La crisi dell’immaginazione emotiva


Il caso Sangare e il triplice omicidio a Paderno Dugnano sembrano distanti e appartenenti a due contesti differenti, ma non possiamo esimerci dal ricercare, al di là delle oggettive differenze, elementi in comune che possano tradurre i due tragici episodi in termini razionali. Si tratta di ipotizzare la possibilità che entrambi gli omicidi,  sulla scia di innumerevoli altri, possano essere la spia  di un disagio sociale non compreso e diagnosticato. L’aumento di casi sempre più incomprensibili ci invoca ad uno sforzo interpretativo che non ha certo la presunzione di esaurire la drammaticità e la complessita di tali episodi. Il primo dato è il focus sugli assassini e sulle vittime da parte dei media, la qual cosa apparentemente non può essere ritenuta anomala, ma l’analisi limitata al semplice contesto famigliare o personale degli assassini rende la genetica della spiegazione dei fatti parziale. La parte è sempre in relazione con l’intero; la razionalità è esercizio di ricomposizione dell’intero. L’astratto separa, il fatto subisce un taglio che lo rende privo di relazione con l’intero, pertanto ci si limita a descriverlo e a misurarlo mediante la cronologia degli eventi e l’esame degli ambienti nei quali le tragedie si sono consumate. Manca il senso. Solo la relazione tra la parte e il tutto riporta con la contretezza la possibilità di comprendere l’invisibile che non emerge dalla descrizione quantitativa delle tragedie che si ripetono incomprese e in modo sempre simile. Nei fatti di cronaca non si può non notare il disfarsi dell’empatia. La razionalità ha formulato lo schema dell’omicidio, sembra assente ogni riflessione sulle conseguenze dell’azione e specialmente l’automatismo dell’azione non incontra nella mediazione dell’emotività-coscienza il filtro con cui pensare, sentire e immaginare il dolore delle vittime. Si può ipotizzare che le tragedie a cui assistiamo siano il sintomo espresso prepotentemente della patologia che attraversa il corpo sociale.

La società del consumo e dell’abbatimento di ogni limite, il padre ne è l’archetipo, ha sostituito la parola e la comunicazione con le banalità del narcisismo. In media le conversazioni in ogni contesto riguardano il denaro, i viaggi e il sesso. In questa cornice l’essere umano muore, mentre il mercato vive il suo furore. Immaginare e pensare il dolore altrui è probabilmente – non sono un esperto – il modo più efficace per limitare la violenza assieme al soddisfacimento dei bisogni materiali di ogni individuo. La nostra è un’epoca senza immaginazione, in quanto l’educazione emotiva che forma l’essere umano è sostituita dalle competenze e dalla logica della competizione. Tale logica riguarda persone di ogni classe sociale e di ogni cultura; le famiglie e le istituzioni formative sono oggetto di processi di quantificazione, tutto è ridotto a finanza e numeri.  L’attenzione è  sul fare; la quantità è il metro con cui in modo inconsapevole si giudicano le esperienze, le relazioni e le persone. Non si diventa uomini o donne in una realtà in cui il narcisismo del fare impera e rimuove l’essenza relazionale di ogni essere umano. L’omicidio, specie nei giovanissimi, è l’irrompere del “non senso” che si traduce in omicidi che sono forme di suicidio mascherate.  In questo contesto malinconico, depressivo e atomistico ci si può ammalare pur continuando a vivere il quotidiano senza  impedimento. La violenza del “non senso” e delle esistenze nel giogo di leggi che non hanno scelto favorisce la trasformazione della violenza in crimini.  Ciò che manca è lo sguardo capace di “vedere in profondità la persona” e di cogliere tra le parole e i gesti il malessere che monta e si trasforma in in dinamiche delinquenziali. Dietro gli slogan dell’inclusione si cela l’indifferenza, si nasconde il timore di relazionarsi con responsabilità con l’altro. Il relazionarsi in modo responsabile comporta la capacità dialettica di sostenere l’urto senza fuggire. Per evitare il contenimento paideutico si concede tutto, il risultato finale è la percezione di non essere riconosciuti dall’altro. L’intelligenza dello sguardo, intus legere, il guardare dentro è il vero discrimine con cui separare la barbarie sofisticata del nostro tempo dalla società che diviene comunità dell’essenziale. Ogni persona è parte di un intero, pertanto il veleno che circola in una società a misura di social può trasformarsi in tragedia, se incontra situazioni di fragilità. Siamo tutti responsabili, a seconda dei ruoli, del dolore che sembra inarrestabile. Interrogarci collettivamente è indispensabile per capire la radice profonda del male. Il dramma che si aggiunge alla tragedia è il silenzio della politica incapace di pensare il proprio tempo storico, anzi si tace e si lascia spazio al tritacarne dei media che colgono l’occasione per “informare” sui fatti  stornando l’attenzione dal giudizio sulla totalità. Lo scopo è concentrarsi sui singoli casi senza mai domandarsi e ipotizzare risposte che possano esulare dalla descrizione meccanica dei fatti.

