Nelle sue raccomandazioni paterne il devoto console Johann Bunddenbrook sollecitava il figlio maggiore nel tenere comportamenti propedeutici al senso di sacrificio protestante, quell’ordine purificatore che disciplinava il frugale capitalismo familistico. Lavora, prega e risparmia. L’intima sollecitazione – spudorato solo pensare di meritare il Regno dei Cieli – faceva da controcanto agli imperativi pubblici, attraverso i quali la propaganda nazionalista fabbricava una mistica irrazionalità nel promuovere gli intenti colonialistici dell’Occidente. Dio, patria, famiglia.
Allora i dispositivi di comando che volevano incidere sui comportamenti consoni alla civiltà mercantile apparivano limpidi e cristallini. Il metodo disciplinare aveva l’intenzione di mantenere salda la gerarchia. Così anche la ribellione o la critica a quel sistema relazionale o a quell’ammaestramento didattico non perdevano mai una loro squisitezza eroica o dignitosa. L’oppressione di classe era manifesta per cui gli sfruttati si andavano politicizzando ma anche l’opposizione artistica tutta interna al mondo borghese assumeva contorni di comprensibile sovversione individuale. Il singolo con la vie bohémienne si preoccupava di arrivare all’autorealizzazione scardinando le soffocanti convenzioni sociali.
Nell’era della post-modernità sembra – al contrario – che tutta l’esistenza sia composta da molteplici e continue sollecitazioni permissive. In effetti il capitalismo stesso è riuscito ad approfittare dei giudizi censori a lui dedicati per costruire un mondo a immagine e somiglianza della libertà d’impresa. Ogni aspirazione individuale è da perseguire tenacemente. Apparentemente ci si è liberati da obblighi morali, il singolo viaggia in una perenne ricerca di esperienze totalizzanti. Una costruzione priva di assolutismi gerarchici o di condizionamenti disciplinari. Ma questa sensazione è ovviamente illusoria. Difatti mai come oggi gli imperativi che vogliono incidere sulle condotte sono così invasivi. Al comando esplicito però si è sostituita la persuasione. Talmente efficace dal far assumere alla critica una patina di nostalgica impotenza. Priva di reputazione.
Facile far passare i nuovi precetti per spinte gentili alla convivialità. Tanto da presentare l’Erasmus obbligatorio come una miracolosa opportunità di crescita. Ma la pedagogia di mercato si assume proprio questo compito. Educare il singolo al dovere di scegliere razionalmente nella giungla delle occasioni. Il percorso formativo obbliga il soggetto a individuare beni e servizi da capitalizzare perché possano tornare in seguito utili nell’edificazione dell’impresa di sé. Per il raggiungimento di questo scopo essenziale sarà monetizzare il proprio capitale sociale. Quella fitta rete di relazioni da costruire in un luogo immaginario, spoliticizzato, nel quale i giovani “istruiti” si de-territorializzano e condividono così la propensione al disimpegno. Tutto condito dalla retorica del sogno. Pellegrinaggio extra-sensoriale dove l’oblio terapeutico sulle contraddizioni sociali della propria terra è condizione preliminare per la scoperta di un etico senso dell’effimero.
I ragazzi pronti a concorrere per accedere al club dei meritevoli si disegnano come cercatori di avventure. Si forma la corazza che permetterà di difendersi dai rischi della competizione, nella solitudine creativa della vena imprenditoriale. Un esercito di temerari sognatori, apologeti del nomadismo curriculare, addomesticati alla docile impiegabilità, mobile e flessibile, sedotti dalla signorilità del progressismo evoluzionista appartenente alla logica concorrenziale dei mercati. Pronti a tacciare di conservatorismo i poveri di spirito. O semplicemente i poveri, cialtroni inchiodati dal colpevole bisogno. Lo Stato finalmente non avrà compiti di protezione collettiva. La psicoanalisi del fallimento potrà essere istituzionalizzata. Però costruirà sempre più succulenti miti della frontiera. Colpo definitivo alla dimensione politica dell’esistenza. Alla coscienza di sé.
Al contrario la leva militare – seppur imbevuta di una narrazione che riecheggiava sapori ottocenteschi – conservava una sua dimensione conflittuale, quindi democratica. L’apparizione improvvisa della Realtà, il confronto con ceti sociali distanti, la resistenza politica alla gerarchia. Un tempo la necessità di conservare un carattere popolare all’esercito per non trasformarlo in una casta di professionisti reazionari era pensiero centrale dei movimenti di opposizione. Ma ancora si pensava che lo Stato fosse un ente dinamico e che quindi si potesse, si dovesse conquistare. Con la lotta, con la ricerca dell’egemonia ma anche con un esercito popolare. Prima dell’avvento di strampalate teorie, tanto care al pensiero dominante, che immaginano uno spazio sociale autonomo e indipendente dallo Stato, dove far volare libere e innocue le proprie fantasie antagoniste, anch’esse depurate dalla politica. E così devotamente imprenditoriali.