Come ho già avuto modo di dire in precedenti articoli la scuola italiana è tuttora una scuola di classe. Sono però in buona parte cambiate le condizioni e le modalità di questa selezione (di classe). Vediamo di capirci qualcosa.
Da tempo infatti, diciamo da almeno tre decenni, la scuola è diventata un sostanziale parcheggio per masse di giovani che verranno poi abbandonate al loro destino una volta entrate nel “mercato del lavoro” – ridotto ad una sorta di hobbesiano “homo homini lupus”, di giungla dove i lavoratori e le lavoratrici si azzannano fra loro in una competizione diseguale camuffata da “libero mercato” – in base alle competenze acquisite e ovviamente (e soprattutto) alla loro condizione sociale.
Fino ad una quarantina di anni fa, la scuola operava una forte selezione – sempre rigidamente di classe – a partire dalle elementari. La selezione avveniva all’inizio del percorso, gli studenti giudicati “inabili” venivano espulsi dal sistema scolastico fin dalla scuola primaria (elementari e medie inferiori). Emblematiche in tal senso erano le famose “classi differenziali” dove venivano concentrati i ragazzi che avevano problemi di vario genere, sociali, psicologici, familiari, relazionali e quant’altro. Nella scuola media che frequentavo io, ricordo bene la famigerata “sezione H” (anche dalla scelta della lettera traspariva la pulsione sordidamente classista e razzista della “cultura” dominante all’epoca). Quando noi studenti “normali” passavamo davanti alla sezione H avvertivamo una sensazione nello stesso tempo di sollievo per il fatto di vivere una condizione di “normalità” sociale e personale e, dall’altra, di inquietudine se non di vera e propria paura di poter precipitare anche noi in quella specie di ghetto per disadattati sociali e umani. Infatti le classi differenziali servivano anche da deterrente sui ragazzi, appunto, “normali” e quindi come una sorta di ricatto psicologico. Per la serie: “Se ti comporti male è lì che finirai”. Fortunatamente quella specie di apartheid per giovani e giovanissimi è stato superato nel tempo da una mobilitazione culturale e politica che ha portato a superare quello scempio.
Dopo le elementari e le medie iniziava quindi la biforcazione – esistente in larga parte anche oggi – fra chi continuava gli studi negli istituti tecnici e professionali (quasi esclusivamente maschili), chi negli istituti magistrali e linguistici (a maggioranza femminile) e chi nei licei classici e scientifici.
Come vediamo, la struttura stessa della scuola era ed è tuttora predeterminata. Nei tecnici e nei professionali finiscono i giovani (quasi esclusivamente maschi) di estrazione popolare e proletaria (quando non vengono espulsi prima) destinati ad ingrossare le fila del lavoro operaio e manuale più o meno generico e dequalificato e in moltissimi casi precario. Sono quelli che tuttora svolgono i mestieri più usuranti e rischiosi e che muoiono pressochè in esclusiva sul lavoro; una tragedia sociale e di genere maschile ovviamente occultata dai media che accendono i riflettori solo e soltanto sulla condizione femminile.
Gli istituti magistrali, alberghieri e linguistici (in gran parte femminili) sono per lo più preposti a sfornare lavoratrici del settore terziario e impiegatizio, comunque subalterne quanto i primi e spesso anche in questo caso precarie. Del resto la precarietà del lavoro è ormai la normalità, in seguito all’ennesima rivoluzione tecnologica e al grande processo di ristrutturazione del lavoro che ha determinato nelle società capitaliste negli ultimi decenni.
Infine abbiamo i licei classici, scientifici e artistici (a maggioranza, anche se non schiacciante, femminile) dove ovviamente finiscono in buona parte i figli e le figlie delle classi medie e medio-alte, anche se negli ultimi tempi la situazione, in virtù della scolarizzazione di massa, si è modificata e anche molti giovani di ceto medio basso e a volte basso sono finiti a frequentare i licei, anche se di periferia. Anche per gli studenti che frequentano i licei la selezione sarà comunque di classe, anche se formalmente partono dalla stessa base di partenza. E’ ovvio che anche fra coloro che si diplomeranno in un liceo ci sarà chi potrà continuare gli studi universitari e chi sarà oberato dalla necessità di trovare un lavoro, chi si troverà avvantaggiato nel trovare una collocazione professionale una volta terminati gli studi universitari in virtù della sua appartenenza familiare e sociale, e chi se la dovrà cavare con le sue sole forze. Certamente ci sarà anche una percentuale, di sicuro non maggioritaria, di giovani nati “senza camicia”, senza beni al sole e senza genitori benestanti o illustri che riusciranno a collocarsi, a fare carriera e ad affermarsi socialmente. Ma proprio questi ultimi sono necessari al “sistema dominante” per poter giustificare ideologicamente se stesso. Per la serie “chi lo vuole veramente ce la può fare”. E’ la logica dell’ “uno su mille ce la fa” come recita anche una famosa canzone. Quand’anche fossero cento su mille il discorso non cambierebbe di una virgola. Il “sistema” ha necessità di coprire e camuffare la sua natura di classe per cui un certo numero di persone DEVE portecela fare ed entrare quindi nel salotto buono, altrimenti se così non fosse il sistema perderebbe di credibilità e di quella necessaria dose di “falsa coscienza” necessaria alla sua autoriproduzione.
