Il governo in carica
ha approvato una norma a “favore del pubblico impiego”, ovvero se a 65 anni si
sono maturati i requisiti per il pensionamento, se lo si desidera e lo si vuole, si può prolungare la propria vita
lavorativa di altri due anni. La via verso il pensionamento a 70 anni è così
aperta. La finestra di Overton è operativa. Gradualmente l’impensabile sta
diventando reale, ovvero si sta introducendo l’abitudine a pensare che
terminare la propria vita lavorando sia “normale”. Ci sono molti modi per
negare il diritto alla pensione che i lavoratori hanno maturato; i governi, dalla sinistra alla destra, sono tutti
complici in modo simile nel negare nei fatti il pensionamento. I lavoratori in
media vivono una condizione lavorativa difficile: i loro diritti sono nei fatti
formali, mentre i doveri sono reali. Si vive sotto ricatto, si può essere
licenziati in ogni momento. La condizione dei lavoratori nel privato è
sicuramente peggiore degli addetti nel pubblico impiego, ciò malgrado la
sofferenza è comune. Sistema
contributivo e bassi salari sono parte di un sistema di sfruttamento
legalizzato. Spingere l’età pensionabile verso un’età sempre più tarda
significa togliere il diritto alla pensione in modo bizantino e serpentino. In media si vive 80-83 anni, gli uomini
secondo le statistiche qualche anno in meno, per cui l’uscita a 67 anni implica
che si usufruisce della pensione per poco più di 10 anni, se si è fortunati. I
40 anni e oltre di contributi sono in tal modo, in gran parte, intascati non certo dai lavoratori. Lo
sfruttamento assume, così, nuove forme.
Ridurre la pensione a pochi e dolorosi anni è un modo efficace e capzioso per
negarla pur lasciandola formalmente. Si sfrutta e si incentiva a restare al
lavoro, perché i lavoratori generalmente a stipendio basso temono che il
pensionamento possa comportare la miseria. Di ricatto in ricatto operai e
impiegati sono inchiodati alla rupe dello sfruttamento dal timore della miseria
e della solitudine. I lavoratori
quotidianamente vivono il dramma dei tagli dei servizi pubblici e gli effetti
della privatizzazione. Per curarsi è necessario avere notevoli cifre, specie
nelle situazioni di salute difficili come la vecchiaia predispone, pertanto non
pochi saranno costretti ad accettare.
La pensione diverrà “privilegio di classe”, coloro che potranno usufruire delle “finestre” per l’uscita anticipata, si fa per dire, saranno i più ricchi e fortunati. Inquietudini e ricatti condurranno “alla libera scelta”, tanto più che dobbiamo ai “padroni” l’aver trasformato la società in una disperata giustapposizione di atomi depoliticizzati. Uomini e donne soli non potranno che valutare la possibilità di restare altri due anni come una opportunità per fuggire dalla povertà e dalla solitudine. Restare al lavoro fino a 67 anni non potrà che comportare il dramma della vita dopo il pensionamento. Un pubblico impiegato che a 65 anni ha maturato i requisiti per il pensionamento, a 67 anni sfiorerà i 45 anni di contributi, per cui avrà donato la sua esistenza al lavoro e, in media, avrà notevoli difficoltà psicologiche ed esistenziali per reinventarsi una nuova vita. Lo aspettano probabilmente anni di malinconia e di disadattamento alla nuova condizione. In un paese civile il pensionamento è diritto conquistato e pagato per vivere un nuovo segmento della propria esistenza. Naturalmente l’uscita dal lavoro intorno ai 60 anni consentirebbe di progettare l’ultima parte della propria vita e di coltivare le passioni che in giovinezza emergenze e limiti contingenti non hanno consentito di vivere con pienezza, in tal modo è possibile continuare a creare e a donare. Nonni in salute e non ancora vecchi possono, inoltre, favorire la crescita dei nipoti e questo, in una nazione in pauroso depopolamento che neanche i migranti compensano, è fattore rilevante. La china del paese è, dunque, solo finanza e sfruttamento. Lo svuotamento della vita politica è dinanzi a noi, avanza in modo inquietante la distruzione della civiltà e il silenzio è sempre più raggelante.