Molto si parla, di questi tempi, di riforme costituzionali – e pure parecchio a sproposito: quasi tutta l’attenzione si appunta, infatti, su quella che potremmo definire la “riforma apocrifa”, mentre poco sembra interessare di quella autentica, incentrata sulla riscrittura del meccanismo referendario.
Checché ne pensino svariati commentatori, l’attuazione del c.d. Regionalismo differenziato lascerebbe inalterato il testo della Costituzione, per il banalissimo motivo che la possibilità di una “promozione” su richiesta di singole Regioni ordinarie è già prevista dall’articolo 116, 3° comma, nella versione risalente al 2001.
Certo fa notizia che ad ambire alla specialità siano oggi i territori più ricchi (Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna), ma al giurista non resta che annotare che il procedimento in questione è già normato da un ventennio. La via per ottenere la specialità passa anzitutto per una “iniziativa della Regione interessata, sentiti gli enti locali”; una volta raggiunta l’intesa fra proponente e Governo tocca alle Camere pronunciarsi con legge ordinaria di approvazione votata dalla maggioranza assoluta dei componenti. Oltre a due materie esclusive di enorme importanza come l’istruzione e la tutela dell’ambiente e dei beni culturali possono costituire oggetto di trasferimento alle autonomie regionali tutte quelle di legislazione concorrente, tra le quali spicca la tutela della salute. Rimarchiamolo: nulla vieta, in ipotesi, che la totalità delle materie rimesse alla competenza concorrente transiti a quella esclusiva di una specifica Regione, rendendola “iperspeciale” – e le pretese avanzate in questi mesi, in effetti, sono tutt’altro che modeste.
Tre grandi Regioni del nord – Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna – hanno fatto richiesta di autonomia differenziata, le prime due a seguito di referendum che, specialmente in territorio veneto, hanno condotto alle urne folle imponenti. Dalla data del 15 febbraio scorso sul sito governativo www.affariregionali.gov.it sono disponibili i testi delle tre intese: in apparenza mancherebbe solo la legge rafforzata di approvazione che, in ogni caso, non può ai sensi dell’articolo 116, 3° comma, modificare gli accordi presi. Compito dei parlamentari è esprimere un sì oppure un no, tertium non datur.
Il condizionale è d’obbligo visto il furoreggiare, negli ultimi anni, di innumerevoli “testi ufficiali” a tal punto definitivi da essere cestinati l’indomani, ma gli accordi non hanno l’aria di mere ipotesi di lavoro e fino a prova contraria vanno presi sul serio: fra l’altro le procedure sono state sinora rispettate, e in due casi su tre i cittadini – rimarchiamolo – si sono espressi a schiacciante maggioranza in favore dell’incremento dell’autonomia. Esaminiamo allora le intese, focalizzandoci sui punti salienti e anticipando che sono simili, ma non uguali fra loro.
Partiamo dalle richieste lombarde: esse prevedono (art. 2) condizioni particolari di autonomia in tutte le materie di competenza concorrente, compreso il coordinamento della finanza pubblica ed esclusa soltanto la disciplina degli enti di credito e delle casse di risparmio a carattere regionale, nonché con riguardo alle norme generali sull’istruzione (dal 2001 competenza esclusiva statale) e alla tutela dell’ambiente (idem). Al Veneto 20 materie non bastano: ne richiede tre in più, mentre l’Emilia-Romagna si ferma a 16, senza peraltro rinunciare al fatidico coordinamento della finanza pubblica. Tocca chiedersi, a questo punto, se siano previsti limiti ulteriori alla nuova potestà legislativa regionale oltre a quelli di cui all’articolo 117, 1° comma, e a quelli riconducibili all’invasività delle materie trasversali. Nell’intesa tra Stato ed Emilia-Romagna ci imbattiamo in due commi dell’articolo 2 che