La seconda guerra mondiale e l’esperienza fascista hanno fondato la Repubblica e la Costituzione italiana. Il rifiuto della guerra quale modalità per risolvere le contese internazionali e sociali è il risultato del processo di riflessione sui valori del nazifascismo e sui suoi effetti. La guerra e la violenza sono stati i paradigmi e la sostanza del fascismo. Il travaglio e la tempesta di fuoco scatenata dalla violenza fascista sono stati oggetto di processi di concettualizzazione collettiva al fine di fondare il nuovo stato italiano post seconda guerra mondiale. La Costituzione è espressione del progetto di fondazione di una nuova comunità nel segno della pace, dei diritti individuali e sociali. La violenza e la coartazione della volontà personale sono state sostituite dal rispetto della dignità della persona e dunque dalla sua autonomia decisionale. La Repubblica e educa al logos, sostiene i processi di sviluppo della personalità (articolo3) e rende obbligatoria l’istruzione (articolo 34), perché c’è pace, dove vi è formazione e partecipazione. La pace è il valore della Costituzione e della Repubblica, non una pace zuccherosa, ma pace dialettica e dialogica, che fa dello scontro-incontro dialogico il fondamento della nuova Repubblica.
Di grande rilievo è l’articolo 11 ed il dibattito che l’ha preceduto. La relazione del Presidente della Commissione per la Costituzione Meuccio Ruini nel 1947 dichiarò contro ogni nazionalismo che l’Italia rinnega la guerra in nome del rispetto della pace all’interno dei rapporti internazionali, a cui giungere mediante rapporti di reciprocità e limitazioni eventuali della sovranità nazionale:
“Rinnegando recisamente la sciagurata parentesi fascista l’Italia rinuncia alla guerra come strumento di conquista e di offesa alla libertà degli altri popoli. Stato indipendente e libero, l’Italia non consente, in linea di principio, altre limitazioni alla sua sovranità, ma si dichiara pronta, in condizioni di reciprocità e di eguaglianza, a quelle necessarie per organizzare la solidarietà e la giusta pace fra i popoli. Contro ogni minaccia di rinascente nazionalismo, la nostra costituzione si riallaccia a ciò che rappresenta non soltanto le più pure tradizioni ma anche lo storico e concreto interesse dell’Italia: il rispetto dei valori internazionali”.
Articolo 11
L’articolo 11 è il risultato condiviso del dibattito, e dei confronti, e ribadisce in modo inoppugnabile che la Repubblica ripudia la guerra offensiva e promuove accordi che possano evitare conflitti, e a tal fine sostiene gli organismi internazionali, entro cui risolvere le tensioni internazionali:
“L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”.
La pace non è un valore che vive nell’iperuranio, dev’essere realizzata con una economia che soddisfa i bisogni autentici delle comunità. L’adesione alla NATO (4 aprile 1949) sin da subito ha inficiato l’articolo 11. Pace e giustizia sono un binomio inscindibile, l’una sorregge l’altra. Proclamare la pace e commerciare in armi non è solo una contraddizione, ma una scissione che struttura un modello culturale fondato sulla doppia morale, sull’ipocrisia. Si occulta la verità negando di fatto la pace proclamata nella Costituzione: non vi è pace che nella verità. La Repubblica che come da Costituzione è res publica, cosa pubblica, patrimonio comune non può perseguire le esclusioni, le conventicole lobbistiche e le verità di regime e del politicamente corretto, le quali sono la negazione della pace. La nostra Repubblica è distante dalla pace e dalla Costituzione che proclama, ora, è solo oligarchia, e dunque non vi è democrazia, ma solo un teatrino ideologico senza spessore: il male è superficiale affermava la Arendt
L’omicidio Reggeni
L’omicidio di Giulio Reggeni commesso in Egitto tra il gennaio ed il febbraio del 2016, non è un semplice caso giudiziario, ma svela la tragedia e le contraddizioni della Repubblica. Le torture della polizia egiziana tormentarono a tal punto Reggeni che la madre dichiarò di averlo riconosciuto dalla punta del naso, le sembrava che tutto il male del mondo si fosse riversato sul figlio. Nelle parole della madre si palesa la verità: il male è del mondo e nel mondo, quest’ultimo è un intreccio di relazioni spesso inconfessabili. L’Egitto nello scacchiere mediorientale ha una posizione strategica, può contribuire a determinare i destini della Libia destabilizzata dall’occidente (2011), per cui è oggetto degli interessi di inglesi, francesi e turchi. La Libia galleggia su gas e petrolio, pertanto il caso Reggeni è interno a tali logiche di depistaggio con tentativi di inquinare i rapporti internazionali al fine di saccheggiare la Libia condizionando la politica egiziana. Si ipotizza che il suo assassinio possa coinvolgere i servizi segreti egiziani e non, al fine di incrinare i rapporti tra Italia ed Egitto con lo scopo di indebolire una concorrente (l’Italia) nell’area mediorientale. E’ solo un’ipotesi. Il caso Reggeni è un intrigo internazionale che svela la realtà del Capitalismo assoluto, e specialmente svela quanto l’economicismo abbia attaccato frontalmente la Costituzione al punto da renderla solo un documento da utilizzare per la propaganda di circostanza. L’articolo 11 afferma il dialogo internazionale come valore ed abiura la guerra. Samo abituati al linguaggio orwelliano, grazie al quale le missioni di guerra divengono missioni di pace: manipolazione della lingua, tradimento del dettato costituzionale e del popolo, si pratica la guerra, ma si proclama il valore della pace.
