L’idea che il lavoro possa diventare gratificante se svincolato da rigidi orari e strutturato per obiettivi si va insinuando nelle analisi mediatiche.
Siamo ancora in attesa di conoscere gli effetti degli anni di smart working sulla nostra salute psicofisica, come sulle capacità relazionali, e lo stesso discorso vale per la didattica a distanza cui sono stati sottoposti milioni di studenti e studentesse.
I più vecchi ricorderanno un pernicioso dibattito di quasi 20 anni fa che poi spianò la strada all’attacco del Governo Renzi allo Statuto dei Lavoratori. Si parlava di eccessive tutele riservate alla forza lavoro “anziana” rispetto a quella “giovane”, auspicando la rinuncia ad alcuni diritti da parte della prima a solo vantaggio delle accresciute tutele della seconda.
La storia è andata, come era facile prevedere, in altra direzione: cancellate determinate tutele e disinnescata la via giudiziaria al reintegro in caso di licenziamento, le tutele per la forza lavoro giovane non sono mai arrivate e, anzi, proprio le norme pensate a loro vantaggio si sono rivelate essere una ghigliottina sospesa sulle loro teste.
Analogo ragionamento potremmo farlo sulle pensioni. L’introduzione del sistema contributivo per la tenuta dei conti statali si sta dimostrando una iattura per chi andrà in pensione tra 20 o 30 anni, tra vuoti contributivi e precarietà occupazionale e di vita. Anche in quel caso la narrazione mainstream fu quella che il contributivo dovesse favorire la tenuta dell’intero sistema previdenziale per assicurare un assegno alle future generazioni, salvo poi scoprire la esiguità di quell’assegno.
Oggi un copione analogo vorrebbe orientare i lavoratori verso una scelta di occupazioni gratificanti ma instabili, perché la certezza del posto fisso renderebbe uomini e donne infelici, sarebbe meglio, per loro, lavorare ad obiettivi e con un salario non necessariamente disciplinato da un qualche contratto nazionale.
Nell’immaginario collettivo, l’aspetto economico diventa una sorta di variabile dipendente dalla propria felicità, salvo poi scoprirsi precari, stressati e infelici, senza potere di acquisto e incapaci di programmare scelte importanti per la nostra vita.
Una sorta di precarietà estrema ma virtuosa, di esistenza liberata dal posto fisso e dalla rigidità oraria ma all’insegna della precarietà occupazionale e retributiva.
Il quality working diventa il cavallo di Troia per la forza lavoro, il passaggio sicuro per un futuro alla mercè del mercato del lavoro. Non a caso viene teorizzato dalle associazioni datoriali con apposite ricerche:
«In questo senso, possiamo sostenere che – guardando alla dimensione del lavoro e alle sue prospettive future, più che di smart working, siamo al cospetto di quality working: la ricerca “qualità nel lavoro”. Ben inteso: gli aspetti materiali (condizioni, tutele, salario) continuano a essere importanti. Ma, a parità di condizioni, diventano centrali e determinanti altre dimensioni, più espressive e soggettive, come le buone relazioni nel luogo di lavoro, le possibilità di prospettive di carriera, l’identificazione e il coinvolgimento nei valori dell’impresa, la formazione e così via. In una parola, gli aspetti «qualitativi» del lavoro.
Ma in questa fase storica le aziende stanno già sperimentando le difficoltà di sedurre e trattenere i/le giovani. Siamo forse all’inizio di una nuova discontinuità che richiede non solo singole iniziative o di saper rispondere alle attese di candidati che rispondo alle 9 selezioni “le farò sapere se la sua offerta mi interessa”, in un rovesciamento di ruoli fra domanda e offerta. È necessario un ripensamento complessivo dell’organizzazione lavorativa delle imprese e delle sue politiche per il capitale umano. All’insegna più che dello smart working, del quality working[1]».
Tra le motivazioni della diffusione e dell’accettazione, da parte dei lavoratori, della mobilità occupazionale e del tramonto del posto fisso, si ritrova non solo la ricerca di migliori retribuzioni ma anche quella di orari flessibili, che permettano di coniugare i tempi di vita con quelli lavorativi.