indirettamente aiutano a far chiarezza: essi assegnano alla Regione una competenza complementare in ordine all’organizzazione e all’esercizio delle funzioni amministrative locali, subordinandola però al “rispetto dei principi generali dell’ordinamento giuridico, dell’unità giuridica ed economica, delle competenze legislative statali di cui all’articolo 117, secondo comma, della Costituzione, e in particolare quelle riferite alle determinazioni dei livelli essenziali delle prestazioni, nonché dei principi fondamentali espressamente richiamati nelle disposizioni contenute nel Titolo II (mancante!) della presente intesa”. Quest’aggiunta non la ritroviamo nelle restanti intese: dovremmo desumerne che per Lombardia e Veneto dette limitazioni non sussistano, e che quindi le 20 e 23 materie oggetto delle rispettive intese diventino di competenza esclusiva delle due Regioni. Esclusiva, attenzione, non residuale: pertanto anche la loro permeabilità/cedevolezza nei confronti di quegli ambiti trasversali individuati dalla Consulta dopo il 2001 per tarpare le ali alle ambizioni dei legislatori regionali va considerata piuttosto un’ipotesi che un dato certo. L’esperienza delle attuali Regioni a Statuto speciale suffraga l’interpretazione più cauta e ragionevole, ma va anche detto che una Lombardia autonoma disporrebbe, anche in sede di “Commissione paritetica” (art. 3: sono una per intesa), di ben altra “forza contrattuale” rispetto a quella oggi attribuibile a Friuli Venezia Giulia o Sardegna…le perplessità permangono, anche perché l’articolo 7 sancisce la perdurante vigenza delle norme statali nelle materie cedute fino all’entrata in vigore delle disposizioni regionali in materia e la (mera) comunicazione delle leggi regionali di attuazione dell’intesa al Ministero degli affari regionali prima della definitiva approvazione consiliare.
L’articolo 4, uguale per tutti, prevede il trasferimento con DPCM alle Regioni dei beni e delle risorse finanziarie, umane e strumentali necessarie nonché la facoltà, per gli enti interessati, di “conferire in tutto o in parte, con legge, le funzioni amministrative a essa (cioè: alla Regione) attribuite ai Comuni” e agli altri enti territoriali, in omaggio al principio europeista di sussidiarietà verticale, mentre il 5 stabilisce, fra l’altro, che il finanziamento delle competenze riconosciute sia garantito dall’utilizzo della compartecipazione al gettito maturato nel territorio regionale dell’Irpef e di eventuali altri tributi erariali nonché delle aliquote riservate sulla base imponibile dei medesimi tributi riferibile al territorio regionale.
Non merita proseguire nella disamina di testi forse definitivi forse no: ai nostri fini quanto riportato è ampiamente sufficiente per abbozzare una valutazione complessiva. Nessuna incertezza sul fatto che le procedure previste dall’articolo 116 siano state fin qui seguite alla lettera, ma la questione è un’altra. Le Regioni storicamente a Statuto speciale furono trattate “meglio” dai padri costituenti in ragione della loro perifericità e della presenza di situazioni particolarissime e/o penalizzanti, che andavano dall’insediamento di forti minoranze linguistiche (Val d’Aosta, Trentino-Alto Adige, Friuli-Venezia Giulia) a tentazioni indipendentiste (Sicilia e Sardegna) o a velleità annessionistiche da parte di potenze confinanti. Questo stato di disagio non vale per le odierne richiedenti: la Lombardia è la più ricca e popolosa Regione italiana, con circa 10 milioni di abitanti e un PIL pari al 22% di quello nazionale (dato 2017). A loro volta Veneto ed Emilia Romagna superano insieme i 10 milioni e mezzo di residenti e – merita rimarcarlo – le tre regioni hanno fatto segnare nel quadriennio 2014-17 le migliori performance a livello italiano sotto il profilo della crescita dell’onnipresente PIL.
