Negli Stati Uniti, non
il “New Deal”, bensì l’economia di guerra del secondo conflitto
mondiale portò il Paese fuori dalla decennale Grande Depressione
Il concetto di economia
di guerra
Gli esperti ricorrono
a tale terminologia quando uno Stato riorganizza la struttura della propria
economia nel corso di un conflitto per garantire che la capacità produttiva
venga configurata in modo ottimale per sostenere lo sforzo bellico.
Con l’economia di guerra, i governi devono assicurare che le
risorse siano allocate in modo efficiente per far fronte sia all’impegno
militare, sia alla domanda proveniente dalla società civile. In sostanza,
costituisce, da un lato, una necessità per garantire la difesa e la sicurezza
del Paese e, dall’altro, una strategia finalizzata all’ottenimento di un
vantaggio economico, tecnologico e produttivo sulla controparte.
In un contesto di economia di guerra i governi riservano
priorità alle produzioni di sostegno all’attività militare e in base ai
contesti storici e politici possono ricorre a specifici provvedimenti economici
quali: l’emissione di appositi strumenti finanziari per reperire risorse
aggiuntive, come le obbligazioni di guerra, ridistribuire le risorse fiscali a
favore dello sforzo bellico e a detrimento di altre necessità non prioritarie
in tempo di guerra, incentivare le imprese private ad ampliare e a spostare la
produzione verso il comparto militare, non che, in caso di necessità, stabilire
il razionamento dei prodotti alimentari per garantire l’approvvigionamento
dell’intera popolazione, come avvenuto nel nostro Paese nel corso dell’ultima
guerra mondiale.
L’economia di Guerra
durante la Seconda Guerra Mondiale
Nel corso della
storia, talvolta, si sono verificati casi di Paesi che a seguito dell’adozione
di un’economia di guerra, non avendo riportato gravi distruzioni, al termine
del conflitto hanno beneficiato di un ampliamento, un avanzamento tecnologico e
un rafforzamento del loro struttura produttiva, come gli Stati Uniti al termine
della Seconda Guerra Mondiale.
Sussistono anche
situazioni di Stati che dopo aver subito la devastazione bellica dell’apparato
produttivo, hanno sfruttato la ricostruzione per dotarsi di infrastrutture e
impianti industriali più moderni e tecnologicamente efficienti, come accaduto
in Giappone e in Germania dopo l’ultimo conflitto mondiale.
Mentre in Corea del Sud, i militari guidati dal generale Park
Chung-hee, saliti al potere con un colpo di stato nel 1961, avviarono un
processo di industrializzazione che, grazie al ruolo centrale dello Stato
nell’economia, riuscì ad innescare in un Paese ancora sostanzialmente rurale e
arretrato, oltre che devastato dall’occupazione militare Giapponese (1910-45) e
dalla Guerra di Corea (1950-53), un significativo processo di sviluppo
socio-culturale e una forte crescita economica, passata alla storia come
“miracolo sul fiume Han”[1].
Gli Stati coinvolti direttamente nella Seconda Guerra
Mondiale fecero necessariamente ricorsero ad una economia di guerra durante il
conflitto, mentre la Germania nazista aveva già adottato parzialmente tale
modello a seguito della politica di riarmo implementata dopo la salita di Adolf
Hitler alla Cancelleria nel 1933, spostando risorse dalla produzione di beni di
lusso verso armamenti, mezzi ed equipaggiamenti militari, i cui frutti
risultarono imponenti sin dal 1935 (tab. 1).
Tabella 1: indici della produzione
industriale negli anni immediatamente seguenti la crisi del 1929, ponendo a 100
il valore nel 1929.
