Sebbene sconvolti dobbiamo cercare di fare nostro il motto spinoziano, “non piangere né ridere ma comprendere”. Dobbiamo, anche se non è facile, analizzare ciò che è successo e focalizzare la nostra attenzione su ciò che ci può aiutare a capire come sia stata possibile una mattanza di questo genere.
Il primo elemento, a mio avviso, è che non abbiamo a che fare con il terrorismo “classico”, diciamo cosi novecentesco, che aveva – passatemi il termine- una base e un fondamento “umanistico”; aveva come obiettivo gli uomini-simbolo del “male” del sistema e perseguiva un nuovo (malato, deformato, deviato) orizzonte umano da edificare a qualunque costo, anche sacrificando vite umane. La morte era sì contemplata ma come elemento accidentale, insito, in questo tipo di lotta estrema e disperata (anche perché, dal loro punto di vista, il sistema non permetteva altra lotta se non quella).
Qui, viceversa, siamo di fronte ad un salto di qualità impressionante, che racconta della deriva “mortifera” che attanaglia – direbbe Freud – la nostra civiltà; una pulsione di morte, di un sacrificio salvifico e ambito da portare al cuore del nemico. Morire non è più un accidente, un effetto collaterale della lotta ma diviene l’elemento centrale, se non determinante, del nuovo, inedito, attacco in corso.
Ciò detto, è spiazzante, se non inutile, sperare di dialogare con queste forze né tentare di rieducare chi non ha altra ambizione se non quella di immolarsi per la causa, morire per “rinascere” a nuova vita, in un paradiso ideale in cui esistere finalmente, riscatto – forse – di una vita trascorsa nell’anonimato e nello sfruttamento, nella frustrazione di non essere riusciti a costruirsi un’esistenza degna di questo nome, un “successo” agognato e pubblicizzato da una società sempre più selettiva ed ingiusta, che centralizza la ricchezza nelle mani di pochi relegando la stragrande maggioranza della popolazione mondiale nella miseria e nell’attesa – vana – di una vita migliore.
Questo è forse l’elemento più spiazzante; avere cioè a che fare con uomini e donne che non solo non hanno paura della morte (come invece il mondo occidentale ha) ma la bramano, la invocano, la cercano, per dimostrare di essere più forti, imbattibili; non si può vincere, da nessun punto di vista, con chi vuole morire; non c’è educazione, né politica né azione individuale e collettiva che può fare breccia in cuori e anime votate alla morte come alla più alta e massima delle proprie realizzazioni. Il non essere vince e domina l’essere; il thanatos l’eros, questo è il tratto saliente, insuperabile, dei nostri tempi. Il fascismo che evocava la “sorella morte”, che gridava “me ne frego”, vinse anche così.
Forse è azzardato ma in qualche modo il terrorismo jihadista e il precariato di massa e le speculazioni finanziarie della globalizzazione neo-liberista sono due facce della stessa medaglia; riducono il soggetto a funzionalità, l’uomo a “vuoto” da riempire col nulla, pura azione mortifera, azzeramento affettivo, cosalità vendibile e comprabile sul mercato, deriva nichilistica, passività naturalistica nei confronti della complessità storica, accettazione della morte come salvazione, delirio edonistico del non essere sull’essere.
E’ impossibile qui entrare nel merito delle pesanti responsabilità storiche e politiche dell’Occidente in questa barbarie. Ci vorrebbero decine e decine di saggi e lo spazio non ce lo consente. Ma è evidente che non si possono alterare degli equilibri pluridecennali se non secolari, non si possono spodestare con le armi e le guerre “umanitarie” dittatori e autocrati, non si può assistere passivamente ad una guerra civile come quella siriana per anni (perché a nessuna delle potenze occidentale faceva comodo intervenire), non si possono armare forze “brutali” per combattere il nemico di turno per poi spaventarsi che queste stesse forze rivolgano le proprie armi contro i burattinai di ieri, che non portino il terrore laddove si è deciso di terre e popoli spartendosi il bottino e imponendo i propri “campioni” economici e finanziari. Le potenze che oggi evocano “la resistenza alla barbarie”, la superiorità dei valori nati dalla rivoluzione francese e che caratterizzano da duecento anni la nostra “libera” civiltà, sono rimaste inermi di fronte al massacro della guerra civile siriana e al caos irakeno e libico e altre ancora hanno finanziato e finanziano in chiave anti Assad e anti sciita, le milizie dell’ISIS.
