Qualche sera fa, mentre sorseggiavo il bicchiere della staffa in un bar di montagna, sono stato avvicinato da un tizio del posto – alquanto alticcio a dire il vero – che dopo aver inneggiato a passati regimi ha preso a insolentire il governo Conte, reo (a suo dire) di fare politiche “comuniste” favorendo chi non ha voglia di lavorare ed affossando le imprese. Il mio improvvisato interlocutore é risultato essere un piccolissimo imprenditore (lui stesso ha affermato di non avere alcun dipendente) dall’aspetto trasandato, ma emergeva da ogni sua parola la fierezza di appartenere alla classe dei produttori.
Al netto di certe colorite professioni di fede gli stessi toni e contenuti del discorso udito in osteria li ho ritrovati nella famosa intervista rilasciata dal Presidente di Confindustria Bonomi, che ha accusato l’esecutivo di regalare soldi a pioggia a chi non fa nulla per meritarli anziché sostenere le imprese in difficoltá e – evocato con compiacimento lo spettro di massicci licenziamenti futuri – ha reclamato l’adesione dell’Italia al MES. Costi quel che costi, tanto – sará stato il suo retropensiero – a pagare gli interessi saranno chiamati, come di regola accade, i percettori di redditi fissi.
I padroni, si dirá, sono fatti così, luminose eccezioni a parte, ma a far riflettere é questa “sintonia” fra il piccolo e il grande che é davvero arduo riscontrare in altre categorie produttive.
La prima banale considerazione é che la Rivoluzione industriale ha proprio cambiato il mondo, perlomeno in Occidente, e con esso il comune sentire: per secoli e millenni l’impresario/artefice è stato maltrattato dall’élite, che lo tacciava di essere nulla più che un “vile meccanico”.
Persino gli artisti di epoca rinascimentale faticano a togliersi di dosso i panni plebei dell’esecutore e non é forse per caso che geni assoluti come Michelangelo si siano avventurati nei campi del pensiero e della letteratura per assicurarsi una più salda patente di nobiltà.
Nell’antichità non era diverso: secondo lo storico Champlin il celebre commiato di Nerone (“qualis artifex pereo”) non va inteso come l’ultima vanteria di un monarca che si sentiva artista ma piuttosto come l’amara constatazione di un addio da “artigiano” (=artifex), visto che al quinto dei Giulio-Claudii toccò scavarsi la fossa.
Con l’avvento dell’etá contemporanea la prospettiva muta radicalmente: l’uomo “del fare” acquisisce prestigio e potere ed anche socialmente soppianta il nobiluomo. L’intellettuale, prima riverito, viene messo in disparte. Gli restano due strade da percorrere: la critica al sistema (talora sterile, talaltra “esplosiva”) oppure il sostegno in veste di consigliere, satellite e agiografo. Divenuto egemone l’imprenditore idealizza se stesso, sbandierando come virtù cardinale quella propensione al rischio che é (o si pretende sia) l’attualizzazione del coraggio cavalleresco.
Chi accetta di lavorare per altri, cioé “sotto padrone”, é guardato dalla nuova élite con commiserazione e disprezzo: la caccia al c.d. posto fisso é né piú né meno che una confessione di viltá (oltre che di poltroneria). Non contano le dimensioni dell’impresa, che può essere una multinazionale o un negozietto: basta l’esaltata indipendenza a fare dell’impresario un “aristocratico” che, al pari di certi spiantati esponenti della vecchia szlachta polacca, irride e diffida del “plebeo” anche quando sta solo un po’ meglio di lui.
La retorica del rischio d’impresa diventa il collante ideologico di una classe “per sé” che tuttavia non é affatto classe “in sé”, poiché al suo interno l’omogeneità é soltanto immaginata, non reale. L’idraulico col suo furgoncino “crede” di assomigliare al medio imprenditore e al capitano d’industria, ma basta una crisi qualsiasi per farlo ripiombare nell’aborrita (e faticosamente scansata) condizione di proletario: il vertice di Confindustria si fa forte del suo appassionato sostegno, ma quando va a trattare con la politica cura gli interessi della fascia medio-alta (quella “altissima” manco ha necessitá di contrattare: impartisce istruzioni). L’emergenza Covid-19 conferma l’assunto: il paventato crollo del PIL travolgerà migliaia di imprese piccole e piccolissime, annichilendole, mentre lambirá appena i grandi gruppi cui le banche, con o senza garanzia statale, assicurano ed assicureranno un trattamento di favore di certo non esteso ai microimprenditori (lo stiamo giá vedendo). Inoltre l’adesione al MES, richiesta a gran voce da Bonomi, verrá messa in conto ai ceti medio-bassi, composti anche da un’infinitá di padroncini. Incapaci di avvedersi che a sparire sará la loro fetta di PIL, costoro seguiteranno fino all’ultimo a sentirsi rappresentati dal self made man dell’elettromedicale (la cui elezione, nel bel mezzo di una catastrofe sanitaria, potrebbe essere interpretata come un chiaro segnale): la fede neoliberista che li anima non permette loro nemmeno di rendersi conto che vi é un cortocircuito logico nel “ragionamento” di chi rifiuta l’intervento statale in economia e al contempo rivendica come un diritto la concessione a fondo perduto di soldi pubblici alle imprese in difficoltà.
A Bonomi andrebbe popolarescamente risposto che non é dato avere la botte piena e la moglie ubriaca, ma la creme economico-finanziaria – classe in sé e per sé – é assai meno ingenua della sua tifoseria da bar e non si vergogna neanche un po’ della natura in fondo parassitaria del c.d. libero mercato, che l’ordoliberismo mette in piena luce.
Milioni di nostri connazionali tuttavia non vedono e non sentono, inconsapevoli della loro condizione e delle esigenze connesse. “Sanificare” menti indottrinate da una narrazione plurisecolare é impresa improba, ma se non vi si riesce sará quasi certamente impossibile scuotere un sistema che con artifizi, raggiri e un bel po’ di “nobilitazioni” fasulle si é garantito la fedeltà di masse di adepti convinti di essere più simili a Elkann che al vicino di appartamento che timbra il cartellino in ufficio.
Fonte foto: La Repubblica (da Google)