Questi dati non sono affatto irrilevanti: attestano che se Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna trattenessero ciascuna per sé la maggioranza delle risorse riscosse in loco (e una simile intenzione traspare dai testi di febbraio) le conseguenze per gli altri territori – e soprattutto per chi li abita – sarebbero gravi, se non devastanti. Già oggi, nei fatti, tutela sanitaria, istruzione ecc. non sono le stesse ovunque, ma istituzionalizzare le differenze renderebbe irreversibile lo svantaggio a carico di chi abita le aree più arretrate del Paese, e giustificherebbe l’ineguaglianza fra i cittadini, LEP o non LEP. Il tema è etico, ma anzitutto giuridico: come è possibile conciliare una siffatta evoluzione con il principio fondamentale solennizzato dall’articolo 3, comma 2°? A mio avviso sono inconciliabili. Altra problematica: il coordinamento della finanza pubblica, pur elevato dalla Corte nelle sue pronunce a competenza esclusiva statale, è rimasto fra quelle concorrenti – oggi le Regioni intendono impadronirsene. Cosa accadrebbe ove il Parlamento approvasse l’intesa: avremmo regole di finanza lombarde, venete e così via? Che ne sarebbe, in via generale, dell’unità e indivisibilità della Repubblica di cui all’articolo 5?
Di una cosa mi dichiaro persuaso: che l’attuazione dell’articolo 116 deve avvenire in conformità ai principi guida del nostro ordinamento, che ne costituiscono logico presupposto e parametro di riferimento. Una legge di approvazione ex 3° comma che mettesse a repentaglio l’unitarietà del sistema sarebbe insomma illegittima, perché basata su di un’interpretazione dell’articolo 116 magari corretta da un punto di vista formale, ma contraria allo spirito della nostra Costituzione. Non bisogna mai scordare che esiste una gerarchia fra le norme che compongono la Carta fondamentale, e che essa va costantemente rispettata – con la pacifica conseguenza che le disposizioni contenute nella Parte seconda vanno interpretate e applicate in coerenza con i principi fondamentali e non possono essere ritenute indipendenti da essi.
Questa riforma-non riforma della Carta rischia insomma di acuire il divario fra zone (relativamente) ricche e altre sempre più depresse, arrecando benefici a quote ristrette di popolazione italiana a discapito della maggioranza: neppure i comuni cittadini lombardi e veneti dovrebbero rallegrarsene troppo, perché è tutto da dimostrare che ad es. una sanità regionalizzata funzioni meglio di un servizio sanitario organizzato su base nazionale – l’esperimento del Friuli Venezia Giulia non ha dato infatti buon esito. Di certo assisteremmo però allo sfascio della sanità “residuale”, che l’ingente depauperamento delle risorse statali condurrebbe – è facile prevederlo – alla paralisi. Verrebbe da chiosare: autonomia sì, ma con juicio – quel giudizio che il legislatore del 2001, spinto dalla fretta, sacrificò all’esigenza di varare una riforma astrattamente in linea con il c.d. spirito di tempi infettati dal neoliberismo.
Se, come pare sempre più probabile, il Governo Conte dovesse concedersi una pausa di riflessione sull’autonomismo differenziato non avrei motivo di rammaricarmene: trovare un soddisfacente equilibrio fra legittime esigenze autonomiste e tutela dell’unità innanzitutto sociale della Repubblica non è impresa impossibile, ma richiede tempo.
Per una “riforma” posticcia e insidiosa – ispirata guarda caso dalla Lega di Salvini – che segna il passo ce n’è un’altra, degna invece di tal nome, che procede a fari spenti verso l’approvazione.
