Fonte foto: C’era una volta l’America (da Google)
In una recente intervista alla Gabbia, Toni Negri ha definito le nazioni “cose barbare, cose tribali”. Potremmo notare, ispirandoci a un famosa battuta di Marx al tempo della Prima Internazionale, che Negri non sta parlando in esperanto, ma in una delle lingue delle barbare nazioni, l’italiano, e che, inoltre, tramite altre barbare lingue nazionali (inglese, francese, tedesco…) è riuscito a raggiungere una cultura di tutto rispetto. Dice che gli Stati Uniti si credevano imperiali e hanno perso il controllo della globalizzazione. Si tratta di posizioni abbastanza diverse da quelle sostenute in “Impero”, il libro scritto con Michael Hardt. Là affermavano: “La storia delle guerre imperialiste, interimperialiste e antimperialiste è finita. La storia si è conclusa con il trionfo della pace. In realtà, siamo entrati nell’era dei conflitti interni e minori. Ogni guerra imperiale è una guerra civile: un’operazione di polizia – da Los Angeles a Granada (forse s’intendeva Grenada), da Mogadiscio a “Sarajevo”…(1)
Il libro fu ultimato poco prima della guerra in Kossovo, ma la concezione dell’Impero fu subito smentita dalla storia, perché le guerre in Jugoslavia, in Afghanistan e in Iraq non erano certo operazioni di polizia. Chi ha visto le foto di bambini deformi di Falluja, a causa dell’uranio impoverito, inevitabilmente pensa ad Hiroshima. Più in là, Hardt e Negri scrivevano: “Nello spazio liscio dell’Impero non c’è un luogo del potere – il potere è, a un tempo, ovunque e in nessun luogo. L’Impero è un’utopia, un non-luogo”. Questo è misticismo bello e buono, questi sono i caratteri che il catechismo attribuisce a Dio, che sarebbe ovunque e in nessun luogo. Ora Negri fa riferimento agli Stati Uniti, e dice che hanno perso il controllo della globalizzazione. E’ un passo avanti in direzione di un maggiore realismo, si indica uno stato concreto e potente invece di un’utopia, ma antistoriche restano le sue dichiarazioni sulle nazioni. Le nazioni non sono un puro prodotto della borghesia, anche se nel periodo borghese alcune hanno raggiunto il massimo sviluppo, altre, invece, nuove forme di soggezione. Engels studiò, ne “l’origine della famiglia, della proprietà privata e dello stato”, la nascita delle nazioni in Europa fin dalla caduta dell’impero romano, e parlò di “nuova configurazione e articolazione dell’umanità dell’Europa occidentale in vista della storia futura”. Che questo millenario sviluppo abbia prodotto solo barbarie tribale, mentre la globalizzazione avrebbe tirato fuori dalla miseria innumerevoli popoli, è una semplificazione che finisce col distorcere la realtà. Negare ogni valore alle nazionalità è estremamente pericoloso, perché impedisce di comprendere l’imperialismo, e quindi la differenza tra le guerre di liberazione nazionale e quelle imperialistiche. Se tutte le nazioni sono barbare, che senso ha distinguere paesi oppressori e paesi oppressi? Lottare per la liberazione di un paese avrebbe necessariamente come conseguenza aiutare un nuovo oppressore contro il vecchio, da qui il disinteresse per la politica estera, cioè per una delle grandi innovazioni che Marx aveva introdotto nella Prima Internazionale, rompendo con le chiusure corporative del vecchio movimento operaio e facendo dell’Internazionale una potenza mondiale. Lenin, negli anni della grande guerra, riprese il discorso di Marx, e divise i paesi del mondo in tre gruppi: i paesi di vecchio capitalismo, che avevano giocato un grande ruolo rivoluzionario nel passato e fatto avanzare la tecnica e la scienza (Inghilterra, Francia, Germania, USA…), ma in seguito si erano trasformati in paesi imperialisti. Sotto la parola d’ordine della difesa della patria nascondevano la contesa tra potenze per spartirsi le sfere d’influenza e le materie prime. Le loro guerre erano reazionarie, e il proletariato doveva cercare di trasformarle in rivoluzioni proletarie. L’Europa orientale rappresentava il presente delle rivoluzioni nazionali. Il pericolo era lo sciovinismo grande russo. Lenin si augurava la