Il mondo del lavoro per tutti coloro della mia generazione che sono nati senza camicia è stato un susseguirsi, salvo rare eccezioni, di occupazioni in nero, precarie e generalmente malpagate rispetto alle mansioni richieste. Alzi la mano chi sa di far parte di questa cerchia e non ha mai vissuto, almeno una volta sulla sua pelle, la percezione diretta e tangibile del conflitto di classe.
Sarete in pochi, e forse è solo perché non l’avete riconosciuto.
Io questa percezione l’ho avuta anni fa, quando facevo la donna delle pulizie e il mio datore di lavoro era una donna.
Nonostante già allora mi fosse chiaro che il padrone sta sempre dall’altra parte della barricata rispetto al lavoratore, non riuscivo comunque a capacitarmi di come certi comportamenti vessatori potessero essere perpetrati da una donna nei confronti di un’altra donna, ancorchè la stessa, per quanto alto-borghese, si dichiarava esplicitamente femminista e di sinistra.
Esperienze come questa appaiono tutt’altro che contraddittorie nel momento in cui per leggerle si adoperano non solo le lenti e gli strumenti della coscienza di classe, ma si fa ricorso ad ulteriore elemento fondamentale ai fini della comprensione, ovvero la consapevolezza che queste lenti vengono costantemente imbrattate da una narrazione ideologica che, avendo sostituito il concetto di classe con quello di genere, deforma interamente la percezione della realtà.
Secondo questa narrazione infatti, ogni donna sarebbe in connessione emotiva con tutte le altre, una sorta di coesione ancestrale, una dichiarazione di solidarietà empatica col fiocco rosa chiamata “sorellanza” che scalza la più antiquata “fratellanza universale”, evidentemente non gradita in quanto quest’ultima, si dice, non solo crea una gabbia grammaticale opprimente perché di natura patriarcale, ma addirittura ardisce troppo nell’intento, comunemente inteso, di riferirsi e comprendere ogni essere umano.
Sempre secondo questa narrazione, banalizzando il concetto (ma neanche troppo), Pippo l’operaio e l’Eccellentissimo Ingegnere Tiziocaio sarebbero ugualmente oppressori, mentre Gaetana la badante e l’Eccellentissima top manager Taldetali, ugualmente oppresse.
Quindi, alla luce del postulato sacro secondo cui ogni uomo è sfruttatore, è bene solidarizzare solo tra vaginomunite.
“Femmine di tutto il mondo, unitevi!”.
Lo spettro che ad oggi si aggira per l’Europa” anzi, per l’intero occidente, non è più quello del comunismo.
Dovrebbe arrivare per tutti quel momento cruciale in cui i pianeti si allineano e il velo ideologico calato davanti i nostri occhi, a causa del decennale indottrinamento mediatico femminista, scivola via, così da poter intravedere finalmente un’altra versione dei fatti.
La “sorellanza” apparirebbe allora come un’ipocrita messa in scena, inventata dal femminismo per darsi un tono e convincere tutti che le donne costituiscono un corpus unico, sempre pronto a fare quadrato e auto-difendersi da un atavico (ma falso) nemico: “l’oppressore maschile”.
Quello che le sorelle non vedono e non dicono – o fanno finta di non vedere, e quindi non dicono – è che anche il genere femminile nel corso della storia non si è sottratto a ruoli di oppressione, e come visto è ancora così.
La martellante campagna propagandistica sull’empowerment femminile, che mira ad incoraggiare le donne a raggiungere sempre di più ruoli dirigenziali, ripete incessantemente a tutti quanto queste meritino di stare ai vertici e quanto le doti femminili influenzino positivamente gli ambienti lavorativi, sia in termini di percezione della vivibilità da parte dei professionisti sotto la loro guida, che in termini di fatturato.
“Le donne fanno meglio” quindi la loro presenza tra le dirigenze renderebbero il mondo del lavoro migliore per tutti, ecco che sono assolutamente necessarie più donne CEO, direttrici di banca, manager, cape ingegnere, presidi, magistrate, ecc.
Più quote rosa ovunque insomma, tranne che nei lavori pesanti, sporchi e pericolosi, per quelli le quote maggioritarie le lasciamo volentieri agli uomini (da sempre) e in questi casi riconosciamo le sacrosante differenze di genere.
Ebbene, se la narrazione femminista tira in un verso la cruda realtà avanza nel verso opposto.
Dopotutto le donne sono, come chiunque altro, calate nel sistema economico attuale e quando si ritagliano al suo interno un ruolo di potere non ci pensano proprio a sottrarsi alle regole dei rapporti economici dettate dal capitalismo, anzi, ne traggono beneficio e le fanno valere come farebbe qualunque padrone, ovvero nel peggiore dei modi.
Ma in effetti come potrebbe essere il contrario?
Chi detiene il potere economico non può che puntare a preservare o ampliare il suo privilegio a scapito dei suoi sottoposti, che il padrone sia uomo o donna poco importa dunque, il suo ruolo è lo sfruttamento di chi ha un peso specifico minore, come il lavoratore subalterno.
Nulla di strano allora nel riconoscere che le donne possono benissimo rendersi protagoniste di storie di sfruttamento sul lavoro nel ruolo di carnefici, anche di altre donne, in barba anche ad un’eventuale sbandierata fedeltà alla “sorellanza”.
Ecco che, ancora una volta, l’impalcatura femminista si mostra pericolante e che la favola della sorellanza crolla sotto il peso della realtà.
Il vero conflitto è quello di classe, prima ce ne rendiamo conto e meglio è.
Fonte foto: OUTsiders webzine (da Google)