Dichiarare la pace, ma vendere armi
Il caso Reggeni è emblematico della messa in scena dell’oligarchia italiana. Si rassicura la famiglia ed il popolo con i proclami, per poi scoprire che l’Italia ha venduto all’Egitto due fregate Fremm (classe Bergamini di nuova generazione) per 1,2 miliardi di euro, ma è solo un anticipo, perché l’Egitto e il principale partner commerciale dell’Italia in campo militare. Si calcola che le commesse ammontino a 9-11 miliardi di euro. L’articolo 11 dichiara che l’Italia rifiuta la guerra quale mezzo per risolvere le tensioni internazionali, ma l’Italia vende armi che potrebbero essere utilizzate per le guerre internazionali. Cosa resta dell’articolo 11? Nulla, solo un proposito senza contenuto. L’Italia alimenta la guerra con la vendita delle armi e la violenza che denuncia la coinvolge direttamente. Reggeni è stato ucciso da uno stato che l’Italia arma. Vi sono colpe giuridiche e morali, l’Italia si trova nella posizione probabilmente di averne entrambe: la violenza che alimenta è un boomerang, come qualsiasi violenza, pronto a riversarsi su coloro che la alimentano.
Quando si legge l’articolo 11 si devono ricordare le parole della madre di Giulio nella dichiarazione del 29 marzo del 2016:”Sul viso di Giulio si è riversato tutto il male del mondo”. Quel male ci appartiene e giustizia vorrebbe non solo che gli assassini fossero processati, ma anche che si comprendessero le responsabilità italiane. Vendere armi significa fomentare la violenza, per cui ogniqualvolta che leggiamo l’articolo 11 dovremmo rammentare e riflettere sulla vendita delle armi, ed essere presi dall’euristica della paura come l’ha definita H. Jonas, ovvero ogni arma venduta espone qualsiasi essere umano al pericolo della violenza che non resta radicata in un luogo, ma si diffonde e potrebbe tornare indietro con effetti non calcolabili. Difendere la pace, volere la giustizia per Reggeni e per le vittime delle armi, è possibile solo se si lotta per un’economia della pace, per un’economia al servizio della persona. La fase attuale capitalismo è di tipo imperiale, un numero limitato di oligarchi alimenta la violenza internazionale e consolida il proprio potere all’interno di logiche di aggressione e di diffusione di una potenza di fuoco senza comparazione nella storia dell’umanità. La guerra è la struttura del capitalismo nella sua fase imperiale:”
Quasi tutti riconoscono che la guerra attuale è imperialista, ma i più deformano questo concetto o lo applicano unilateralmente o cercano di far credere alla possibilità che questa guerra abbia un significato borghese-progressivo di liberazione nazionale. L’imperialismo è il più alto grado di sviluppo del capitalismo, ed è stato raggiunto soltanto nel XX secolo. Per il capitalismo, sono divenuti angusti i vecchi Stati nazionali, senza la cui formazione esso non avrebbe potuto abbattere il feudalesimo. Il capitalismo ha sviluppato a tal punto la concentrazione, che interi rami dell’industria sono nelle mani di sindacati, di trust, di associazioni di capitalisti miliardari, e quasi tutto il globo è diviso tra questi “signori del capitale”, o in forma di colonie o mediante la rete dello sfruttamento finanziario che lega con mille fili i paesi stranieri. Il libero commercio e la concorrenza sono stati sostituiti dalla tendenza al monopolio, dall’usurpazione di terre per impiegarvi dei capitali, per esportare materie prime, ecc. Da liberatore delle nazioni quale era nella lotta contro il feudalesimo, il capitalismo, nella fase imperialista, è divenuto il maggiore oppressore delle nazioni. Da progressivo, il capitalismo è divenuto reazionario; ha sviluppato a tal punto le forze produttive, che l’umanità deve o passare al socialismo o sopportare per anni, e magari per decenni, la lotta armata tra le “grandi” potenze per la conservazione artificiosa del capitalismo mediante le colonie, i monopoli, i privilegi e le oppressioni nazionali di ogni specie[1].
Perché vi sia giustizia bisogna riportare ogni morte violenta alla sua concretezza storica, altrimenti non potrà che esservi solo il teatrino del politicamente corretto. Abbattere statue, come in questi giorni, non produce cambiamenti di alcun genere. Le statue sono parte degli strati archeologici della storia, sono monumenti che devono indurre a riflettere sui valori delle nostre comunità. Abbattere in assenza di progetti politici, è solo un atto disperato e nichilistico da parte di coloro che hanno rinunciato a creare nuovi concetti, a lottare contro i fondamenti su cui si fonda il sistema. Vi è un malessere non concettualizzato che non preoccupa in potere, in quanto si limita ad azioni disorganiche e senza futuro, e, che anzi, confermano il presente. Se si vuole dare giustizia e pace alle vittime della violenza è necessario pensare la volenza di sistema per poterla neutralizzare.
[1] Lenin Il socialismo e la guerra trascritta per Internet dalla redazione “Che fare” Aprile 2000