Condivido largamente la seconda parte di questo bell’articolo, che riporto dopo questo mio commento introduttivo, del nostro amico, compagno e redattore di questo giornale, Norberto Fragiacomo; un po’ meno la prima.
Detto in modo molto semplice. O la pandemia da Coronavirus esiste realmente oppure è una bolla mediatica. Se non è una bolla mediatica – ed io non penso che lo sia (e credo che non lo pensi neanche lui) – allora non ci sono alternative alle misure di contenimento che sono state decise dal governo. Specie perché – come sottolinea giustamente anche Norberto – ancora non conosciamo questo virus e non disponiamo di una terapia efficace o del vaccino. Onde per cui, la sola cosa che possiamo fare è sbarrargli la strada, chiudergli ogni possibile via di trasmissione. E in fondo i risultati di questa strategia (ammesso che tale possa essere definita una scelta di fatto obbligata…) si cominciano già a vedere, dal momento che la curva dei decessi e soprattutto dei nuovi contagi sta iniziando visibilmente a decrescere. Non oso pensare cosa sarebbe accaduto se il virus si fosse diffuso con la stessa intensità e virulenza con cui si è propagato in Lombardia, anche nelle altre regioni italiane.
Non fa male a nessuno passeggiare in campagna o nei parchi, dice in buona sostanza Norberto. Verissimo, il problema è che non tutti sono muniti di senso di responsabilità e di autogoverno, necessari a rispettare le regole; tradotto in parole povere, a passeggiare senza ammucchiarsi o organizzare picnic. Da qui la decisione (assunta solo successivamente) di chiudere anche i parchi, nelle città o fuori. E’ altrettanto evidente che per far rispettare queste regole, nell’attesa – lo dico un pò ironicamente – che tutti sviluppino quel senso di responsabilità e capacità individuale e collettiva di autogoverno, ci vuole l’intervento dello stato. Quello stato – parlo di quello attuale, quello in cui viviamo – che né a me né a lui piace, neanche un po’, per tante ragioni. E però è quello che abbiamo. Del resto, nella Repubblica Popolare Cinese – uno stato che a Norberto non è affatto antipatico – le misure adottate dal governo sono state ancora più draconiane. E io credo di poter affermare con un notevole margine di sicurezza che anche in uno stato come Cuba (che al sottoscritto è molto più simpatico di quello cinese…) le misure adottate sarebbero state le medesime. Forse un po’ meno dure di quelle adottate in Cina ma un po’ più severe di quelle adottate in Italia. Dopo di che sono perfettamente cosciente del fatto che anche e soprattutto queste misure di contenimento hanno un risvolto sociale (e un relativo prezzo da pagare…) pesante e iniquo. Perché un conto – come ho già avuto modo di dire – è rispettare la quarantena stando in un superattico di 300 mt quadri o in una villa con piscina (con servitù inclusa), e un altro è rispettarle vivendo in un palazzo di dodici piani di un quartiere dormitorio nella periferia di una qualsiasi metropoli, con tutte le conseguenze del caso, sociali, umane, psicologiche. Del resto, da che mondo è mondo, anche le malattie e le epidemie hanno sempre avuto un risvolto di classe. In basso si muore di più e si muore peggio, molto peggio che in alto. Dispiace dirlo, ma se la morte è una “livella”, come diceva il grande principe De Curtis, in arte Totò, la malattia non lo è affatto.
Chiarito questo, il problema da porsi è, a mio parere, un altro, e di fatto Norberto già lo pone nella seconda parte del suo articolo. E cioè: quali saranno (e quali già sono) le conseguenze sociali, economiche, politiche, di questa emergenza. Come se ne uscirà? Cosa possiamo e dobbiamo trarre da questa esperienza? Il Covid-19 ha portato a galla, più di qualsiasi discorso teorico (come è normale che sia…), le devastazioni provocate da trent’anni di politiche neoliberiste e le macroscopiche contraddizioni del capitalismo e del “modello di vita” che ci impone (con il nostro assenso però, non dimentichiamolo, per lo meno nel mondo occidentale…).