La scolarizzazione di massa, per essere ancora più chiari, sostenuta dai grandi partiti di massa della cosiddetta Prima Repubblica, ha allungato sensibilmente il periodo di permanenza della gran parte dei giovani nella scuola e ha ampliato la fascia di studenti di origine popolare che frequentano i licei, ma non ha affatto modificato la struttura di classe della scuola che corrisponde, naturalmente, alla struttura altrettanto di classe della società civile. Tuttora, anche se l’espulsione dalla scuola è molto meno forte nelle scuole primarie rispetto al passato – anche perché sarebbe troppo difficile da assorbire da parte del mercato un eccesso di manodopera giovanile, anche se a basso o a bassissimo costo – la selezione, comunque ormai minima, anche nelle scuole secondarie superiori avviene su dinamiche rigidamente sociali. Ad essere bocciati o non ammessi, ad esempio, agli esami di maturità, sono gli studenti più fragili, sia personalmente che socialmente. Lo studente o la studentessa con una famiglia socialmente robusta alle spalle in grado di sborsare qualsiasi cifra in termini di spese legali per fare ricorso o comunque di esercitare una forte pressione sulla scuola, non verrà mai bocciato/a o non ammesso/a agli esami di maturità. Sia i presidi che i docenti sono peraltro letteralmente terrorizzati alla sola idea del ricorso, anche se per ragioni in parte diverse. I presidi sono ormai dei manager e ragionano come tali. Quanti più studenti sono iscritti ad una scuola tanto più quella stessa scuola potrà beneficiare di fondi pubblici o europei per progetti che poi verranno portati avanti da alcuni docenti che in genere sono quelli che fanno parte della “corte” che ruota attorno ai presidi o ai “reggenti” (in assenza dei presidi) in una spirale “perversa”, diciamo così, che serve ad alimentare invidie, rancori, competizioni e quindi sostanzialmente a dividere il corpo docente (di cui peraltro faccio parte da quasi una decina d’anni a questa parte) il quale, sia chiaro, non per questo deve essere sollevato dalle sue responsabilità. Qualsiasi docente provvisto di un briciolo di onestà intellettuale sa perfettamente che le cose stanno in questo modo.
In conclusione, è stato allungato moltissimo per la maggior parte dei giovani il periodo di permanenza a scuola, per le ragioni che ho sia pure molto sommariamente spiegato sopra. La scuola è sostanzialmente ridotta ad un parcheggio dove non interessa quasi più a nessuno (tranne che a quei docenti volenterosi e provvisti di coscienza) la formazione e la crescita culturale e umana dei ragazzi. Al contrario si tende sempre più a contrarre, anche in termini di spazio e tempo, lo studio delle materie umanistiche e a riempire la scuola di progetti e/o vari corsi di formazione che dovrebbero sulla carta preparare i giovani all’ingresso nel mondo del lavoro e che invece contribuiscono ad impoverirli sia culturalmente che professionalmente ed umanamente. La famosa alternanza scuola-lavoro ha aperto la strada a questo processo di sostanziale impoverimento della scuola italiana. La contraddizione è palese. Si è lottato per decenni per una scuola inclusiva che si voleva fondata sulla formazione e sulla crescita culturale dei giovani a prescindere, e oggi al contrario gli si dice di fatto che non devono perdere più di tanto tempo sulla storia, la filosofia, le lettere antiche o moderne, la letteratura latina e greca o anche di altre grandi culture (mai peraltro inserite nei programmi scolastici) perché devono prepararsi ad entrare nel mondo del lavoro, cioè nel mercato selvaggio e de-regolato dove in realtà soltanto alcuni riusciranno ad “emergere”, con quali modalità e criteri è tutto da vedere, ma questo è assolutamente indifferente al “sistema”.
L’idea di scuola concepita dai Padri Costituenti è ormai solo sulla carta. Ha vinto la cultura “anglosaxon”, cioè quegli “spiriti animali del capitalismo” applicati ad un paese già zeppo di contraddizioni storiche e sociali non ancora superate come il nostro. Il risultato è evidente a chiunque non abbia portato il cervello all’ammasso o, peggio, al monte dei pegni.
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