Andamento della produzione
industriale
|
Stato
|
1929
|
1930
|
1931
|
1932
|
1933
|
1934
|
1935
|
Stati Uniti
|
100
|
83
|
69
|
55
|
63
|
69
|
70
|
Regno Unito
|
100
|
94
|
86
|
89
|
95
|
105
|
125
|
Francia
|
100
|
n.d
|
99
|
85
|
74
|
83
|
79
|
Germania
|
100
|
86
|
72
|
59
|
68
|
92
|
223
|
Austria
|
100
|
n.d
|
91
|
78
|
66
|
68
|
75
|
Italia
|
100
|
n.d
|
93
|
84
|
77
|
83
|
85
|
Diverso il caso degli Stati Uniti, i
quali inizialmente non coinvolti direttamente nel conflitto mondiale, a partire
dal 1 settembre del 1939 hanno dapprima concentrato lo sforzo produttivo verso
la produzione di armi, munizioni, merci e alimenti indirizzati agli alleati
europei, beneficiando di una significativa ricaduta sul proprio ciclo
economico, per poi ricorrere pienamente ad una economia di guerra dopo
l’attacco giapponese a Pearl Harbour dell’8 dicembre 1941. Da quel momento,
l’economia di guerra registrò un’inevitabile accelerazione con il governo
federale che divenne committente e acquirente addirittura di oltre la metà
della produzione industriale nazionale, come vedremo in seguito.
Il modello di economia
di guerra statunitense, contrariamente agli altri Paesi belligeranti, non
risultò caratterizzato da una significativa pianificazione statale
centralizzata tant’è che, ispirandosi alle logiche del mercato, il governo preferì
agire principalmente sul lato della domanda, cercando di indirizzare l’offerta
privata attraverso gli ordinativi, oltre a dotarsi di un apparato produttivo
pubblico, fino a quel momento molto limitato. Tale politica economica determinò
un considerevole afflusso di capitali verso le imprese, i quali rimasero a
disposizione delle produzioni anche al termine della guerra, agevolati dal fatto che il territorio continentale
degli Stati Uniti, non avendo subito distruzioni, non necessitava di corposi
investimenti nella ricostruzione industriale, infrastrutturale e del patrimonio
edilizio.
Infine, il sensibile aumento
della presenza delle donne nelle fabbriche per sopperire alla chiamata alle
armi di milioni di giovani maschi, la priorità assegnata ad alcuni comparti
produttivi a discapito di altri, la conversione di molte produzioni in senso
militare e la massimizzazione dello sforzo produttivo, determinarono
inevitabilmente una riorganizzazione ed un efficientamento del lavoro che portò
significativi benefici all’economia della fase post-bellica.
La fallace narrazione del “New
Deal” risolutore della Grande Depressione
Con l’inizio della “Grande Depressione” innescata dal
crollo della Borsa di Wall Street del 24 ottobre del 1929, il “giovedì
nero”, il nuovo presidente democratico, Franklin Delano Roosevelt
(1933-45), adottò fra il 1933 e il 1934
una serie di provvedimenti economici tesi ad aumentare la presenza dello stato
nell’economia, a disciplinare settori economici totalmente derelegolamentati (come
il Banking Act del 1933) e ad introdurre una riforma fiscale progressiva,
passati alla storia come “Primo New Deal” (Nuovo corso).
Una volta conseguiti i primi risultati già dal 1934 (tab. 1), il
piano di Roosevelt iniziò ad incontrare crescenti resistenze sia da parte dei
potenti trust economici e finanziari
nazionali, che ricorsero anche ad una campagna stampa, che dal partito
repubblicano e dai democratici conservatori, tutti contrari all’intervento
statale nell’economia. Il doppio fuoco di sbarramento finì per imprimere un
significativo depotenziamento al “New Deal” a causa di una serie di
dichiarazioni di incostituzionalità, in merito ai provvedimenti economici
adottati, emesse, fra il maggio del 1935 ed il corrispondente mese dell’anno
successivo, dalla Corte Suprema Federale, in maggioranza composta da giudici
nominati dai precedenti presidenti repubblicani.
Da quel momento in avanti, Il
“New Deal” non sarà più in grado di determinare il profondo
cambiamento nell’economia statunitense che era nei progetti di Roosevelt e dei
suoi consulenti accademici. La sua portata si limiterà, come afferma il
geografo marxista francese Pierre George “a manipolazioni monetarie, all’esecuzione di grandi lavori pubblici,
segnatamente all’attrezzatura veramente notevole della valle del Tennessee col
tramite delle Tennesse Valley Autorithy (Tva), al risveglio della coscienza
sindacale e all’intervento finanziario dello Stato nella vita economica e
sociale, con un disavanzo enorme delle pubbliche finanze, 5 miliardi di dollari
all’incirca del 1935-36. Lo Stato rinuncia a dirigere l’assieme dell’economia,
ma fa la sua parte di banchiere e di produttore, se non direttamente, almeno
col tramite di uffici sovvenzionati (la Tva ne è un esempio), d’altronde, già
prima dell’era rooseveltiana, il dipartimento dell’Interno è sempre stato il
più importante fornitore d’energia degli Stati Uniti“[2].