Flessibilità oraria sempre più diffusa e che fa il paio con un altro tipo di flessibilità, quella operativa, sperimentabile cioè sul posto di lavoro mentre si esegue la mansione. Lavorare con un sistema di turnazione irregolare, però, specie se per necessità di vita extra-lavorative, non conduce a una migliore distribuzione del carico di lavoro nell’arco della settimana, o del mese, ma al contrario determina l’insorgere di accumuli e quindi di stress psico-fisico, con l’obbligata adozione di ritmi di lavoro più alti.
Da parte dell’azienda, la capacità di ottenere una sinergia o quanto meno un impiego efficiente dei tanti lavoratori che saranno impiegati con turni e orari diversi non sarà scontata ma andrà ottenuta tramite un processo di evoluzione e implementa implementazione dell’organizzazione aziendale del lavoro. Tale processo può necessitare di investimenti economici di un certo rilievo e non può essere innescato da una qualsiasi impresa.
L’idea di un lavoro non fisso, difatti, è forse nuova nell’immaginario italiano ma sicuramente presente da decenni nei capitalismi statunitensi e anglosassoni, nei modelli imperanti nel Nord Europa. Rimane scarsamente adattabile nel capitalismo “made in Italy” per i limiti riscontrabili nella nostra organizzazione del lavoro, per la scarsa propensione ai processi formativi e alla innovazione tecnologica, per l’atavico tentativo di ridurre sempre e comunque il costo del lavoro nel tentativo di evitare costosi investimenti che implementino i processi produttivi.
Ecco allora l’idea della riduzione oraria a parità di salario e di produttività, di cui abbiamo avuto modo di parlare in passato[2], che non per caso piace anche ad alcune grandi imprese, speranzose forse di poter conseguire uno sviluppo dell’organizzazione del lavoro a costi inferiori, tramite una sperimentazione preventiva. Una sperimentazione che si esegue riducendo l’orario (si parla di settimana breve, in genere) ma imponendo ritmi più alti proprio in virtù dell’obbligo (stabilito a livello contrattuale) di mantenere gli stessi livelli di produttività di prima.
Sullo smart working il discorso è analogo: non è dimostrabile che rappresenti una sorta di liberazione dalla fissità degli orari, quando il diritto alla disconnessione viene facilmente r\aggirato, per non parlare poi delle mansioni esigibili, in barba alle declaratorie professionali dei contratti nazionali.
Il fenomeno delle dimissioni o più genericamente la fuga dal lavoro viene considerato una sorta di processo di autoliberazione dallo sfruttamento, dimenticando che sono invece i bassi salari e le condizioni materiali in costante deterioramento della vita lavorativa a determinare questi processi.
Ma nell’immaginario collettivo costruito ad arte dalle associazioni datoriali bassi salari, insufficienti tutele collettive, inadeguatezza del welfare vengono deliberatamente taciute per cedere a una narrazione edulcorata nella quale la libera scelta individuale viene presentata come espressione di un radicale cambiamento del paradigma e della cultura.
Il quality working, quindi, si rivela essere soltanto l’ennesimo tassello di una tendenza generale all’abbattimento di vincoli e tutele per il lavoro dipendente in nome di un tipo di professionalità che nasce fra i manager e i dirigenti [Sennett, 1998], si diffonde nelle fasce alte del lavoro dipendente e ora pretende di fungere da modello per tutta la forza lavoro. È un abbaglio, perché la flessibilità operativa, quando non è accompagnata da discrezionalità e autonomia sul lavoro (com’è invece nel caso di manager e dirigenti), si traduce automaticamente e per forza di cose in un aumento dei ritmi e nel deterioramento psicologico del lavoratore.
Detto in altri termini, la schiavitù del capitalismo della sorveglianza diventa un inno alla libertà individuale.
[1]https://www.federmeccanica.it/images/files/report_mol_23.pdf .
[2]https://www.lacittafutura.it/interni/riduzione-dell%e2%80%99orario-lavorativo-rischi-e-obiettivi.
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