Il DDL Costituzionale n. 1089, approvato in prima lettura alla Camera dei deputati lo scorso 21 febbraio e dal 28 del mese all’esame della !a Commissione permanente del Senato, è farina del sacco dei 5Stelle e consta di tre soli articoli (http://www.senato.it/leg/18/BGT/Schede/Ddliter/testi/51349_testi.htm), il cui impatto sul nostro ordinamento sarebbe però significativo. Il primo rimpolpa l’articolo 71 Cost., aggiungendovi quattro commi nuovi di zecca. Il secondo comma, rimasto inalterato, recita: “Il popolo esercita l’iniziativa delle leggi, mediante la proposta, da parte di almeno cinquantamila elettori, di un progetto redatto in articoli.” Questa previsione non è mai stata attuata: il Parlamento ha costantemente snobbato le proposte di legge popolari, indipendentemente dai loro contenuti. Da… domani in poi le cose potrebbero cambiare radicalmente: il DDL citato stabilisce che ove la proposta di legge popolare sia sottoscritta (non più da 50 mila, bensì) da mezzo milione di cittadini le Camere sono obbligate ad approvarlo entro un anno e mezzo. In difetto di approvazione o nell’eventualità – tutt’altro che inverosimile! – di stravolgimento nelle aule del testo presentato sarà indetto un referendum sostitutivo del voto parlamentare, e la proposta diventerà legge nel caso ottenga “la maggioranza dei voti validamente espressi, purché superiore a un quarto degli aventi diritto al voto”. Cautelativamente i commi 2 e 4 dell’articolo 1 prevedono una serie di limiti all’ammissibilità dell’istituto referendario, esclusa “se la proposta non rispetta la Costituzione, se è ad iniziativa riservata (…) se non provvede ai mezzi per far fronte ai nuovi o maggiori oneri che essa importi” ecc., ma ciò non toglie che l’ingresso del referendum propositivo, strumento principe della democrazia diretta, segnerebbe per l’ordinamento italiano una svolta epocale. Aggiungo per completezza: su ammissibilità di ciascuna proposta e condotta parlamentare è chiamata a vegliare la Corte Costituzionale (art. 3).
Di una vecchia conoscenza – il classico referendum abrogativo – si occupa invece l’articolo 2 del DDL, che così recita: “Al quarto comma dell’articolo 75 della Costituzione, le parole: «se ha partecipato alla votazione la maggioranza degli aventi diritto, e» sono soppresse e sono aggiunte, in fine, le seguenti parole: «, purché superiore a un quarto degli aventi diritto al voto.” Cosa cambi è di tutta evidenza: il “famigerato” quorum si dimezza, passando dal 50% più un voto al 25%.
Entrambe le innovazioni, va detto, sono state aspramente criticate dal coacervo di forze politico-mediatiche etichettate come “sinistra”, fedelissime interpreti dell’opinione di coloro che amano mimetizzarsi nell’apparente caos dei “mercati”. La modifica all’articolo 71, si sostiene, esautorerebbe il Parlamento, quella all’articolo 75 – mi sforzo di riassumere ragionamenti anche complessi – aprirebbe la strada a una sorta di dittatura delle minoranze.
Le obiezioni mosse all’articolo 71 di nuovo modello rasentano l’assurdo: il presunto spossessamento ai danni delle Camere, oltre a non essere tale, costituisce semmai la presa d’atto d’una costante inadempienza nei confronti di un compito che la Costituzione stessa affidava loro. E’ insomma un rimedio, un “potere sostitutivo” attivabile soltanto in caso d’inerzia parlamentare: fra l’altro, il rischio di un suo esercizio arbitrario è nei fatti azzerato dalla pletora di garanzie introdotte e dai (fin troppi) limiti che lo circondano. Senza assolutamente menomare prerogative e poteri delle Camere (che restano inalterati) il DDL 1089 rende concreta la possibilità per il corpo elettorale – cioè per il Popolo sovrano – di far udire la sua voce: il futuribile istituto si inserisce armonicamente nel tessuto della nostra Carta Costituzionale e servirà ad aumentare, seppur di poco, il tasso di democrazia di un sistema sempre più oligarchico ed eterodiretto. Alligna un fondo di snobismo classista negli acidi commenti di parecchi addetti ai lavori, che ritengono i comuni cittadini troppo immaturi per prendere (o suggerire) decisioni rilevanti – la realtà è però che temi di primaria importanza come i beni comuni[1] e l’acqua pubblica stanno assai più a cuore alle vituperate “masse” che ai gestori delle istituzioni, l’abbiamo sperimentato, e dunque l’innovazione va salutata positivamente. Certo, chi afferma che la sovranità appartiene ai mercati non può concordare con il sottoscritto, ma la cosa non mi addolora troppo…