Tale depotenziamento spingerà Roosevelt a correre ai ripari facendo
approvare dal Congresso il “Secondo New Deal”, una nuova serie di
riforme economiche e soprattutto sociali, in considerazione del fatto che il provvedimento
più importante risultò il Social Security Act, finalizzato all’istituzione di
un sistema di sicurezza e di protezione sociale. La misura introduceva,
infatti, l’erogazione di contributi in caso di disoccupazione, vecchiaia e
disabilità, tramite un fondo finanziato dai datori di lavoro, dai lavoratori e
con risorse del bilancio federale.
La ripresa della produzione
continuò anche nel corso del 1936 e nella prima parte del 1937 ma la mancata
trasformazione del sistema produttivo e un settore statale troppo ristretto,
non consentirono allo Stato di esercitare un’azione decisiva sull’intera economia
federale. Ciò lasciò sostanzialmente invariato lo spazio di manovra della
speculazione e delle grandi imprese nella ricerca dell’utile tramite la
“razionalizzazione intensificata” dei fattori della produzione,
determinando la ricomparsa degli squilibri fra il potere d’acquisto interno (la
domanda) e l’offerta di beni, anche a seguito della riduzione della diminuzione
della spesa pubblica federale che aveva portato quasi a sfiorare il pareggio di
bilancio nel 1937.
Inoltre, non essendo in quegli anni migliorato il livello della
domanda internazionale, il progetto di dare nuova linfa alla ripresa della
produzione finì per creare le potenziali condizioni per una nuova crisi.
L’indice della produzione industriale elaborato dalla Federal
Reserve, dopo aver toccato ad inizio del 1937 il valore di 99, nei mesi
successivi intraprese una nuova ricaduta fino a 66,5 determinando una nuova
espansione della massa dei disoccupati che oscillò fra i 13 e 14 milioni di
unità. L’economia statunitense scivolò quindi nuovamente in recessione nel
secondo semestre del 1937, rimanendoci per 13 mesi consecutivi fino alla
seconda metà del 1938 (grafico 1).
Grafico 1: andamento del Pil degli Usa fra 1920 e 1941. Fonte: Federal Reserve
La produzione industriale subì un grave
contraccolpo contraendosi di quasi il 30% e la disoccupazione dal 14,3% del
maggio 1937 salì nuovamente al 19,0% del giugno del 1938, ritornando allo stesso livello del 1934 (grafico 2).
Grafico 2: tasso di disoccupazione negli Usa fra 1910 e il 1962. In evidenza il decennio della Grande Depressione (1929-39)
Il governo
statunitense in linea coi principi keynesiani, peraltro abbandonati in modo
troppo repentino in quella fase secondo gli economisti di questa corrente,
attuò quindi a partire dalla primavera del 1938 un grande piano di acquisti (pump-priming[3]) per sostenere la domanda
interna ed evitare un ulteriore aggravamento della situazione socio-economica,
determinando un nuovo aggravamento del deficit federale che infatti tornò a
superare i 4 miliardi di dollari nel 1939.
I grandi trust statunitensi, ai quali Roosevelt
aveva allentato la precedente politica di coercizione, si lanciarono quindi con
massicci investimenti alla conquista dei mercati internazionali al fine di trovare
nuovi sbocchi alle proprie produzioni.
L’economia
statunitense non essendo ancora riuscita a trovare all’inizio del 1939 al
proprio interno i rimedi alla crisi economica strutturale che l’attanagliava da
un decennio, beneficerà di li a qualche mese di un evento drammatico per la
storia dell’umanità che le consentirà di uscire dalla “Grande
Depressione” imprimendo nuovo slancio tecnologico e produttivo al settore
industriale e all’intera struttura economica: la Seconda Guerra Mondiale.
