In questi giorni è apparsa su Netflix l’attesa serie tv Bridgerton. L’opera è stata creata dalla celebre produttrice Shonda Rhimes ideatrice di veri e propri cult come Grey’s Anatomy e Scandal. Nelle rappresentazioni congegnate dalla Rhimes si ricalca la retorica americana degli ultimi vent’anni imperniata sullo spirito di sacrificio della popolazione nel ricostruire una narrativa accattivante per tutto l’occidente dopo lo smacco dell’11 settembre. La stretta connessione tra ruolo pubblico e vita privata che si sovrappongono indistintamente in una carrellata composta da gesti eroici, sadismo competitivo e commozioni sentimentali. Emblemi di questo tipo di racconto sono le eroine protagoniste delle vicende che esaltano questa novella rassicurante alternando giuste dosi di cinismo e di fragilità. Da corollario alle storie emerge un sottofondo rilegato con i regolamenti indicati dal bon ton del politicamente corretto. Nell’ultima impresa però cambia lo scenario storico. Si intrecciano le vicende sentimentali di una giovane rampolla – resta ferma la centralità femminile – di una ricca famiglia inglese del 1800 che si divide tra feste e sontuosi ricevimenti nei quali si contaminano nobiltà e altissima borghesia.
Fin qui tutto normale, apparentemente. Ma è bastato il promo introduttivo perché balzasse agli occhi un’anomalia significativa. I nobili e i ricchi dell’epoca sono interpretati indifferentemente da attori bianchi e di colore. Giusto ribadirlo, l’ambientazione è storicamente determinata, non immagina scenari di fantasia, il tutto si colloca nell’alta società inglese dell’800. Proviamo a descriverla sommariamente. Dopo la Gloriosa Rivoluzione l’Inghilterra abbraccia il liberalismo politico e costruisce quella che è stata definita a buon ragione “la democrazia per il popolo dei signori”. Sotto la spinta di pensatori come Locke e Bentham e del partito Whig la classe alto borghese e l’aristocrazia iniziano a formare quella società civile che se da un lato idealizza la libertà dall’oppressione arbitraria del potere politico che ostacola irrazionalmente il libero commercio dall’altro concepisce quella libertà esclusivamente a difesa del diritto di proprietà. Un civiltà di uomini liberi, così si definivano, che al contempo giustificava anche la proprietà su altri esseri umani, ridotti a veri e propri strumenti di lavoro. La schiavitù era considerata un’indecenza ma solo a casa propria. Tant’è che l’Inghilterra dell’epoca si presentava come una delle maggiori azioniste nell’affare della tratta degli schiavi e purificava l’ambiente deportando i neri nelle colonie. Alla schiavitù vera e propria si sostituiva, in patria, la servitù da contratto alla quale erano assoggettati gli irlandesi e più comunemente i poveri. Formalmente il contratto rappresentava una libera scelta del singolo per un rassicurante assoggettamento volontario.
Insomma superfluo far notare che nobili o ricchi signori di colore allora non esistevano. E che l’Inghilterra liberale – allo stesso modo degli Stati Uniti – espandeva il proprio dominio sotto la coperta di un pervicace razzismo ideologico. Ma seguendo l’agenda del politically correct la serie appena uscita applica alla lettera il vademecum Hollywoodiano del cinema inclusivo. Si deve dare spazio alle minoranze. L’attore è un attore e può essere chiunque. Questa la giustificazione annunciata. L’operazione appare però particolarmente ingannevole. Il cinema può esprimersi con numerosi linguaggi ognuno dotato di una propria specificità. Pensiamo al grottesco, al farsesco, al surreale o al fiabesco. In questi casi è superfluo indirizzare la ricostruzione scenica riportando fedelmente la realtà. Quei modelli espressivi utilizzano le provocazioni, le contraddizioni o la fantasia in maniera esplicita. I personaggi non hanno bisogno di identificarsi con il reale. Così nelle opere teatrali classiche il soggetto rappresentato perde in parte – con il passare del tempo – la connessione con il periodo storico di riferimento. Nessuno si sarebbe meravigliato se Sidney Poitier si fosse cimentato nell’interpretazione di Re Lear. Nella lirica l’identificazione precisa tra cantante e personaggio risulta maggiormente priva di senso. Bisogna prima di tutto saper padroneggiare il canto. E determinate qualità non sono alla portata di tutti.