sconfitta militare del proprio paese, e appoggiava la libera separazione di Ucraina, Polonia, Finlandia e delle colonie d’Asia, proprio per neutralizzare questo sciovinismo. Niente vietava, dopo l’indipendenza, di formare una federazione su basi volontarie, perché lo scopo dei comunisti era (ed è tuttora) di riunire i popoli sulla base della libertà, non di dividerli. Lenin ripeteva continuamente il motto di Marx: un popolo che ne opprime un altro non può essere libero. Il terzo gruppo comprendeva le colonie dell’Asia e dell’Africa, che rappresentavano il futuro delle lotte di liberazione nazionali. Il socialsciovinista Parvus, firmandosi “Parabellum”, criticava il Manifesto di Zimmerwald, definiva illusoria «la lotta per il diritto inesistente all’autodeterminazione» e opponeva a ciò “la lotta rivoluzionaria di massa del proletariato contro il capitalismo” assicurando di essere contro le annessioni. Lenin commentava: «Gli argomenti che invoca Parabellum in appoggio alle sue tesi si riducono a dire che oggi tutte le questioni nazionali, la questione dell’Alsazia – Lorena, la questione armena, ecc., si pongono nel quadro dell’imperialismo; che il capitale ha superato i limiti degli stati nazionali; dice che non si può far tornare indietro la ruota della storia verso gli ideali superati degli stati nazionali…»(2). In altre parole, escludeva ogni lotta per la liberazione dei popoli soggiogati, che dovevano attendere tranquillamente che i paesi avanzati si decidessero a passare al socialismo. In realtà, i paesi avanzati già allora erano economicamente maturi per passare al socialismo, il maggiore ostacolo era proprio il dominio su altri popoli, che permetteva, con l’esportazione del capitale e il saccheggio delle materie prime, di contrastare il tendenziale calo del saggio di profitto, giustificava la presenza di giganteschi eserciti e flotte, e consentiva il mantenimento della burocrazia parassitaria e dell’aristocrazia operaia. Lottare contro lo sfruttamento delle colonie, delle semicolonie, dei piccoli paesi, dei paesi solo formalmente indipendenti il cui governo è una pura emanazione di una grande potenza, non significa distrarre forze dal compito essenziale, la lotta per il socialismo, anzi è sgombrare la strada da un ostacolo tenacissimo, e combattere lo sciovinismo da grande potenza, il peggior nemico della lotta rivoluzionaria. Un esempio recentissimo: ” da molti giorni la Guayana si trova paralizzata da un movimento sociale largo, che denuncia condizioni di vita e di lavoro estremamente precarie in questa colonia francese sudamericana…I media nazionali hanno tardato a parlare del movimento e la prima risposta delle autorità è stata d’inviare rinforzi di gendarmeria, di reprimere e lanciare minacce soprattutto attorno alla centrale spaziale di Kourou… La sola cosa che sembra inquietare le autorità francesi è la sicurezza del centro spaziale di Kourou e il lancio del missile Ariane 5″. Jean-Luc Mélenchon è intervenuto con un messaggio retorico: “La Guyane, c’est la France ! Sa souffrance et sa colère doivent être entendues !” (La Guayana è la Francia! La sua sofferenza e la sua collera devono essere comprese) 11:35 – 25 Mar 2017 (3) Non abbiamo, al momento, una completa informazione sulla profondità e continuità di queste lotte, ma possiamo già dire che a Mélenchon sono bastate poche parole per rivelare tutto il suo sciovinismo, il suo attaccamento al colonialismo più tradizionale, il suo essere avversario di ogni emancipazione dei popoli e del proletariato. Appoggiarlo significa tradire la causa proletaria. Rispetto all’immenso impero francese di un tempo, il secondo al mondo dopo quello inglese, ciò che è rimasto è ben poco, eppure è sufficiente come cartina di tornasole per individuare a colpo sicuro lo sciovinismo, la malattia mortale che ha distrutto il grande movimento operaio del passato. Se la Guayana deve restare con la Francia e a quali condizioni, oppure separarsi, lo possono decidere solo gli abitanti del paese, e i comunisti devono denunciare ogni interferenza della Francia, degli USA