Quanto all’abbassamento del quorum per il referendum abrogativo[2] la proposta non dovrebbe scandalizzare alcuna persona onesta: nei Paesi dell’ex Blocco sovietico le percentuali dei votanti si aggirano stabilmente sul 30-40%; anni fa alle elezioni regionali in Emilia-Romagna si recò alle urne il 35% degli aventi diritto e nessuno si sognò di mettere in dubbio gli esiti della consultazione o chiese che venisse ripetuta (forse perché aveva vinto il PD…). Semplicemente: in democrazia chi non vota ha sempre torto, anche quando ha ragione (o perlomeno buone ragioni dalla sua). Esistono diverse categorie di astensionisti: c’è sempre stato, in Italia e altrove, uno zoccolo duro di noncuranti, di gente che neppure s’informa e, fregandosene di quel che accade intorno, si rinchiude nel suo minuscolo guscio privato. I loro motti “sono tutti uguali” oppure “è tutto un magna-magna” suonano simili a quelli di certi astensionisti consapevoli, ma le motivazioni della non-scelta sono differenti: questi ultimi, infatti, sono generalmente in grado di elaborare una critica penetrante e argomentata al sistema, giungendo alla conclusione che la pluralità di offerte è mera apparenza e che tutti gli attori partitici si attengono, magari obtorto collo, a un copione predeterminato. I delusi non si accalorano né protestano per risultati e percentuali, e magari ai referendum “strategici” – come quello sull’acqua pubblica, che la classe politica voleva affossare – partecipano pure, in perfetta coerenza con le loro idee. Questi soprassalti di passione politica in persone normalmente assenti dalla scena sono largamente compensati dalla disaffezione per l’istituto referendario manifestata da quanti solitamente a votare ci vanno, ma perché c’è da eleggere il Sindaco del paese (bene), sostenere il padrino politico (male) o mostrar bandiera mettendo una croce sul simbolo preferito. Per questa somma di motivazioni-non motivazioni è davvero arduo superare l’asticella del 50%; d’altra parte è profondamente ingiusto “annullare” il voto di chi “sceglie di scegliere” – quasi sempre una minoranza, ma mai troppo esigua, visto che i referendum meno partecipati della storia repubblicana, tenutisi nel 2009, hanno visto un’affluenza superiore al 23%. Invero dietro alle obiezioni “maggioritarie” si nasconde un retropensiero: per far fallire le consultazioni l’establishment ha spesso brandito l’arma impropria dell’astensione, incentivandola e dileggiando in tal modo la Costituzione. Mi è capitato di leggere che il no ai quesiti referendari si esprime restandosene a casa: plaudo alla spudoratezza, ma non è così – chi è contrario ha il diritto e l’onere di segnare con la matita il “no” stampato sulla scheda. Il risultato lo fissano gli elettori attivi, e qui silet consentire videtur.
In sintesi questa riforma costituzionale, che prelude ad altre già annunciate, non mi fa per nulla storcere il naso – anche perché volessi infangarla dovrei contraddire me stesso: dieci anni fa, nel saggio “Invito al Socialismo” mi pronunciai a favore di forme di democrazia diretta, e permango di quell’avviso.
La duplice vicenda riformatrice, in cui ingiustificati clamori si alternano a mortificanti silenzi, assurge però a metafora del rapporto oggidì esistente fra le due componenti del Governo gialloverde: i 5Stelle lavorano sodo e talora, malgrado l’inesperienza, producono cose buone; la scafatissima Lega resta invece alla finestra, ma grazie a qualche slogan azzeccato – e alla sudditanza perinde ac cadaver del furbo opportunista Salvini all’impero americano – riesce a dare l’impressione di dominare il campo e vive tranquillamente di rendita a spese dei primi.
D’altra parte l’abbiamo capito da un pezzo: l’establishment mette in croce il M5S non per gli occasionali svarioni, ma per quanto di assennato – e dunque di intollerabilmente eretico per l’élite liberista – propone alle volte. Ricordiamocene, in assenza di alternative che non scorgo,di qui a tre mesi scarsi.
[1] http://www.salviamoilpaesaggio.it/blog/2019/01/i-beni-comuni-e-il-disegno-di-legge-preparato-dalla-commissione-rodota/
[2] Qui occorre il 25% degli aventi diritto, mentre per la validità di quello propositivo (rammentiamolo) una percentuale non determinata ma comunque superiore.
Fonte foto: Agora Magazine (da Google)