Ma il cinema possiede una composizione narrativa che lo costringe a mettere in piedi generalmente rappresentazioni storiche credibili. L’ambientazione, i personaggi, il vocabolario cambiano a seconda delle circostanze sociali e di costume dell’epoca messa in scena. Si riproducono artificiosamente intere città, si ricostruiscono abiti, mezzi di trasporto, alloggi, abitudini fedeli a quel preciso momento. Allo stesso modo gli attori si impegnano nell’interpretazione di ruoli coerenti e adatti alle proprie caratteristiche fisiche e anagrafiche. Aldo Fabrizi – se non appunto in una dimensione grottesca – non avrebbe mai recitato nella parte di un atleta e Anna Magnani difficilmente avrebbe reso l’idea di una Miss da concorso. Il cinema dunque ha sempre considerato il problema della riproduzione precisa della realtà intorno alla quale ruotano le vicende narrate. Qui si arriva alla particolare mistificazione del cinema inclusivo del politicamente corretto e ai suoi intenti manipolatori. Vediamo se questa regola – quella dell’attore è un attore e può fare qualsiasi cosa – poterebbe essere considerata valida in ogni circostanza. Non credo che un attore di colore possa credibilmente interpretare il ruolo del Generale Lee in un film sulla Guerra di Secessione o un soldato delle SS così come un attore bianco non potrà mai essere impiegato per rappresentare uno schiavo delle piantagioni di cotone nel Mississippi. In queste circostanze gli attori rifiuterebbero sdegnati la parte in quanto la confusione rappresenterebbe un’offesa nei confronti della verità storica.
Ma se negli esempi indicati l’artificio non è realizzabile perché dovrebbe apparire normale l’idea che un aristocratico inglese dell’800 possa magicamente diventare di colore? La situazione a dire il vero non dovrebbe essere accettabile ma in questo caso la si fa passare come un accadimento naturale. La risposta non può che essere politica. Già di per sé il vademecum hollywoodiano impone il rispetto di regole rigide per salvaguardare le minoranze come se si stesse parlando di riserve di caccia – quindi in una ridicola operazione di razzismo involontario – ma soprattutto impone le tematiche che gli autori dovranno pedissequamente seguire perché le loro opere siano prodotte e distribuite. In un clima da vero e proprio MinCulPop. Ma nello specifico di Bridgerton in più lo si vuole utilizzare per compiere una vera e propria manipolazione storica. Si vorrebbe far credere che negli Stati edificati sotto il segno del liberalismo – Inghilterra e Stati Uniti – la vita scorresse in un contesto di tolleranza e di rispetto per i diritti universali. Dove gli esseri umani vivevano seguendo la via della civiltà. Si vuole far dimenticare insomma il passato razzista e coloniale di quelle costruzioni e la loro stretta connessione con lo sfruttamento schiavista. Queste aberrazioni – per i liberali contemporanei – sono da relegare solo nell’ambito del periodo fascista e nell’immaginario collettivo devono rimanere agganciate lì. E il mondo libero di un tempo quello dei proprietari e della globalizzazione dei mercati contemporanea si atteggerebbero a pre-condizioni perché l’umanità si sia scoperta felice e lanciata verso progresso. Dimenticando che le peggiori teorie sulla razza, sull’eugenetica, sulla sperimentazione sociale sono state partorite, esposte e attuate politicamente proprio nel fantastico mondo del liberalismo classico. Molte delle quali ritornate in auge nell’era della facciata politicamente corretta, riconfigurate soprattutto per chi proprio non si adatta alle sfide della competizione darwinista