Le peculiarità dell’economia di guerra statunitense
Lo scoppio della Seconda Guerra
Mondiale, il 1 settembre 1939, fornì una prima importante spinta all’economia
statunitense grazie alle forniture militari, industriali e agricole destinate
ai paesi europei alleati, e una successiva accelerazione dopo l’8 dicembre 1941
con l’ingresso diretto nel conflitto, lasciando secondo Pierre George “come fenomeni accompagnatori sconvolgimenti
nella struttura economica e sociale. I tre nuovi dati di fatto dell’economia
statunitense sono rappresentati dall’elevazione considerevole del limite
tecnico massimo, cioè del potenziale produttivo, dalla partecipazione enorme
assunta dallo Stato nell’assistenza finanziaria concessa alla produzione e
dall’importanza della mobilitazione umana nell’industria e nelle forze armate“.[4]
L’economia statunitense iniziò quindi a risollevarsi e
successivamente a svilupparsi celermente solo quando l’amministrazione fu
costretta ad esorbitanti spese federali per sostenere lo sforzo bellico, sia in
modo indiretto durante la prima fase del conflitto, ma soprattutto
successivamente con il coinvolgimento diretto (grafico 3).
Grafico 3: numero di anni di recessione dell’economia Usa per decennio nel sec. XX
In base ai dati riportati da Pierre George, le produzioni
industriali riguardanti la guerra registrarono, fra il 1939 e il 1944, una
rapida impennata con tassi superiori al 100% (tab. 3), tant’è che il governo fu
costretto ad intervenire in alcuni comparti per rallentarne l’eccessiva
crescita temendo, memore della crisi da sovrapproduzione che aveva innescato il
crack borsistico del 1929, di venire sopraffatto al termine del conflitto
mondiale dall’impossibilità di trovare adeguato sbocco all’imponente produzione
industriale raggiunta in quegli anni.
Tabella 3: raffronto del livello
della produzione estrattiva e industriale nel 1938 e nel 1944. Fonte:
l’Economia degli Stati Uniti, pag. 97. Autore: Pierre George. Garzanti ed
Produzioni industriali e minerarie negli Usa nel 1938 e 1944
|
|
1938
|
1944
|
Aumento rispetto al
|
1939
|
1929
|
Carbone fossile
(in
mil di ton)
|
450
|
600
|
33,3%
|
9%
|
Ferro (in mil di ton)
|
38
|
68
|
53%
|
30%
|
Bauxite (in mil di
ton)
|
0,4
|
1,1
|
175%
|
265%
|
Alluminio (in mil di
ton)
|
0,15
|
0,85
|
465%
|
750%
|
Rame (in mil di
ton)
|
0,8
|
2,2
|
172%
|
120%
|
Ghisa (in mil di
ton)
|
20
|
55
|
83%
|
58%
|
Acciaio (in mil di
ton)
|
30
|
82
|
170%
|
38%
|
Petrolio (in mil di
ton)
|
149
|
244
|
44%
|
60%
|
Consumo nazionale di cotone
(in
mln di balle)
|
7,4
|
11,2
|
51%
|
n.d
|
Consumo nazionale di lana
(in
migliaia di tonnellate)
|
130
|
200
|
100%
|
n.d
|
Fabbricazione di macchine-utensili (in mln di dollari)
|
200
|
1.180
|
650%
|
n.d
|
Fabbricazione di aerei (unità)
|
6.000
|
86.000
|
1.300%
|
n.d
|
Costruzioni
navali
(in migliaia di tonnellate)
|
340
|
19.340
|
5.500%
|
n.d
|
Gli incrementi maggiori riguardarono la cantieristica navale
(+5.500%), l’industria aeronautica (+1.300%) e la produzione di macchine
utensili +650%), in quanto l’economia di guerra statunitense, principalmente a
partire dal 1942, si concentrò sul ringiovanimento delle strumentazioni
produttive, sull’ampliamento della base industriale e sulla realizzazione di
una imponente flotta da trasporto (tab. 3). Soprattutto in quest’ultimo campo i
risultati furono strabilianti visto che la produzione cantieristica
statunitense di un solo anno riuscì a superare il tonnellaggio totale della
flotta britannica all’inizio della guerra.
L’economia di guerra Usa conobbe in quegli anni un’eccezionale
crescita tant’è che fra il 1939 e il 1944 la produzione nazionale quasi
raddoppiò e conseguentemente la disoccupazione dal 14% del 1940 scese a meno
del 2% nel 1943 (grafico 2), con la forza lavoro impiegata che crebbe di oltre quindici
milioni di unità in soli 5 anni (tab. 4).