o di altre potenze. Chi in Francia non riconosce questo diritto, non può definirsi internazionalista, ma sciovinista. Soltanto il riconoscimento di questo diritto crea le condizioni perché i lavoratori, i disoccupati, le masse sfruttate della Guayana vedano nel proletariato francese un alleato e non un fiancheggiatore dell’imperialismo. La questione nazionale non è un relitto del passato, e la lotta a favore dei popoli oppressi è parte integrante della lotta contro il capitale. C’è un filo storico che collega la protesta delle avventure coloniali di Andrea Costa e le lotte contro la guerra libica del 1911, alla denuncia contro i paesi Nato intervenuti in Libia nel 2011, alla lotta contro le basi americane nel nostro paese, create apposta per schiavizzare l’Africa e il Medio Oriente. Il nemico è in casa nostra, questa parola d’ordine non ha perso la sua validità, ma sarebbe ridicolo se limitassimo la nostra opposizione alle forze italiane, quando in casa nostra si è installato il più potente brigante imperialista di tutti i tempi, quando dai nostri aeroporti partono i voli che vanno a devastare decine di paesi. Ma nessun equivoco, non si tratta di difendere una pretesa sovranità italiana, come chiedono nazionalisti di destra e di sinistra. La borghesia italiana, sempre meno legata al lavoro produttivo e sempre più parassitaria, un parlamento di cacciatori di vitalizi e partiti pronti a cambiare programma non appena giunga un ordine da oltre oceano, sono ormai in decadenza senza rimedio. L’Italia è ancora un paese imperialista, ma rappresenta ormai l’ultimo gradino. Il proletariato d’Italia, invece, se riuscisse ad essere indipendente dalla borghesia e a collaborare con i lavoratori di altre nazioni, per la posizione strategica del paese – un ponte sul Mediterraneo – potrebbe avere un peso grandissimo nell’ostacolare le guerre contro l’Africa e il Medio Oriente, nel bloccare il traffico che dalla Sardegna rifornisce di armi l’Arabia Saudita per la criminale guerra in Yemen. E’ necessario anche lottare per la chiusura delle basi di Aviano, di Sigonella, per la fine dell’appoggio al Quisling degli Stati Uniti Serraj, e nello stesso tempo combattere contro il mito dell’antimperialismo cinese (si pensi ai contratti per 60 miliardi di dollari con l’Arabia Saudita) o russo. L’arma proletaria per eccellenza è lo sciopero politico. Ma occorre il partito di classe, non bastano circoli e partitini, che possono salvaguardare la teoria nei momenti più difficili, ma non hanno la forza per raccogliere intorno a sé il movimento operaio rivoluzionario. Il nostro nemico n. 1 è il Patto Atlantico, non foss’altro per il motivo che uno sciopero dei porti italiani potrebbe ostacolare il trasporto di armi Nato, e non certo quello di armi cinesi o russe. E non dobbiamo farci confondere da argomenti come questo: ma così facilitiamo l’ascesa delle potenze antagoniste agli USA. Era l’argomento con cui le socialdemocrazie, al tempo della I guerra mondiale rifiutavano il disfattismo rivoluzionario, la socialdemocrazia tedesca diceva di non volere favorire lo zarismo, gli sciovinisti francesi dicevano che lottare contro il proprio governo significava appoggiare il Kaiser. Se il proletariato d’Italia s’impegnerà in questa campagna, conquisterà la fiducia dei lavoratori e delle masse sfruttate d’Asia ed Africa e potrà incontrarsi coi lavoratori dei paesi europei ed extraeuropei, e collaborare a creare i presupposti per una nuova Internazionale. Se perderà questa grande occasione e si affiderà ancora una volta ai partiti e sindacati opportunisti, sarà coinvolto nella crisi senza fine della borghesia italiana e dovrà rinunciare ad ogni funzione internazionale.
Note 1) Michael Hardt – Antonio Negri, “Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione”, Sesta edizione, pp. 180-181. 2) Lenin: “Il proletariato rivoluzionario e il diritto delle nazioni a disporre di se stesse”, ottobre 1915. 3)”Non M. Mélenchon, la Guyane n’est pas la France mais une colonie française !” di Philippe Alcoy ln “Révolution permanente”, 25 marzo 2017.