La Religione laica, progressista e mercantile, nelle sue omelie composte da una retorica ottimista e concentrata sulla liberazione evolutiva del soggetto, ha trovato un suo piccolo ma esemplificativo manuale di galateo nell’articolo apparso sul Corriere della Sera dove una giovane studentessa universitaria ha concesso una confessione privata. La giovane “di bellezza stratosferica e naturale”, piccolo inno al merito, racconta del proprio spontaneo – così in apparenza potrebbe sembrare – avvicinamento al sex working. Già l’espressione imprime una lucidata – avviene di consueto quando le attività umane, lavorative o meno, sono declinate all’inglese – a ciò che potrebbe apparire socialmente riprovevole. Ma in quanto operazione ideologica essenziale sarà affrescare qualsiasi condotta personale “virtuosa” con una pennellata di vitale effervescenza.
Intendiamoci la prostituzione per stato di necessità è sempre esistita. Ma è proprio lo stato d’indigenza che la narrazione imperniata sul valore dello spirito d’impresa vorrebbe nascondere. Nell’articolo si assiste a un ormai classico rovesciamento. Il dramma del bisogno che pone il vendersi a strumento di oppressione individuale o di potere per ottenere contropartite viene reso etico. La civiltà imprenditoriale trasforma ogni dilemma umano in un ventaglio di scelte di profitto. “Accompagnare i clienti è una nostra scelta” appunto. La predisposizione individuale al mercato diventa fattore di liberazione. Scegliere consapevolmente in una dinamica concorrenziale permette di liberarsi dallo stigma del fallimento. Questa liberazione viene tratteggiata in un’ottica di emancipazione. “Tra amici ne parliamo”. Come se il quadro annunciasse una rivoluzione.
“Continuerò per altri quattro o cinque anni al massimo”. La tranche de vie letteraria, artistica, che sovrappone le opere al tormento passionale o alla maturazione dell’autore sedimentata da esperienze, riflessioni o da una nuova conoscenza, viene degradata nella coraggiosa e sovversiva ricerca dell’utilità di calcolo. Impiegare ogni fase dell’esistenza per l’arricchimento del proprio capitale umano. Assumersi il rischio d’impresa traccia il solco della civilizzazione. Il povero – “mi rifiuto di abitare in un locale di periferia” – paga la scarsa capacità di affrontare la vita con slancio propositivo. Non modella la creta individualista con la necessaria managerialità. Attaccato com’è a credenze arcaiche, a superstizioni rituali. Il sogno contemporaneo si fa glaciale. La medesima rarefazione asettica che si respira nelle relazioni interpersonali tra tecnici “competenti”. “Dell’altro in realtà non me ne importa niente”. Si applica alla lettera il vademecum.
Rigenerarsi di continuo, vivere di presente. Districarsi con furbizia resiliente nel circuito della competizione. La pedagogia neo-liberale istruisce la popolazione sulle condotte organiche al modello imprenditoriale. Così si edifica la coesione sociale. Introiettando le consuetudini tipiche dell’azienda. L’uomo/impresa verrà guidato sin dall’età scolastica a ragionare per curve di fattibilità. La mercificazione di ogni interstizio dell’esistenza farà da contraltare alla dismissione di qualsiasi bene pubblico e quindi della democrazia. Tutto però senza particolari scossoni. La professionalità condisce l’aria del racconto con una misurata temperanza. Trattasi di un “lavoro molto faticoso”. Una significativa goccia di protestantesimo sacrificale. Un martirio ragionato che aspira alla salvezza, all’elevazione di sé. Al cinismo creativo e solipsistico di una start up.
Nell’assordante silenzio del femminismo contemporaneo. Così accogliente nel santificare la consapevolezza “cazzuta” di giovani eroiche donne che ribaltano il paradigma patriarcale. Tutto si può comprare e tutto si può vendere.
È il mercato, bellezza! Il mercato! E tu non ci puoi far niente! Niente!