È passato quasi un anno e mezzo da quando, con un gioco di prestigio costituzionale, l’allora e attuale Presidente della Repubblica ha imposto al Parlamento la nomina di Mario Draghi a premier, conferendogli quei “pieni poteri” invano sognati da Salvini.
Per giustificare l’operazione, invero piuttosto ardita, si argomentò che soltanto un uomo con l’esperienza e il prestigio dell’ex banchiere centrale sarebbe stato in grado di gestire al meglio il PNRR e di far uscire il Paese dall’emergenza pandemica. Il fatto che i famosi (o famigerati) fondi europei fossero stati ottenuti dal predecessore fu opportunamente “scordato” – i giornalisti nostrani hanno una memoria assai selettiva –, la precedente azione di contrasto al Covid del Governo Conte 2 ridicolizzata oltremisura assieme al suo protagonista che pure, al di là di qualsiasi giudizio di merito, si era trovato a fronteggiare una situazione oggettivamente inedita. Sin da prima dell’insediamento i media, sempre sprezzanti nei confronti di Giuseppe Conte e dell’anomalia a 5Stelle, hanno preso a incensare il “Salvatore della Patria”, e i partiti da parte loro hanno fatto buon viso a cattiva sorte, accettando il pressante “invito” del Quirinale a sostenere il nuovo corso, somigliante a una dittatura nell’accezione latina del termine.
Apparve subito evidente che il progetto Draghi era stato elaborato anni, forse lustri prima e si attendeva soltanto l’occasione propizia per porlo in essere a beneficio di influenti lobby interne e sovranazionali, che hanno infatti plaudito all’unisono. Dopo le “sbandate” del Governo Conte 1, accusato di perseguire politiche al limite dell’eresia perché non pienamente rispondenti agli interessi degli USA e dei maggiorenti della UE (le aperture sulla c.d. via della seta in primis, ma anche una benevola attenzione nei confronti della Russia), il ritorno all’ovile è stato preannunciato in Parlamento dallo stentoreo richiamo all’atlantismo e all’europeismo come stelle polari del nuovo esecutivo, dalla non dissimulata ostilità nei confronti delle misure contro la povertà – il Reddito di cittadinanza, un ipotetico salario minimo –, dalla sollecitudine per le esigenze (e le pretese) della grande impresa, anteposte a quelle di lavoratori e semplici cittadini. La larghissima ed eterogenea maggioranza creatasi intorno al governo del “supertecnico” ha svelato la subalternità e la debolezza di quasi tutte le forze politiche – quelle aggregatesi per convenienza o timore reverenziale – ma non si è tradotta, al di là delle apparenze, in un condizionamento per Draghi, che sulle scelte ritenute prioritarie non ha mai esitato a forzare la mano, e continua a farlo. In un Parlamento presto ridotto ad “aula sorda e grigia” i partiti hanno semplicemente cessato di esistere come entità autonome: l’illusione di un Salvini di poter influenzare l’operato dell’esecutivo (come ai tempi del Conte 1) si è scontrata con una realtà totalmente mutata in cui i principali sponsor di Palazzo Chigi stanno fuori dalle Camere, se non addirittura dal Paese. L’arroganza sconfinante nel disprezzo con cui l’ex presidente della BCE – apertamente sostenuto in ogni sua mossa dai vertici istituzionali – tratta capipartito e ministri è tipica di un amministratore delegato o di un commissario liquidatore più che di uno statista: al di là delle decantate, ma mai esibite doti eccezionali la sua forza risiede nell’asserita insostituibilità (dopo di lui il diluvio, ci ripete cotidie la “libera” stampa di regime) e dalla posizione non marginale occupata all’interno di una superclasse apolide che detiene l’effettivo/pieno potere in Occidente.