Come abbiamo visto in precedenza, il governo federale, che tramite
il sistema del pump-priming e il
finanziamento dei vari uffici d’integrazione già interveniva da alcuni anni in
modo massiccio negli acquisti di materie prime e prodotti manifatturieri, con
lo scoppio della guerra divenne il principale cliente dell’industria
statunitense. In particolare tramite la trasformazione dell’organismo di
soccorso delle aziende in difficoltà, il Reconstruction Finance Corporation
(Rfc), in un ufficio di finanziamento dell’industria di guerra.
L’amministrazione Roosevelt,
affinché il dirompente boom economico di quegli anni non presentasse risvolti
catastrofici al termine della guerra, si adoperò nel tentativo di mettere lo
Stato nelle condizioni di poter controllare la produzione e l’accumulazione
degli enormi profitti che i grandi gruppi privati stavano conseguendo, sia direttamente
tramite l’azione legislativa e di controllo del governo, sia attraverso i suoi
enti come la Defense Plant Corporation.
la Rubber Reserve Co., il Marittime Committee, oltre al già citato Rfc.
Per mezzo di questi enti pubblici
lo stato prese sotto la sua diretta gestione vecchie fabbriche tecnologicamente
superate e quelle realizzate appositamente per le necessità belliche, in
particolare quelle localizzate nell’Ovest del Paese che producevano semilavorati
o componentistica per l’industria militare, come il comparto aeronautico, la
cantieristica navale, la petrolchimica dedita alla realizzazione della gomma
sintetica e la metallurgia dei metalli leggeri, con l’alluminio che registrò un
aumento addirittura del 750% (tab. 3).
In sostanza, in quegli anni l’amministrazione federale anticipò 18
miliardi di dollari a scopi produttivi, una cifra enorme considerato che il
valore dell’apparato industriale statunitense nel 1939 era stimato nell’ordine
di 22,5 miliardi di dollari diventando, dopo lo scoppio della guerra,
proprietaria di circa 3.000 officine e cantieri.
Nel contesto dell’economia di
guerra statunitense, il governo articolò le proprie attività a sostegno delle
produzioni in tre modalità distinte: assunse infatti funzione di finanziatore,
di industriale diretto e di consumatore tramite acquisti a beneficio di un
apparato industriale che ben presto assunse dimensioni mastodontiche arrivando
a raggiungere nel 1944 un livello di produzione industriale pari a 200 miliardi
di dollari.
Di questi, ben 98 miliardi risultavano frutto dell’imponente
domanda federale comprendente anche la parte di aiuti destinati ai Paesi
alleati in base agli accordi della legge “Prestiti e Affitti”, la
“Lend-Lease Act”, che era stata approvata dal Congresso su input di
Roosevelt l’11 marzo 1941, prima dell’ingresso diretto nel conflitto[5].
La dinamica del ciclo economico
risultò quindi strettamente interconnessa al livello degli acquisti statali,
tant’è che il bilancio federale ne uscì fortemente dilatato e, al pari del
deficit, il debito pubblico subì una rapida impennata proprio a partire dal
1941, addirittura più che triplicando, al termine del conflitto, in rapporto al
Pil, peraltro anch’esso in fase di rapida espansione (grafico 4).
Grafico 4: rapporto debito/Pil in percentuale degli Usa fra il 1929 e 1950
La
mobilitazione e la riallocazione della forza lavoro
Il confitto mondiale e il
conseguente straordinario forzo economico e militare statunitense comportarono una
maestosa mobilitazione di risorse umane, addirittura sensibilmente superiore
rispetto all’impiego di manodopera in tempo di pace, persino alle fasi di più
spiccata accelerazione economica.
Prendendo in considerazione come indicatore analitico l’entità della
manodopera impiegata, comprendente anche le persone arruolate nelle Forze
Armate, rileviamo come dai 48 milioni, pari al 37% della popolazione totale,
del 1929, la stessa sia salita a 60,4 milioni, corrispondenti al 45% degli
abitanti, risultanti però dal censimento del 1940 che rilevò la presenza di 132
milioni di residenti (tab.4).