E’ su questo che è e sarà DOVEROSO ancor più che legittimo, aprire una riflessione politica che, speriamo, possa tradursi in una prassi politica reale, in una critica fattuale e radicale dell’ordine (disordine?…) sociale capitalista.
(Fabrizio Marchi)
La fine della festa (di qualsiasi festa, ma specialmente di quelle religiose) lascia sempre in chi scrive un retrogusto amaro, malinconico.
Stavolta è però diverso, perché la Pasqua 2020 è passata prima ancora di arrivare e questi giorni stiracchiati di Settimana Santa trasmettono un invincibile senso di inutilità, reso più acuto dall’azzurro sogghignante del cielo. Dalla finestra della mia camera trasformata in ufficio non scorgo nemmeno una nuvoletta, e lo stesso avrei potuto scrivere ieri, avantieri ecc. La domenica senza palme ho ingannato il tempo disegnando: mi sto rendendo conto, pur essendo un uomo piuttosto solitario e poco socievole, di soffrire parecchio la clausura. Il fatto è che la vivo come un’imposizione, della cui utilità non sono per nulla persuaso.
Nella vicina Slovenia – pochi chilometri in linea d’aria, posso vederne le colline seduto alla scrivania – negozi e ristoranti sono chiusi, alla gente è vietato andare senza motivo in un comune diverso da quello di residenza, ma passeggiare con i familiari non è ancora un illecito. In estrema sintesi: noi siamo prigionieri, loro in libertà, sia pur vigilata. Certo, si tratta di un Paese agricolo e a bassa densità abitativa, ma le recenti disposizioni del nostro legislatore nazionale rafforzano in me la convinzione ch’egli ignori l’esistenza di campagne, periferie, boschi e zone spopolate. Mi viene in mente la disciplina dell’anticorruzione, che è forse (molto forse) adeguata alle amministrazioni maggiori, ma diventa una barzelletta se applicata all’infinità di comunelli invisibili ai radar: oggidì, allo stesso modo, nei palazzi governativi si immagina che l’Italia rassomigli al trafficatissimo centro urbano “tipo” sul quale vengono tarate le decisioni.
Fino a un mese fa amavo concedermi quotidianamente una o più camminate nel vicino bosco del Farneto. Erano rinfrescanti e salutari per corpo e mente, ma adesso non posso più davvero permettermele: le possibilità di contrarre il virus in boschetto sono pari a zero, quelle di beccarsi una sanzione elevate. Le forze dell’ordine sono all’erta, i delatori non mancano. Non capisco né approvo, ma mi adeguo: come mi insegnò un’indimenticabile insegnante alla scuola media nella vita di ogni giorno ci vuole prudenza, poi per un ideale si può (forse si deve) anche morire.
Il problema è come questa crisi viene affrontata: più o meno scriteriatamente.
Fra i vari protagonisti e comprimari il premier Conte è quello che, nel complesso, sta facendo la figura migliore. Dopo alcuni errori iniziali, soprattutto di comunicazione (comparsate troppo frequenti in tv, indecisione palesata dalla raffica di decreti), col passare dei giorni il Presidente del Consiglio è diventato un punto di riferimento per i cittadini angosciati: il suo eloquio sobrio, la vicinanza non ostentata alle preoccupazioni degli italiani sorprendono piacevolmente un Paese abituato a rodomonti e guitti impresentabili. L’uomo sembra serio: non dispensa facili promesse e, all’occorrenza, si sottrae alla frusta retorica europeista dei suoi predecessori. Sta prendendo provvedimenti economicamente corposi e dalle sue dichiarazioni traspare un ottimismo meditato e privo di sguaiataggine che un poco rassicura. La mia è piuttosto un’impressione che un giudizio: la partita del MES è ancora apertissima, e una resa senza condizioni niente affatto esclusa – non oso tuttavia figurarmi un’emergenza siffatta “gestita” da Salvini, Meloni, Renzi o altri papabili della politica nostrana (Draghi compreso).
