Quanti difendono le ragioni della “grande battaglia” dell’asterisco e della schwa argomentano che il linguaggio si evolve e non c’è nulla di strano, dunque, nell’accogliere un cambiamento doveroso e “inclusivo”. Una risposta seria e scientificamente ponderata è arrivata di recente da alcuni linguisti dell’Accademia della Crusca. In sintesi, gli studiosi hanno fatto notare che certamente la lingua si evolve e cambia, ma non su ordinazione!
Altri chiamano in causa il relativismo linguistico per sottolineare come le scelte codificate nella lingua non siano affatto neutre, perorando, dunque, la causa del cambiamento.
Nella sua duplice componente, culturale e linguistica, il relativismo moderno asserisce che ogni sistema di pensiero è relativo alla particolare cornice culturale all’interno della quale viene formulato e non può quindi essere considerato valido in assoluto.
Negli scritti di B.L. Whorf, linguista americano attivo nella prima metà del Novecento, questo principio prende esplicitamente la forma di una riabilitazione delle culture extra-europee, che l’antropologia di quel periodo, influenzata dal neopositivismo (oggi di ritorno) e fedele a una concezione lineare del progresso, inteso ingenuamente come sviluppo da una condizione peggiore ad una migliore, considerava ancora come uno stadio primitivo dell’evoluzione dell’uomo.
Alcuni, dunque, vorrebbero ora utilizzare il relativismo linguistico a sostegno dell’ideologia politicamente corretta, trascurando che quella teoria implicava, e ancora implicherebbe, la critica radicale alla presunzione di superiorità del modello culturale occidentale, un ribaltamento della geopolitica del sapere e, in definitiva, la riabilitazione del punto di osservazione dei subalterni. Ora, l’odierno progressismo e l’ideologia del politicamente corretto che ne costituisce l’apparato concettuale, tutto si propongono tranne che di modificare i rapporti di dominazione. Questo ci avvicina molto a quello che mi sembra sempre di più il punto centrale: contendere le parole importanti o… contendere le vocali.
Non soltanto non nego affatto l’importanza del linguaggio collegata alla sua non neutralità, ossia al suo carattere non meramente descrittivo, ma affermo che proprio partendo da questo presupposto si dovrebbe cogliere come le pseudo-riforme linguistiche del politicamente corretto ne rivelino il fondamento intimamente conservatore. Difendere le parole, infatti, è il riflesso di una lotta per ribaltare una narrazione e superare quelle che W. Mignolo, tra i massimi studiosi del pensiero decoloniale latino-americano, chiamerebbe logiche di colonialità. La lotta per le parole, laddove assume piena importanza – e non a caso cito il contesto dell’America Latina, dove moltissimo è in gioco – si associa alla vitalità dei movimenti. Il fatto nuovo è che gli afroamericani hanno iniziato a rivendicare la “latinità” per se stessi, laddove la categoria di “latinità”, invenzione del governo francese e dei suoi intellettuali, aveva identificato la popolazione creola e meticcia in contrapposizione a quella afroamericana e amerindia:
(…) la afro-latinità non solo appare un territorio inesplorato, ma rivela anche storie invisibili dell’America Latina, in particolare delle Ande, dove una popolazione di circa 15 milioni di persone di ascendenza africana erano praticamente ignorate fino a non molto tempo fa. (Mignolo, L’idea di America Latina, p. 131)
L’analisi di Mignolo sottopone a critica radicale l’idea di America Latina, mostrando come essa sia una costruzione euro-centrica:
“La geopolitica della divisione continentale è la chiave per comprendere che l’America latina viene inclusa nell’Occidente e nello stesso tempo relegata alla sua periferia. A partire dal XVI secolo le narrazioni europee dipingono come inferiori l’intero continente americano e i suoi popoli, finché la guerra ispano-statunitense del 1898 non riabilita l’America del Nord mantenendo quella del Sud in un ruolo secondario” e “Per esprimere esperienze, sentimenti e visioni del mondo diverse da quelle della narrazione europea e della sua struttura filosofica di riferimento, è necessario allontanarsi dalla nozione di sapere fondato sulla teologia e sull’egologia, che occulta i suoi fondamenti geopolitici, e avvicinarsi a una nozione le cui radici geopolitiche affondano nelle storie di frontiera e non nelle storie territoriali inventate dall’espansionismo europeo e statunitense.” (ivi, p. 14).
Credo che il punto di vista dell’autore risulti sufficientemente chiaro dagli estratti riportati, come anche la relazione con l’argomento qui in oggetto. Le speranze di un reale cambiamento provengono dal radicamento di movimenti consapevoli dei propri presupposti. Solo a partire da questa presa di coscienza ha pienamente senso lo sforzo di riappropriazione di significati e di parole.
Non è un caso che l’ideologia del politicamente corretto si sia affermata in assenza di movimenti. In realtà è chiaro che sia così, perché è diretta emanazione del potere dominante. Non esiste come movimento dal basso per il semplice fatto che proviene dall’alto. L’assenza di movimenti è compensata dal giudizio inamovibile dell’opinione pubblica progressista, alla quale si chiede di aderire conformemente, ripetendo serialmente un discorsetto edificante del quale essa travisa completamente l’origine e che del resto si sbriciola non appena si sottopongano a critica le affermazioni che lo sostengono.
Nel quadro del politicamente corretto, dunque, non si contendono più le parole, perché questo richiederebbe delle precise scelte, delle prese di posizione piuttosto scomode, dei riferimenti chiari che mettono in discussione l’architettura epistemica dominante, mirando a rovesciarla, e in primo luogo a mostrarla e denunciarla per quello che è, ossia una costruzione dei dominatori, che hanno ricondotto i subalterni alle proprie categorie, deprivandoli della loro autonomia culturale, storica e prima di tutto materiale.
Proprio al contrario, tutto questo è esattamente quanto non si intende fare. Così, invece che sulle parole, che sono importanti, e proprio in quanto sono importanti, ci si concentra ora sulle terminazioni delle parole, lasciando, appunto per questo, le parole, e soprattutto le cose, come stanno. Non volendo minimamente impegnarsi nel contendere le parole, ci si limita a contendere le vocali. In questo modo, nulla si mette in questione dell’organizzazione concettuale che riflette i rapporti di forza in campo. Si lascia tutto esattamente com’è, pretendendo che il cambiamento sia volgere il maschile al femminile. Si veda anche, al riguardo, la recente richiesta che il prossimo presidente della Repubblica italiana sia donna purché donna, anche prima o in assenza di una qualunque specifica proposta; la forma in luogo del contenuto, la scatola senza nemmeno aprirla. Questo equivale esattamente a far sì che nulla di sostanziale debba cambiare, è la via efficace per la prosecuzione del paradigma dominante, ossia quello neoliberista e neoliberale, che nel corso dell’ultimo ventennio ha assunto la fisionomia del neocapitalismo digitale oggi egemone, sempre in prima fila nel difendere le “battaglie”, tutte di facciata, basate sui diritti individuali neoliberali, proprio mentre crescono divari e sperequazioni, alienazione e sfruttamento.
Il rischio di cambiare le parole per non cambiare le cose c’è sempre stato, è insito nella problematica del politicamente corretto. Ma si è ormai compiuto il passo successivo. Ora, per non sbagliare, ci si guarda bene persino dal provare a cambiare le parole: ci si limita alle vocali.
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