Tabella
4: popolazione impiegata negli Usa nel 1929, 1933, 1939 e 1945 in milioni
Entità
della popolazione impiegata negli Usa fra il 1929 e il 1945
|
Anno
|
1929
|
1933
|
1939
|
1944
|
Manodopera impiegata
in milioni
|
48
|
38,7
|
44
|
60,4
|
Passando, invece, all’analisi disaggregata per comparto economico
della variazione della forza lavoro impiegata, emerge come l’incremento si sia
concentrato quasi esclusivamente su due coppie di voci: industria e trasporti
(+40% rispetto al 1939 e +12,5% in raffronto al 1929) e servizi pubblici e,
ovviamente, Forze Armate, le quali registrarono un primo aumento nel corso del
1941 e successivamente un’impennata con l’entrata diretta in guerra. Le Forze
Armate statunitensi dalle poche centinaia di migliaia del 1939[6]
arrivarono a mobilitare un totale di 16 milioni di uomini nel corso dell’intero
conflitto[7].
Tali effettivi vennero reperiti in prima istanza dalla massa dei disoccupati, l’esercito
industriale di riserva, che nel 1939 si attestava ancora sopra al 15% (grafico
2), dai sottoccupati e dagli impiegati in agricoltura che nel 1944 risultavano
diminuiti di 2 milioni addetti, mentre nel settore bancario e nel commercio
rimasero sostanzialmente stabili.
Questo enorme dispiegamento di lavoratori e militari sotto la
spinta dell’economia di guerra, poneva la problematica questione della loro
riallocazione al termine del conflitto, la quale presentava complessità ancora
maggiori a seguito del rapido sviluppo tecnologico degli impianti e dei
macchinari industriali, con relativo sensibile aumento della produttività del
lavoro. Ciò che Pierre George definisce la “razionalizzazione” delle
forze produttive, indotta dall’innovazione tecnologica, determinò una generale
diminuzione delle ore di lavoro per unità di prodotto, con inevitabili riflessi
negativi sui livelli occupazionali. Ad esempio, se ad inizio conflitto erano
necessarie 600.000 ore per costruire una nave della classe Liberty ship[8]
e 35.400 per un aereo Boeing B-17 Flying Fortress, meglio noto come
“fortezza volante”, nel 1944 si erano ridotte rispettivamente a meno
di 400.000 e 18.700.
Conseguentemente, ciò creò
maggiori problematiche al riassorbimento dei 18 milioni di lavoratori,
lavoratrici e militari[9],
nel contesto dell’economia di pace del Dopoguerra, la quale dovette anche
affrontare una complessa e mastodontica riconversione partendo dall’iniziale e
fondamentale questione della tipologia di struttura economica da perseguire.
L’economia di guerra era stata caratterizzata da una sensibile
espansione del settore pubblico nell’economia e da un controllo del governo Roosevelt
sulle produzioni, seppur principalmente dal lato della domanda. Il suo
successore, Harry Truman (1945-53), subentrato alla sua morte nell’aprile del
1945, benché democratico anch’egli, optò per una decisa svolta liberista
restituendo al settore privato l’intero apparato produttivo pubblico, comprese
le fabbriche impiantate durante il conflitto dalle agenzie federali con fondi
pubblici, per far fronte alle necessità di guerra.
Dopo la lunga parentesi della presidenza Roosevelt, caratterizzata
dal tentativo di introdurre l’intervento dello stato nell’economia, prima, in
parte fallendo con il “New Deal”, e successivamente, riuscendoci con
l’economia di guerra, la riconversione di quest’ultima avverrà all’insegna del
liberalismo economico totale, nel cui contesto trarranno grandi giovamenti i
trust nazionali, tant’è che già nel 1947, le principali 250 grandi aziende statunitensi
arrivarono a possedere i 2/3 dell’apparato produttivo nazionale.
Conclusioni
Alla luce delle evidenze
fuoriuscite dal nostro caso di studio possiamo concludere che risultò, quindi,
l’economia di guerra, non il “New Deal”, a mettere fine alla decennale
depressione. Tantomeno quest’ultimo riuscì a modificare in modo sostanziale la
distribuzione del potere all’interno della società e dell’economia
statunitense, accertato che determinò solo un piccolo, seppur significativo,
beneficio per i ceti sociali più colpiti dalla Grande depressione.
