La forte ginnasta americana Simone Biles nel corso delle giornate olimpiche ha rinunciato alla competizione confessando “Ho démoni nella testa”. Qualche mese prima la vincitrice slam Naomi Osaka si è ritirata da un prestigioso torneo di tennis per motivi analoghi. Stessa sorte capitata nell’ultimo anno al suo collega Dominic Thiem. In uno schioccare di dita la sfida concorrenziale si è dissolta in orizzonti perduti.
I prototipi dell’etica improntata al sacrifico personale, gli sportivi di successo, sempre più spesso si spengono improvvisamente, colti da un crack motivazionale. La cultura della prestazione così spiega i propri contraccolpi. Byung-Chul Han nel suo “La società della stanchezza” descrive alla perfezione il meccanismo insito in quella che chiama società prestazionale. Contesto storico nel quale è esclusa ogni negazione e dove tutto si positivizza. Nella strada che porta alla perfezione meritocratica, il soggetto è ossessionato dalla performance e dall’attenzione a molteplici stimoli. Ogni reazione è individuale o psicologica e rende giustizia a chi crede che le classi non esistano. I comportamenti di fronte agli stimoli dovranno apparire omogeneizzati, apparentemente spontanei.
Il ricco e il povero, l’uomo di successo e il fallito, procedono uniti sulla via dell’auto-sfruttamento. Si caricano di sfide, di missioni. Peccato però che quell’inclinazione comune rappresenta un sottile stratagemma comunicativo per dire che il popolo è tutto sulla stessa barca, che il padrone e il lavoratore perseguono gli stessi obiettivi, che si abita una casa in comune, che in sostanza lo sfruttamento del capitale è narrativa fuori dal tempo. La crisi è affrontata come una colpa, una mancanza improvvisa. Il Potere fa buon uso della depressione da prestazione per estendere il concetto a questioni prettamente sociali. “Mi devo prendere una pausa per ricaricare le batterie, tornare più forte di prima”.
Con questo spirito sacrificale si dovranno rappresentare anche il licenziato, il fallito, l’emarginato. Colpa cosciente, caduta evolutiva. Lo yoga, il vegetarianesimo, i viaggi, la cura del proprio corpo, qualche tisana aiuteranno a ripresentarsi depurati per meglio cogliere la pedagogia di mercato.
L’indicazione di questa rotta personale ha contribuito in modo decisivo a spoliticizzare la società. Questa più che il consumo di massa. Il vecchio capitalismo regalava con l’accesso indiscriminato ai consumi la propria ricompensa per le classi subalterne. Ma in fondo le luci al neon delle insegne commerciali non mutavano nel profondo né l’etica parsimoniosa della borghesia né la propensione alla frugalità della classe operaia, traslata dalla tradizione contadina. Restavano intatti i presupposti del conflitto.
La sbornia della conduzione d’impresa ha reso allettante la pietanza del capitale umano. Ogni individuo scommette su di sé, è un creatore, ha idee, fantasia, prontezza, attitudini compatibili con il sistema concorrenziale. Il consumo è un accessorio. Da ricompensa si trasforma in investimento futuro. Arricchisce la propria idea di sé. Non è poi così importante consumare realmente. Più importante è la propensione al consumo. Le aziende si arricchiscono con i like, con le recensioni più che con le vendite. In quel modo offrono segnali al mercato di affidabilità. I loro titoli volano in borsa. I profitti si misurano nell’immediato. Esiste solo l’oggi. La ricompensa è la mia credibilità. Per questo è la percezione di sé stessi a generare diritti individuali sempre più capricciosi e articolati, ormai disarcionati dal principio di realtà.
L’attenzione ramificata sui propri obiettivi, sulla propria formazione, sulla propria promozione, sulla propria immagine non consente alcuna profondità. Un’attenzione del momento, stimolata solo dalla superficialità del multitasking. Non concepisce altre forme di vita se non quella dell’opportunità da cogliere al volo. Ma la macchina prestazionale, rifiutando aprioristicamente la dimensione collettiva, ammaliata dai protocolli valutativi sulle proprie potenzialità, entra in conflitto con sé stessa. E muore. L’obesità dell’eccesso di sé deflagra. Il burnout è obsolescenza programmata.