Non oso, ma un indizio di quello che potrebbero (dis)fare ci viene offerto da taluni sedicenti governatori regionali, la cui unica ambizione pare quella di superare in severità parolaia governo e colleghi. Giovandosi di un bonus normativo – per me inopportuno – concessogli dal centro, seguitano sfrenati a introdurre nuovi divieti con il duplice effetto di disorientare la cittadinanza e lasciar intendere che, anziché verso lo sblocco, stiamo andando verso giri di vite sempre più stretti. Le ordinanze su sciarpe e foulard sono da avanspettacolo (specie perché da un mese attendiamo le mascherine garantiteci coram populo), ma ancor più censurabile è il metodo. Oggi si parla in Friuli Venezia Giulia di un’ennesima ordinanza per imporre guanti e mascherine sui mezzi di trasporto pubblici: obbligo anche sensato, ma non ci si poteva pensare in sede di redazione dell’ormai famigerata norma sui supermercati? Ieri i negozi, domani le corriere, dopodomani magari le edicole: le regole cambiano quotidianamente, irrigidendosi, e il c.d. uomo della strada – per cui la strada è off limits – si incupisce, perché il tunnel si fa sempre più lungo e buio. Assistiamo a reazioni opposte: c’è chi, più realista del re, si barrica in casa (e maledice chiunque metta il naso fuori) e chi esasperato tenta la sorte perché “tanto non ne usciamo comunque”. Impazza in sottofondo la canea mediatica, ma una magra figura stanno facendo anche osannati virologi, che snocciolano dal pulpito affermazioni geberiche da cui si evince soltanto che del maledetto virus non sa niente nessuno. Questa vaga consapevolezza spaventa l’ascoltatore, bombardato tutto il santo giorno da notizie monotematiche, ma a peggiorare il quadro contribuisce il compiaciuto catastrofismo di quegli scienziati che preconizzano senza remore una clausura a tempo indefinito. Saranno forse bravi medici, ma come psicologi valgono sottozero.
Mentre in altri Paesi si annuncia con cautela l’allentamento di misure già meno draconiane delle nostre qui da noi prevale la logica della responsabilità, cioè della sua caricatura burocratica: per evitare rischi, critiche e futuri contenziosi si rimanda tutto a eventi futuri e incerti come la scoperta di un vaccino. Riapriranno botteghe e trattorie? Non subito né presto, comunque nel rispetto di regole precise… si vedrà, e la fuga dalla decisione ha impatti devastanti sia sull’economia che sulla tenuta psicologica di una popolazione ormai depressa. A mo’ di rimprovero ci vengono forniti esempi lontani nel tempo e nello spazio senza che si tenga conto di un fatto: la logica del sacrificio e quella della disciplina non ci appartengono più, e a privarci della capacità di sopportazione è stata proprio la propaganda neoliberale, capace di convincerci che la libertà coincide con un individualismo edonista e insofferente alle regole. L’immiserimento e adesso la pestilenza contraddicono una narrazione rivelatasi menzognera già a inizio millennio, ma siamo talmente assuefatti a farci “i comodi nostri” che qualsiasi vincolo sopraggiunto – e quelli odierni sono pesanti – ci sprofonda in una prostrazione apatica o rabbiosa. Non spirano venti di rivolta: la disintegrazione sociale sta producendo, in questi giorni drammatici, più odi intestini in seno al popolo che reazioni coscienti e condivise, e la lapidazione virtuale dei c.d. runner (fossimo ancora padroni della nostra mente li chiameremmo “podisti”) lo testimonia. Cionondimeno e anche tralasciando il baratro economico oramai a un passo la tenuta del sistema non è scontata: il protrarsi della quarantena per altri due mesi, combinandosi con la calura estiva e le voci dall’esterno, potrebbe mutare la cittadinanza reclusa in un’ingestibile massa idrofoba pronta a prendersi la “rivincita” non appena i portoni si spalancheranno. Ognun per sé e Dio per tutti, ma già adesso le cronache raccontano di sempre più persone per le strade, che multe, sanzioni e il contenuto zuccheroso di certe esortazioni finiranno solo per inasprire.
Andrà tutto bene? Chissà… in questi giorni desolati potremmo persino riscoprire qualche piacere perduto (come la lettura, lo scampanio delle campane: in una parola, l’otium), ma non siamo stati allevati per questo. Intanto prepariamoci a una Pasqua senza conforto né resurrezione.
(Norberto Fragiacomo)