L’economia di guerra non risultò tanto un trionfo della libera
impresa, quanto il risultato dell’attività di finanziamento del governo che
infatti registrò un eccezionale aumento del debito pubblico, il quale, in rapporto
al Pil, come visto passò dal 40% del 1938 ad oltre il 120% nel 1945 (grafico 4).
Viceversa, per tutto il periodo del “New Deal” la disoccupazione
risultò alta (grafico 2), mentre i consumi, gli investimenti e le esportazioni
nette, i pilastri della crescita economica, rimasero su livelli bassi.
In definitiva, il forte sviluppo
dell’industria militare necessario per sostenere il fronte di guerra europeo e
quello pacifico, la riorganizzazione del lavoro e l’aumento delle produzioni
trainato dalla mastodontica domanda federale e dalla crescita dell’export,
anche di prodotti alimentari, verso i Paesi sostenuti da Washington, vale a dire
l’economia di guerra del 1941-45, si rivelarono fattori fondamentali
nell’ascesa degli Stati Uniti a ruolo di superpotenza mondiale, decretandone il
definitivo sorpasso ai danni dell’Impero britannico, dopo aver compiuto quello
in campo economico già al termine della Prima Guerra Mondiale.
Leadership consacrata proprio in
quegli anni alla Conferenza di Bretton Woods del luglio 1944, durante la quale
gli Usa capitalizzarono tutto il loro peso geopolitico, economico e militare
riuscendo a far elevare il dollaro a moneta di riferimento degli scambi internazionali.
Tali storici accordi portarono inoltre all’introduzione delle parità fisse fra
le divise e della convertibilità del dollaro in oro, il cosiddetto Gold
Exchange Standard (1944-71), che consenti alla valuta statunitense di assurgere
alla funzione di moneta di riserva per le Banche centrali.
Inoltre, le sedi del Fondo
Monetario Internazionale e della Banca Mondiale, istituzioni internazionali
finanziarie fondate proprio in quel consesso a garanzia dell’ordine
internazionale finanziario a guida statunitense, non casualmente furono
stabilite a Washington.
Vennero in pratica gettate la basi per il conseguimento della
leadership globale, prima condivisa con l’Urss durante il Bipolarismo e la
Guerra Fredda, e successivamente esercitata in proprio dagl’inizi degli anni
’90 del secolo scorso, nella fase del dominio unilaterale. Unilateralismo che,
peraltro, negli ultimi anni hanno iniziato a mettere in discussione le
strategie delle nuove potenze emergenti che, raccolte nei Brics, anelano ad un
ordine internazionale su base multipolare.
Nell’ottica di cercare di fornire
una lettura della vicenda dell’economia di guerra statunitense della Seconda
Guerra Mondiale attualizzata e contestualizzata ai paesi direttamente coinvolti
nell’attuale conflitto in Ucraina, possiamo ricavare interessanti indicazioni
in particolare rispetto alla situazione della Russia.
L’economia di guerra parziale adottata sino ad aggi dalla Russia
mette in risalto, oltre ad importanti divergenze, anche alcuni significativi
parallelismi con la situazione sopra analizzata, in relazione soprattutto alla
tenuta stessa dell’economia russa durante il 2022 e addirittura alle
performance economiche, secondo il Fmi (tab. 5), superiori, nonostante le
sanzioni occidentali, a quelle dei paesi europei del 2023 e, in base alle
previsioni di luglio scorso, anche del 2024. Ciò in quanto la dinamica
economica russa, oltre alla capacità di aver reindirizzato l’export energetico,
è legata come negli Usa del 1941-45 alla cospicua domanda pubblica e alle
produzioni del settore statale che fanno leva su un sensibile deficit di
bilancio, finanziato però attraverso le riserve monetarie accantonate nei fondi
sovrani di Mosca, negli anni precedenti al 2022, quindi, almeno sino ad oggi,
senza gravare eccessivamente sul debito pubblico
Tabella 5: variazione annua del
Pil in Russia, nell’Eurozona e nelle principali 3 economie dell’Europa
occidentale. Anni 2023-2024. Fonte: Outlook Fmi luglio 2024
Anno
|
Russia
|
Eurozona
|
Germania
|
Francia
|
Regno Unito
|
2023
Dati
rilevati
|
3,6
|
0,5
|
-0,2
|
1,1
|
0,1
|
2024
Previsioni
luglio
|
3,2
|
0,9
|
0,2
|
0,9
|
0,7
|
La Russia inoltre, come gli Stati
Uniti durante il conflitto mondiale, non ha al momento subito importanti
distruzioni sul proprio territorio e l’apparato produttivo è stato
sensibilmente ampliato, soprattutto in relazione alle produzioni belliche, e
soffre di congiunturale carenza di manodopera che ha comportato, al pari degli
Usa del 1941-45, un significativo aumento dei salari e degli stipendi.
