Ciclicamente ciò che resta della galassia radicale, insieme a propri saltuari alleati, presenta in tema di Giustizia gli stessi identici quesiti referendari. Per valutare la portata dei temi sollevati gli schieramenti si concentrano quasi sempre su tecnicismi e su cambiamenti procedurali o organizzativi del potere giudiziario a seguito dell’eventuale accoglimento dei Referendum. Questo modo di procedere e di affrontare il dibattito presenta alcuni inconvenienti.
Relegare la portata dei quesiti a tecnicismi svia di fatto la pubblica opinione da ciò che politicamente i Referendum potrebbero rappresentare. Lo stesso accadde per i Referendum passati quando il clima politico era insanguinato dal moto di sdegno pubblico nei confronti della politica e dei partiti costitutivi della Repubblica. L’alibi della partitocrazia fu il cavallo di troia per smantellare la democrazia sostanziale della Costituzione e per, a tappe successive e intermedie, modellare le istituzioni sul vincolo esterno dei mercati. La rappresentazione plastica di questo processo fu la tornata plebiscitaria che instaurò la preferenza unica.
Dopo di essa, seguendo l’ondata di modernizzazione etica che pretendeva governabilità, si mise mano alle riforme elettorali che sostanziarono l’eclissi dei partiti di massa e che configurarono la militanza light ed effimera dei comitati elettorali permanenti in un contesto di spettacolarizzazione impolitica della contesa. L’omogeneizzazione del dibattito in schieramenti pressoché indistinguibili servì per privatizzare la sfera pubblica e per avviare quel processo di spoliticizzazione dell’economia posto alla base della Costituzione economica. Punto cardine dell’ideologia neo-liberale.
Allo stesso modo è bene individuare lo scopo recondito dei Referendum sulla Giustizia, al di là della portata di singole tematiche (ad esempio il tema della carcerazione preventiva rappresenta un reale problema democratico che il Parlamento dovrebbe risolvere). In trent’anni di rappresentazione tecnicista della politica la popolazione è completamente disabituata a ragionare per sistemi complessi di pensiero o a individuare disegni ideologici che si nascondono dietro un riformismo ispirato da un apparente e fuorviante neutralismo.
Ciò che i radicali, insieme ai promotori referendari, vogliono realizzare è un sistema che di fatto privatizzi la Giustizia. La americanizzi. Che la addomestichi sui binari dell’arbitrato. Il quesito chiave per individuare questo scopo malcelato è quello sulla separazione delle carriere dei magistrati. Si vuole far dissolvere, con questo che sarebbe solo il primo passaggio, l’idea che il pubblico ministero eserciti una funzione giurisdizionale. Per trasportare, nell’immaginario collettivo, la fase inquirente a una dinamica di parte equivalente a quella privata. Oggi il magistrato incaricato delle indagini è un giudice a tutti gli effetti. È costretto a ricercare le prove a carico e a discarico dell’indagato.
Questa consapevolezza disegna una tutela costituzionale per chi si trova, suo malgrado, invischiato negli ingranaggi spesso drammatici di un’indagine penale. Ed elimina la possibilità che la ricerca della verità possa essere sacrificata sull’altare di una contrattazione mercantilistica tra le parti. Che insomma i rapporti tra difesa e accusa siano contraddistinti da un reciproco scambio di favori. La riforma insomma, se accolta, funzionerebbe da apripista per avviare una campagna contro l’obbligatorietà dell’azione penale. In un’organizzazione della Giustizia nella quale, attraverso il peso contrattuale da far valere di volta in volta, chi possiede mezzi economici adeguati riuscirà a condizionare maggiormente la benevolenza dell’accusa.
Discrezionalità dell’azione penale che sottintenderebbe la metamorfosi della funzione inquirente in carica elettiva. Dove chi si candida a procuratore selezionerebbe, in una campagna elettorale permanente, i reati da perseguire con particolare attenzione nel non disturbare più di tanto chi ha permesso la propria elezione. Con questo ragionamento complessivo non si può e non si deve negare che oggi esista una sproporzione tra la credibilità dell’accusa e quella della difesa. Ma questo squilibrio però appare come un sintomo di un preciso clima culturale.
Nel progressivo spostamento del processo dalle aule di Giustizia a quelle dei palinsesti televisivi si è permesso che il pubblico potesse esercitare una funzione giudicante sin dalla fase delle indagini. I criteri per ammaliare la popolazione con i casi di cronaca nera si basano sulla compulsiva forza persuasiva della commozione che fa da battistrada alla barbarie del linciaggio pubblico per l’indagato. Questa perversione mediatica ha imbarbarito la popolazione che tende a percepirsi come consumatrice di veri e propri sceneggiati della realtà. E che sottopone il Giudice a una pressione incapace di armonizzare senza incubi prestazionali la formazione del libero convincimento.
Ha confutato quel valore democratico così ben pennellato dalle parole di Salvatore Satta nel suo libello “Il mistero del processo”. La sbarra presente nelle aule, dietro la quale si assiepava il pubblico, rappresentava un simbolo dell’autonomia decisionale del Giudice. Il pubblico era sì una parte ammessa al processo ma non un suo attore. Con la mediatizzazione delle inchieste si assiste a vere e proprie campagne di persecuzione nei confronti degli indagati senza alcuna protezione dell’intimità. La spudoratezza è incentivata da fustigatori pubblici camuffati nelle vesti di conduttori. Ma questo raccapricciante spettacolo non deve offrire una via libera alla privatizzazione dell’ordine giudiziario e non deve rappresentare un pretesto per continuare a disinstallare la Costituzione della Repubblica.