico ha esaurito la sua personale spinta propulsiva, che aveva, da sola, portato allo tsunami del 2013 ma non alla sua replica alle europee. E anche buona parte delle sue motivazioni ( al punto di non partecipare personalmente alla campagna del 2018 ).
Però vuole preservare la sua creatura. E, nella sua ottica di genovese malmostoso, preservare vuol dire chiudere. E chiudersi. Al mondo dei simpatizzanti. Al concorso di personalità esterne. Alle esperienze locali che appaiano “fuori linea”. A qualsiasi tipo di dibattito interno e ai suoi possibili contenitori. E in definitiva, alla possibilità di dare voce al dissenso. Il tutto condito con una serie di regole che, con il volgere del tempo, diventeranno riti paralizzanti. E, per tornare al Nostro, con Di Maio, nella veste di Presentatore, Officiante, Sorvegliante, Interprete. Ma mai di Leader. E men che meno di Capo politico.
Per gli osservatori ostili, quasi sempre ai limiti della paranoia, tutto ciò viene percepito come una macchinazione sinistra ai danni della democrazia e della stessa libertà dei cittadini. Al centro una specie di Spectre; ai suoi ordini un’orda di fanatici capaci di tutto.
E’ vero esattamente l’opposto; perché questo apparato è un apparato di autodistruzione. Un edificio imponente fino a quando le sue finestre rimangono sbarrate; ma destinato a sgretolarsi se aperto alla luce del sole.
Ciò accadrà dopo le prossime elezioni. Quando il Movimento, e il suo cosiddetto capo politico, saranno sottoposti ad un duplice rito di passaggio. Il primo, comune a tutti i partiti radicali e antisistema, può essere riassunto nel detto inglese: “se non puoi sconfiggerli, unisciti a loro”. Il richiamo al principio di realtà; che fatalmente porta a ridimensionare i tuoi propositi e ad alterare l’immagine che hai di te stesso ( a partire dal famoso “onestà onestà”). Il secondo e più difficile sta nel rapporto che devi stabilire con due portatori di un contagio potenzialmente mortale per te: la Lega, più credibile di te nella narrazione antisistema ma assai più incardinata di te nel medesimo; il Pd, fino a ieri, nemico pubblico Numero 1.
Ed è qui che Luigi Di Maio annaspa penosamente. Fino a rappresentare, politicamente parlando, un pericolo per il Movimento e per gli altri. A partire dalla sua incapacità totale di capire che cos’è e come funziona un’alleanza; e di comportarsi in conseguenza.
Si dirà che rimetterne in discussione il ruolo formale di Capo politico ( e, reale, di capoclasse) significherebbe rimettere in discussione il ruolo, anzi l’identità stessa del M5S.
Una ragione in più per farlo.