Ugualmente, è verosimile che al
termine del conflitto al governo russo si presenti il problema della
conversione della parziale economia di guerra sino ad oggi adottata, opera che
tuttavia risulterà probabilmente meno complessa sia per la minor entità dello
sforzo produttivo destinato alle attività belliche che per il più contenuto numero
di militari e operai mobilitati.
E’ significativo, in conclusione,
segnalare che le principali voci dell’export dell’economia di guerra integrale
degli Usa del 1941-45 erano rappresentate da prodotti manifatturieri di vario
genere e armamenti, mentre quello attuale della Russia si basa sui prodotti
energetici e minerari, grezzi e semilavorati, quindi a minor valore aggiunto[10].
Andrea Vento – 9 settembre 2024
Gruppo Insegnanti di Geografia
Autorganizzati
[1] “Insubordinazione e sviluppo. Appunti per la
comprensione del successo e del fallimento delle nazioni” di Marcelo
Gullo, Fuoco Edizioni, 2014. Cap. 9: Corea del Sud: il caso testimone. Pag. 185
[2]
“L’economia degli Stati Uniti” pagg. 93-94. Autore: Pierre George.
Editore: Garzanti 1960
[3]
Procedimento definito dagli economisti come pump-priming,
riassetto per assicurare la ripresa delle aziende in difficoltà mediante la
concessione di crediti e medianti acquisti.
[4]
L’economia degli Stati Uniti” pag. 96. Autore: Pierre George. Editore:
Garzanti 1960
[5]
Il “Lend-Lease Act”: espediente legislativo adottato l’11 marzo del
1941 dal Congresso e dal Presidente degli Usa. Inizialmente, lo scopo era di
soccorrere (con idonei mezzi finanziari, rifornimenti di materiali bellici e
materie prime), durante la Seconda guerra mondiale, senza rompere formalmente
la propria neutralità, quegli stati europei ed extraeuropei che seguivano una
politica giudicata conforme agli interessi degli Usa. In seguito all’entrata un
guerra degli Usa (8 dicembre 1941, la legge servì a mantenere quei soccorsi
fino al raggiungimento dei comuni obiettivi militari e politici. La legge
attribuiva al presidente Usa il potere di stabilire non solo i materiali in
questione, ma anche le modalità di rimborso da parte dei Paesi beneficiari;
bastava che queste fossero, a discrezione del presidente, dichiarate
soddisfacenti. Fonte Enciclopedia
Treccani on-line:
https://www.treccani.it/enciclopedia/lend-lease-act_%28Dizionario-di-Economia-e-Finanza%29/
[6] Nel 1939 l’esercito Usa, la forza armata più numerosa era formata da
poco più di 170.000 uomini
[7] Durante
il periodo di guerra effettiva, più di 16 milioni di statunitensi servirono nelle
United Statea Armed Forces, dei quali 290.000 morirono in combattimento e
670.000 rimasero feriti.
https://it.wikipedia.org/wiki/Stati_Uniti_d%27America_nella_seconda_guerra_mondiale#:~:text=Durante%20il%20periodo%20di%20guerra,116%20129%20sopravvissero%20alla%20guerra.
[8] Liberty
ship: mastodontico programma di costruzione di grandi navi cargo che avevano la
funzione di trasportare ai paesi alleati approvvigionamenti per far fronte allo
sforzo bellico e alle necessità delle popolazioni
[9] Fonte:
l’Economia degli Stati Uniti, pag. 100. Autore: Pierre George. Garzanti edizioni
[10]Misura
l’import-export della Russia, settore per settore