Romano Prodi auspica una politica di concerto delle potenze internazionali per uscire dallo stallo; si illude. Ognuno farà la sua politica e giocherà le sue carte sullo scacchiere medio orientale e siriano appoggiando l’una e l’altra frazione a seconda degli interessi immediati e dei profitti derivanti da un allargamento della propria sfera di influenza, mentre a parole predica la pace nel mondo e la fine della barbarie. Altri strumentalizzeranno, come sempre è stato fatto, il dramma complesso dell’immigrazione (prodotto si dalle guerre in corso e dalle crisi conseguenti ma soprattutto dai sommovimenti economici e sociali derivati dalla nuova fase della globalizzazione mondiale, dal declino delle vecchie potenze e dall’ascesa delle nuove, che spostano milioni di persone verso “le città” Occidentali in cerca di fortuna e di una vita migliore), per spostare a destra il baricentro politico nazionale e ridare fiato all’ideologia sovranista del “padroni a casa nostra”, polarizzando il conflitto dialettico in corso in un mero e asfittico “scontro di civiltà”.
Tutto questo però non basta: occorre avere il coraggio di andare oltre queste mere considerazioni di fatto. Questo barbaro attentato ci parla della sconfitta di un modello di vita, quello cosiddetto “occidentale”, del modello sociale europeo (quello che gli immigrati si illudono di raggiungere e vivere), della divisione dei poteri e della laicità nate dalle parole d’ordine della rivoluzione francese, libertà, fraternità, eguaglianza, mai come oggi, al di là di questi eventi imprevedibili e terrificanti, messe giorno per giorno, in discussione.
I grandi della terra parlano di “riscossa”, di rivendicazione dei nostri valori e della nostra civiltà: ma è proprio questa civiltà, queste parole d’ordine nate tre secoli fa ad essere entrate in crisi, ad essere quotidianamente disattese e vilipese, predicate solo a parole, scritte sui monumenti e sulle costituzioni ma mai veramente realizzate e rese “materia viva”, operante, vissute come prassi emancipante, umanizzante dai popoli di tutto il mondo.
Quest’attentato rappresenta in modo plastico e tragico la crisi irreversibile dell’era moderna, iniziata sulle barricate americane e parigine contro i privilegi della nobiltà e del clero, che fece proprie le conquiste della scienza per comprendere i processi storici, che diede a tutti i cittadini diritti e doveri, che “impose” il laicismo come metodo di convivenza umana, di quel liberalismo da cui nacque il socialismo e che fin dai vari tentativi portati avanti da Rousseau, Babeuf, dai socialisti utopisti prima e dal movimento marxista e socialista poi, si tentò di concretizzare, di riportare “dal cielo alla terra”, per costruire nella realtà il “regno dei giusti e degli eguali”, l’uomo nuovo onnilaterale, il neo umanesimo realizzato nella comunanza dei beni e della ricchezza.
Ecco, sperando di non cadere nella retorica, questo attentato ci restituisce la sconfitta di circa trecento anni di storia, l’immagine di una civiltà in cui le sue parole d’ordine, in cui gli ideali e i valori su cui si era costruita sono abitualmente derogati a tutto vantaggio dell’unica regola aurea ed insuperabile; quella del profitto e della politica di potenza.
Molti evocano l’intervento della politica, di una politica autorevole con la P maiuscola. La politica si è arresa da tempo alla finanziarizzazione dell’esistente, alla sua brutalità economica e al gioco delle alleanze e dell’equilibrio\squilibrio della bilancia globale, perdendo quello slancio valoriale ed utopico, quel vedere oltre la contingenza e le convenienze del momento che gli ha permesso di cambiare il mondo, di lottare e combattere la barbarie e far vincere “la razionalità” dell’uomo unito all’umanità dagli stessi interessi generali.
E’ precisamente il piano umanistico su cui impostare una riscossa che viene meno, è l’impossibilità di riarticolare una politica come analisi e liberazione che ci atterrisce e ci rende sempre più dipendenti dalle emozioni e dai bassi istinti e ci impedisce di agire per trasformare ciò che abbiamo intorno a noi, facendoci sentire inadeguati e “piccoli”, indifesi rispetto all’enormità disumana che ci circonda. Come asseriva Foucault, al potere fa comodo uomini malati, perché meglio governabili.
La crisi del neo-liberismo e le contraddizioni portate avanti dalla globalizzazione e dalle lotte tra le potenze imperialistiche, la nuova fase strategica, la finanziarizzazione dell’economico, la precarizzazione sociale conseguente, il sacrificio di interi popoli sull’altare degli interessi geo politici di pochi, la radicale disarticolazione del welfare state e della politica come “direzione pianificata” dei processi, hanno creato il brutale caos in cui viviamo, in cui schegge impazzite di borghesie fradice di petrolio (con profonde e ramificate relazioni con il nostro occidente) ma con un preciso piano destabilizzante hanno preso il sopravvento su qualsiasi tentativo di ri-umanizzare l’esistente; come ebbe a dire il grande Eduardo de Filippo “’a da passa ‘a nuttata”; speriamo che dopo risorga di nuovo il sole.