Con deliberazione del disegno di legge dello scorso 12 aprile la Camera ha approvato il disegno di legge “Disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del CNEL e la revisione del Titolo V della parte II della Costituzione”.
Sullo stesso testo di legge, approvato con 361 voti a favore e con l’assenza dal voto di tutte le opposizioni e pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 15 aprile, si esprimerà il corpo elettorale con il referendum confermativo del prossimo ottobre, non essendosi raggiunta (sia pur di poco) la maggioranza dei 2/3 dei voti a favore che la Costituzione prescrive al fine di evitare la consultazione popolare.
I punti critici della riforma che il Presidente del Consiglio non esita a definire “storica” sono molti e certo non è questa la sede per affrontarli tutti nello specifico, vista anche la complessità che essi presentano. Si può, però, tracciare un bilancio di sintesi nel “metodo” e nel “merito” di questa Riforma enucleando solo alcuni aspetti sintomatici dell’essere questa una riforma sbagliata e, per molti aspetti, incoerente.
Partiamo dagli aspetti di “metodo”.
Il primo interrogativo cui si deve necessariamente dare una risposta è il seguente: questo Parlamento era legittimato a compiere un’opera di questa portata? Era legittimato cioè a mettere mano al testo giuridico più “sacro” che il nostro ordinamento possiede, il testo che, per usare le parole di Calamandrei, uno dei padri Costituenti, era “nato dalla Resistenza”?
Apparentemente ogni Parlamento è legittimato a promuovere ed approvare riforme costituzionali se i numeri glielo consentono, ma in questo caso c’è un particolare non di poco conto che complica la vicenda rappresentato dalla sentenza n. 1 del 2014 della Corte Costituzionale, con la quale la stessa Corte aveva censurato il “Porcellum”, la legge elettorale tuttora vigente, giudicandola incostituzionale.
Ci troviamo cioè di fronte ad un Parlamento che, sia pur costretto ad operare in funzione del principio della necessaria continuità della funzione, è stato sostanzialmente delegittimato dalla Corte proprio perché eletto sulla base di una legge incostituzionale. Questo stesso Parlamento delibera in via definitiva, invece, sul testo di legge più importante, quello che investe i diritti di ognuno e scolpisce l’organizzazione dei poteri dello Stato.
Sulla legittimazione formale di tale operazione di revisione le opinioni dei costituzionalisti divergono anche se appaiono più forti e più numerosi gli argomenti di chi sostiene che il Parlamento nato dal “Porcellum” non fosse nella possibilità di procedere ad una revisione organica della Costituzione. Di sicuro la scelta di deliberare sulla Costituzione da parte di questa legislatura appare, se non illegittima in punto di stretto diritto (non essendovi precedenti in tal senso è anche più complicato giungere a conclusioni univoche), largamente inopportuna.
Altro aspetto di metodo: la riforma della Costituzione è materia di partito di governo? La risposta è no. Almeno in teoria la Costituzione dovrebbe valere a regolamentare la vita di ogni cittadino, a fissare i tratti fondamentali dello Stato e a sancire le regole del gioco per tutti e le regole del gioco le scrivono i giocatori, non il giocatore più forte.
Eppure, anche in ciò troviamo una forte anomalia visto che le aule parlamentari sono state completamente esautorate riguardo al dibattito circa la riforma della Costituzione. Saranno pochi i lavori parlamentari cui l’interprete potrà attingere per ricostruire i fondamenti della riforma ed interpretare i (moltissimi) punti oscuri della Riforma. Tutto si è sostanzialmente svolto in seno al partito di maggioranza ed ai partiti minori che sostengono l’attuale esecutivo. Anche qui pesano le parole di Calamandrei che evidenziano, sia pur a distanza temporale, l’anomalia di questa Riforma sul piano del metodo utilizzato “…Nella preparazione della Costituzione, il governo non deve avere alcuna ingerenza…” “Nel campo del potere costituente il governo non può avere alcuna iniziativa, neanche preparatoria”. “Quando l’Assemblea discuterà pubblicamente la nuova Costituzione, i banchi del governo dovranno essere vuoti”.
Ma se le premesse metodologiche sono queste, non appare certo incoerente che chi questa riforma l’ha proposta e l’ha adottata, in barba ad un effettivo ed ampio confronto parlamentare, faccia oggi di essa un vessillo da agitare, quasi che un testo costituzionale debba essere oggetto di campagna elettorale e faccia addirittura dipendere dall’esito della consultazione referendaria di ottobre i propri destini di governo. In realtà, la Costituzione non dovrebbe essere terreno di campagna elettorale o plebisciti personali.
Ma qui, inevitabilmente, il discorso si sposta sul “merito”.
Lo stesso peso del Governo e del partito dominante è alla base del contenuto della Riforma. Se si dà uno sguardo alle disposizioni introdotte sembra che esso possa trasformarsi in assoluto dominus della scena politica-rappresentativa esautorando il Parlamento di parte dei suoi poteri normativi e di controllo ed incidendo significativamente sulle nomine degli organi di garanzia costituzionale.