Considerate le premesse iniziali si potrebbe osservare che i compiti non sono stati svolti al meglio: l’implementazione (anglismo magico, che certifica un asservimento anche culturale della Nazione all’occupante straniero) del PNRR procede a rilento, la lotta al Covid-19 non è stata condotta più efficacemente che in passato, anzi. Tutto questo però non conta, poiché gli interessi curati da Draghi non sono quelli nazionali (né tantomeno quelli dei ceti subalterni), bensì quelli di un’oligarchia sovranazionale che vede il sedicente mondo libero come un tutt’uno, all’interno del quale ritroviamo Ztl, quartieri semiresidenziali e periferie estreme. Lo status dell’Italia odierna è quello di una colonia commissariata, politicamente e militarmente irrilevante ma ancora abbastanza ricca (grazie al “trentennio glorioso” e alla propensione al risparmio delle famiglie) e perciò sfruttabile: più che l’ottimale utilizzo dei fondi del Recovery plan importa il fatto che la concessione di un prestito cospicuo e oneroso pone il Paese “beneficiario” in una condizione di ancor più marcata sottomissione alle istituzioni europee, che pretenderanno (rectius: già pretendono) riforme dolorose e incisive quali, ad esempio, la radicale privatizzazione dei servizi pubblici – il DDL concorrenza va in questa direzione, anche se il giornalismo di servizio preferisce soffermarsi su questioni secondarie e “di colore” come le concessioni balneari (sia detto tra parentesi: gli stabilimenti balneari andrebbero gestiti dal pubblico, al pari di autostrade e infrastrutture strategiche, visto che non rientra fra gli obiettivi di uno Stato l’arricchimento ingiustificato di determinate categorie di rentier). Naturalmente il costante impoverimento di masse abituate a un tenore di vita decente potrebbe condurre a esplosioni di rabbia sociale: ecco spiegato il proliferare di prescrizioni, divieti, sanzioni e misure coercitive e preventive come il Green pass draghiano, che servono da un lato – con l’ausilio di una martellante campagna mediatica tesa a seminare insicurezza e paura – a indurre il pubblico all’obbedienza, dall’altro a seminare zizzania fra i cittadini dividendoli in ringhiosi schieramenti contrapposti. Non è casuale che l’ansia dilaghi – lo sosteneva oggi un sociologo su Radio3 – soprattutto fra giovani e adolescenti: questa categoria sociale è la più facile da suggestionare, poiché impossibilitata a fare confronti con un passato che non ha vissuto. Se tale era lo scopo (e lo era) la gestione dell’emergenza Covid da parte del presente esecutivo è stata magistrale, e altrettanto si può dire della costante opera di demonizzazione della Russia e di tutto ciò che è russo. Cui prodest? Non certo all’economia nazionale, in crescente affanno, né all’Italia nel suo complesso, che non ha motivi di contesa con la Russia, vista con simpatia da una larga fetta di concittadini. Del tutto indifferente agli umori dell’opinione pubblica, in maggioranza avversa allo scriteriato invio di armi a una corrottissima Nazione-pedina, Mario Draghi va tuttavia per la sua strada e alza quotidianamente il livello dello scontro fino a garantire forniture sempre più massicce e a “escludere” (per ora virtualmente) la grande potenza euroasiatica dal prossimo G20. Facile capire per chi stia lavorando: per l’impero più guerrafondaio della Storia, che il conflitto l’ha fortemente voluto e parla per bocca dei suoi Quisling disseminati nell’orbe terracqueo, o per meglio dire nei domini occidentali degli USA.
Per effetto (anche) delle intemperanze draghiane ci stiamo esponendo ai rischi concreti di un collasso economico-finanziario e dell’apocalisse nucleare, visto che la Federazione ha tracciato da tempo la sua linea rossa, ma gli esponenti di una classe politica ridotta a zavorra paiono non avvedersene e seguitano a litigare (per finta) su non-problemi al fine di confondere le menti e conservare effimeri privilegi.
La totale assenza di punti di riferimento deprime chi ancora non si rassegna allo stato di ignavia indotto, generalizzato e imperante, anche se la quasi-vittoria ottenuta da Mélenchon in Francia (un Paese in ogni caso assai meno dipendente dagli USA rispetto al nostro, e più difficilmente ricattabile/aggredibile) suscita in chi scrive un fievole barlume di speranza.
D’altro canto Mélenchon è riuscito a mettere insieme forze già esistenti, per quanto fiaccate, e l’uomo unisce a eccezionali qualità oratorie un’enorme esperienza politica, strategie ben delineate e un’affidabilità a tutta prova. Qui da noi toccherebbe ricostruire da zero una sinistra scomparsa intorno a una personalità visionaria e al contempo credibile in ragione della sua coerenza e delle scelte individuali.
Abbiamo disperato bisogno di un primus inter pares che accetti una sfida difficilissima: quella di opporsi frontalmente a un sistema aggressivo e saldo nonostante il susseguirsi di crisi e, prima ancora, di persuadere una cittadinanza disillusa, stressata e inerte che non tutto è perduto. Sempre che una pioggia di missili non spenga all’improvviso qualsiasi dibattito…
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