Pochi giorni fa la tragedia di Gela dove una madre ha ucciso, sembra soffocandole, le due figliolette di sette e nove anni.
Non è la prima e non sarà l’ultima di simili tragedie, e non perché – ovviamente – le donne e le madri siano potenzialmente “cattive” per condizione ontologica (non lo sono gli uomini e i padri così come non lo sono le donne e le madri…), bensì semplicemente perché la violenza fa parte dell’umano, non è prerogativa dei maschi così come non lo è delle femmine. Possiamo e dobbiamo lavorare a tutti i livelli, sociali, psicologici, culturali, affinchè la violenza sia quanto più possibile limitata, circoscritta, disinnescata, gestita, canalizzata entro confini “accettabili” o anche sublimata, come si suol dire, attraverso attività creative e/o agonistiche, ma dubito che riusciremo mai ad estirparla del tutto. E questo perché l’essere umano è un essere complesso, naturale e culturale nello stesso tempo, e questa complessità, piaccia o meno, comprende anche la violenza, che naturalmente può essere fisica o piscologica, agita in forme e modalità diverse, ma questo è un altro discorso che necessita di un’analisi ad hoc (anzi, di diverse analisi ad hoc…).
Insomma, gli umani non sono mai stati “buoni”, neanche in un fantomatico quanto utopico stato di natura preesistente alla nascita delle cosiddette “società civili”, ma neanche “cattivi”. Siamo quello che siamo nella nostra complessità. Dovremmo accettare questa nostra condizione, comunque non immutabile, sia chiaro, ma in costante seppur lenta evoluzione e trasformazione, ben sapendo però che alcune caratteristiche fanno parte del nostro codice genetico, della nostra particolare ontologia di esseri che – unici al mondo, in tal senso – sono appunto una miscela di natura e cultura, assolutamente non separabili. Sbagliano, dunque, gli “ontologisti”, i quali sostengono che nulla è trasformabile perché l’essere è eterno ed immutabile così come sbagliano i “culturalisti” per i quali tutto è invece plasmabile. Infatti, fin da quando i primi umanoidi sono scesi dagli alberi e si sono drizzati su due gambe (e forse anche prima), era contestualmente iniziato il processo “culturale”. Ma questo processo che pure ci ha portato ad una evoluzione strepitosa, non ha comunque potuto eliminare quelle caratteristiche di natura genetica-ontologica che ci rendono gli esseri che siamo.
Fatta questa necessaria premessa, alcune brevi considerazioni.
La violenza esiste tra i bambini e tra le bambine ma viene rimossa perché abbiamo la necessità di preservare l’archetipo della loro innocenza. Un errore, a mio parere anche molto grave, perché un problema non si risolve mai rimuovendolo ma solo affrontandolo.
Anche le donne, come è ovvio, agiscono in modo violento (così come gli uomini, anche se talvolta o più spesso in forme diverse), però anche e soprattutto in questo caso interviene il meccanismo della rimozione se non addirittura della negazione della loro capacità di agire in modo violento. Esistono correnti femministe, che di fatto hanno colonizzato l’immaginario collettivo, che sostengono che la “violenza è maschile” e che quando le donne agiscono in modo violento è perché hanno interiorizzato la mentalità e la cultura maschile e maschilista. Se così non fosse – questa la tesi (o il delirio, a seconda dei punti di vista) – le donne non agirebbero in modo violento perché la loro “specificità di genere” glielo impedirebbe (se questo non è sessismo, ditemi voi che cos’è…).
Detta così sembra appunto un delirio, anche al comune buon senso, e in effetti lo è, a mio parere. Eppure la logica che sottintende al fenomeno detto del “femminicidio” (cioè, etimologicamente parlando, genocidio del genere femminile che secondo la narrazione mediatica dominante sarebbe in corso) è proprio questa. I maschi uccidono le femmine, in primis perché la “violenza è maschile” (che poi questa violenza sia in modo preponderante indirizzata nei confronti di altri maschi pare essere un aspetto di cui ci si può serenamente disinteressare…) e in seconda battuta perché le riterrebbero oggetti di loro proprietà, dal momento che così sono stati allevati dalla società che sarebbe tuttora dominata dalla cultura patriarcale e maschilista. A poco o nulla serve far rilevare che le donne uccise in ambito domestico sono circa lo 0,30 su 100.000 abitanti e che ogni anno, solo in Italia, centinaia di migliaia di persone si sposano, si fidanzano, allacciano una relazione e poi si mollano e che solo una percentuale infinitesimale di tutte queste separazioni finisce in tragedia, cioè con la moglie (o il marito) ammazzati. A poco o nulla serve far rilevare che se il postulato che sta alla base del cosiddetto femminicidio” fosse corretto (cioè quello che sostiene che gli uomini considerano le donne come oggetti di loro proprietà), il numero delle donne uccise dai loro compagni dovrebbe essere ben superiore alle poche decine di unità, in relazione appunto alle centinaia di migliaia di separazioni (ufficiali o di fatto) che avvengono ogni anno. A poco o nulla serve far rilevare che circa la metà degli uomini (comunque un’infima e insignificante minoranza…) che uccide la loro compagna si toglie la vita a sua volta subito dopo aver commesso il fatto e che nessun negriero, tiranno o schiavista è stato mai visto suicidarsi dopo aver frustato a morte uno schiavo di “sua proprietà”.