Gli appelli alla fratellanza e alla solidarietà a cui siamo sottoposti sono soltanto manierismo linguistico finalizzato ad occultare il dato oggettivo, ovvero se non vi sarà una trasformazione radicale della struttura e della sovrastruttura tali episodi potrebbero essere sempre più frequenti. I corsi di educazione emotiva che talvolta si tengono nelle scuole possono incidere poco o nulla sulla qualità delle relazioni del nostro tempo, in quanto le buone relazioni e il benessere emotivo sono il risultato di un lungo processo di cura e di dono che non può essere trasmesso da professionisti che somministrano  lezioni sulla buona vita. La verità è ancora dinanzi a noi, sta a noi decidere se testimoniare un altro modo di vivere e di esserci, per ricostruire nel quotidiano un mondo semplicemente più umano.

Fonte foto: Il Giornale (da Google)

1 commento per “La crisi dell’immaginazione emotiva

  1. Giulio Bonali
    5 Settembre 2024 at 11:41

    Concordo con la stigmatizzazione dell’ atteggiamento biecamente voieuristico e compiaciuto con cui i giornalisti conformisti trattano questi tragici fatti di cronaca e con la necessità di risalire alle cause profonde del disagio sociale diffuso in cui maturano (che non significa “giustificare” ed omettere di punire adeguatamente i criminali e assassini, ma semplicemente “capire” onde meglio combattere e prevenire; e nemmeno implica l’ “essere tutti responsabili”: colpevole é solo chi ha il potere e col suo potere condiziona la società, non chi ne é oppresso e sfruttato).

    Per parte mia ho notato che i giornalisti conformisti politicamente corretti (a parole “fierissimamente antirazzisti”: chi oggi ammetterebbe di essere razzista, ovviamente salvo aggiungere un’ interminabile, rivelatrice, sequela di “se” e di “ma”? E infatti si guardano bene dal’ usare la -per loro- parolaccia “negro”, ricorrendo a penosi pseudoeufemismi rivelatori) trattano ben diversamente il caso del negro (non avendo la coda di paglia a proposito di razzismo posso permettermelo. Io) figlio di immigrati che, avendo di già presentato comportamenti in qualche misura anomali ed essendo già stato preso in considerazione da psichiatri o psicologi, ha ucciso una perfetta sconosciuta (il che, ricordo bene dall’ esame di medicina legale, é tipico degli omicidi degli psicopatci; non esclusivo, ma comunque tipico, circostanza da non ignorare in sede legale in quanto potrebbe forse configurare un’ attenuante) e il caso del bianco autoctono che ha sterminato la sua famiglia, compreso un fratellino di pochi anni.
    Infatti il primo é (falsamente) presentato come senza ombra di dubbio perfettamente lucido e perfettamente capace di intendere e di volere (nessun dubbio di problemi psichici a dispetto dei fatti!), autore di un omicidio premeditato (di una vittima ignota e casualmente incontrata. Sic!) e senza attenuanti.
    Invece il secondo, che mai risulta essere stato sottoposto all’ attenzione di alcuno psichiatra o psicologo) viene presentato come “vittima -absit iniuria verbis- di un inspiegabile raptus”, di fatto incapace di intendere e di volere, oltre che “immediatamente pentito” (tanto “immediatamente pentito” da aver aggiunto orrore all’ orrore cercando maldestramente ma malvagissimamente, per farla franca, di incolpare del delitto, calunniandola pst-mortem, una delle vittime che non poteva difendersi, suo padre!).
    Inoltre si propalano a mo’ di vangelo (come sempre in questi casi) le parole del suo avvocato difensore (come se non fosse parte in causa e costituisse invece una fonte di notizie credibile in quanto disinteressata e imparziale) che sottolinea (come se cambiasse qualcosa ai fini della pena da erogare a un reo confesso di triplice omicidio di congiunti di cui uno in tenera età!) che non c’ é stata premeditazione.
    Sono pronto a scommettere che, alla faccia del diffuso “antirazzismo” buonistico politicamente corretto e alla “legge uguale per tutti” il negro di origini africane con precedenti di instabilità mentale autore di un (1) omicidio si ciuccerà tutto intero il suo ergastolo, mentre il bianco senza alcun precedente psichiatrico “purosangue italiano settentrionale” reo confesso di tre (3) omicidi, di familiari di cui uno bambino, subirà una pena estremamente mite e dopo qualche mese al massimo sarà tirato fuori di galera da qualche don Mazzi (non senza che gli sia assicurato un buon lavoro poco faticoso e ben pagato).

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