Questa sensazione è tanto più forte quanto più si legge la riforma in “combinato disposto” con la riforma elettorale (c.d. Italicum) approvata precedentemente.
Difatti, potremmo trovarci di fronte ad una sola formazione politica alla cui lista spetterà una robusta maggioranza di 50 seggi alla Camera, con una sproporzione evidentissima rispetto ai voti effettivi ottenuti durante le elezioni, una forza politica che farà il buono ed il cattivo tempo potendo altresì dettare l’agenda allo stesso Parlamento.
E’ inserita, infatti, all’interno della Riforma costituzionale la previsione per cui il Governo potrà imporre alla Camera le votazioni di legge che lo stesso Governo, a suo insindacabile giudizio, riterrà “essenziali” per l’attuazione del suo programma ed assieme a questa norma compare l’istituto della “tagliola” che stronca il dibattito parlamentare permettendo al governo di imporre la chiusura dello stesso e delle proposte di emendamento entro il termine di 70 giorni, per passare subito al voto finale sul testo proposto.
Tale quadro normativo, che, come detto, impone di leggere congiuntamente nuova legge elettorale e riforma costituzionale, contiene dunque un mix esplosivo di disposizioni che depongono, in definitiva, nel senso di un sensibile allontanamento della “forma di governo parlamentare”.
D’altra parte, vi è un ulteriore effetto di rilievo che attiene proprio alla Costituzione ed alle garanzie del sistema. Il partito di maggioranza, infatti, benché teoricamente espressione di una quantità di voti minoritari rispetto al complesso di quelli attribuiti agli altri partiti dal corpo elettorale, potrà avere un’incidenza determinante nell’elezione degli organi costituzionali di garanzia, teoricamente super partes, quali il Presidente della Repubblica e i membri della Corte Costituzionale.
Non solo, lo stesso partito espressione di una minoranza di elettori ma nonostante ciò sovradimensionato in Parlamento a causa del sistema introdotto con la legge elettorale, potrà, in virtù proprio dei suoi numeri e del suo peso specifico in Parlamento, mettere mano alla carta costituzionale facendo perdere quella connotazione di “rigidità” della Costituzione che è uno dei tratti salienti della nostra Carta Costituzionale e che è il presidio teso ad impedire che della Costituzione si occupi solo la maggioranza di governo con meccanismi e maggioranze simili a quelle che introducono nuove leggi ordinarie, proprio perché la Costituzione dovrebbe essere terreno di tutti e non di pochi.
A questi aspetti essenziali che alterano il quadro dei rapporti fra Governo e Parlamento se ne aggiungono altri altrettanto significativi che investono la suddivisione delle competenze tra Stato e Regioni da un lato e l’efficienza del sistema nel suo complesso.
Un aspetto altrettanto importante è quello dell’accentramento del potere in capo allo Stato centrale di gran parte delle competenze legislative, in controtendenza rispetto all’evoluzione del regionalismo e della sussidiarietà che esprime l’esigenza per cui le decisioni che investono una comunità locale siano migliori se condivise con la comunità stessa e siano per queste prese da un livello di governo più vicino al cittadino. La Riforma, invece, attribuisce allo Stato centrale molte competenze che oggi appartengono alle regioni ed elimina la potestà concorrente oggi in mano alle regioni, allontanando, di fatto, le decisioni politico-legislative dalla realtà locale. Anche qui, si coglie, dunque, una tendenza all’accentramento verticistico del potere rappresentativo.
Viene complicato il procedimento legislativo delle Camere: sono una decina le vie attraverso le quali si potranno approvare le leggi con il rischio più che concreto di innescare un vastissimo contenzioso di fronte alla Corte Costituzionale e dietro una riduzione numerica del Senato si lascia lo stesso in balia a margini di incertezza notevoli circa il suo effettivo ruolo costituzionale, le sue funzioni (che non sono per nulla omogenee), la sua composizione e le modalità di scelta dei senatori, rinviata in buona parte alla legge ordinaria. Infine, vengono sostanzialmente depotenziati gli strumenti di democrazia partecipativa, richiedendosi per la presentazioni dei referendum di iniziativa popolare 150.000 firme e non più 50.000 come avviene attualmente e si introduce un doppio quorum per la validità dei referendum.
Questi ultimi passaggi, sia pur solo accennati in questa sede, evidenziano un dato politico di fondo. Se il messaggio a carattere promozionale che spesso viene patrocinato e che sarà sempre più ossessivo da qui in avanti (c’è da scommetterci) da parte di chi si è fatto promotore di questa Riforma è quello dell’efficienza, dello snellimento delle procedure, della semplificazione, dalla prospettiva di un esame non superficiale del testo approvato emerge, al contrario, una connotazione dello stesso in cui non solo gli elementi della partecipazione democratica-rappresentativa vengono sviliti ma in cui anche le procedure vengono complicate.