Nulla da fare. Contro la potenza dell’ideologia, specie quando questa ha occupato le menti, cari amici e care amiche lettori e lettrici di questo giornale, la logica è disarmata, ha le armi spuntate; una cerbottana che spara palline di carta farebbe più male…
Anche quando la logica ci mette di fronte a stridenti contraddizioni.
Il plurifiglicidio commesso dalla madre di Gela è già stato derubricato da tutti i media come un atto dettato dalla depressione e da una condizione di sofferenza psicologica. Personalmente sono senz’altro d’accordo. Non vedo anzi alternative per la semplice ragione che soltanto una persona psicologicamente disturbata potrebbe arrivare a tanto. Ma a mio parere anche un uomo che uccide la propria compagna è in una condizione di grave sofferenza psicologica, né potrebbe essere altrimenti; o pensiamo che sia “normale” uccidere qualcuno/a?
Eppure i due atti delittuosi sono sistematicamente giudicati con due metri e due misure diverse. La madre che uccide il figlio lo fa perché è depressa, e se uccide il marito è perché questi la vessava e quindi in ultima analisi lo ha fatto per legittima difesa (anche se gli taglia gli attributi o gli dà fuoco mentre dorme). Se invece un uomo uccide la compagna lo fa perché comunque la considera un oggetto di sua proprietà e quindi è doppiamente colpevole perché – questa la tesi – è soltanto un mero esecutore di un mandante che è il genere maschile nella sua totalità, con alle spalle la cultura patriarcale e maschilista, che ha armato la sua mano. Non si sfugge.
La domanda sorge spontanea: se questa è la logica, chi arma la mano delle madri assassine? Non è forse la stessa logica proprietaria (visto che i figli sono innanzitutto delle madri, come recita la narrazione femminista…) che armerebbe la mano omicida degli uomini nei confronti delle donne? Non sviluppa forse una madre un senso di possesso nei confronti del figlio che ha portato in grembo più di quanto un uomo non sviluppi un senso di possesso nei confronti della “propria” donna?
Ma quand’anche fosse (ed io penso che questa componente sia in effetti presente), sarebbe forse una ragione sufficiente per criminalizzare un intero genere, quello femminile nella circostanza, perché un numero infinitesimale di donne e di madri uccide i propri figli? Ovviamente no, e ci guardiamo bene dal farlo.
Il problema però è che un intero genere, quello maschile, è stato invece criminalizzato perché un numero infinitesimale di uomini uccide la propria moglie. Perché? A questa domanda ho personalmente già dato una risposta, mi limito a riproporla: http://www.uominibeta.org/editoriali/chi-e-sordo-orbo-e-tace-campa-centanni-in-pace-e-nella-menzogna/
A ciò si aggiunga l’enfasi con cui una notizia viene gettata in pasto dai media all’opinione pubblica. A parti invertite, se un uomo uccidesse le proprie figliolette di sette e nove anni, si scatenerebbe una campagna mediatica/ideologica per ribadire che quell’atto di violenza è soltanto l’epifenomeno di una violenza ben più diffusa e generalizzata che è quella sistematicamente perpetrata dagli uomini nei confronti delle donne. Perché questa asimmetria di giudizio? Ancora una volta rinvio al link di cui sopra.
Concludendo, esistono tante forme di violenza, di cui la più grave, per ciò che mi riguarda, è senz’altro quella commessa sui minori, peraltro agita in misura maggiore dalle donne rispetto agli uomini. Non perché – ovviamente, è bene ribadirlo – più cattive” degli uomini, ma semplicemente perché rispetto a questi ultimi sono molto più a contatto con i minori sia in quanto madri sia perché svolgono molto più degli uomini mestieri a diretto contatto con i bambini e con gli adolescenti (operatrici di asili nido, maestre, insegnanti, baby sitter ecc.). E’ una ragione sufficiente per colpevolizzare l’intero genere femminile? Direi proprio di no.
Dicevo prima che fra i bambini i rapporti sono spesso estremamente violenti, sia dal punto di vista fisico che psicologico. Per questa ragione si devono criminalizzare i minori? Naturalmente no. A meno di non pensare che anche la violenza agita dai bambini (e dalle bambine) su altri bambini sia il risultato della cultura maschilista e patriarcale che hanno interiorizzato. Ma questo significherebbe dire che le madri non hanno nessun potere di condizionamento sui loro figli e sulle loro figlie, il che è naturalmente falso, privo di ogni fondamento e anche offensivo per le donne, a mio parere, che non sono mai state e men che meno sono oggi delle semplici fattrici, checchè ne dica la vulgata femminista…
E se invece provassimo ad affrontare il tema della violenza in modo laico, razionale e non ideologico, cominciando con l’accettare che l’essere umano è un essere complesso e che non sono possibili semplificazioni ideologiche e manichee, specie in tema di relazione fra i sessi? E’ così difficile?
No, non lo sarebbe, in linea teorica. Il problema è che se lo si facesse la narrazione femminista, ideologica e colpevolizzante a senso unico, si squaglierebbe. Con tutto ciò che ne consegue.
Cui prodest? Di sicuro non agli attuali “padroni (e padrone) del vapore” che vedono come il fumo negli occhi la teorica e potenziale riapertura del conflitto di classe ma sono ben felici di alimentare la guerra permanente fra i sessi.
Qualcuno/a ha cominciato a capirlo. Ancora troppo pochi/e.