Siamo in uscita da una crisi per certi versi anche più grave di quella del 1929, perché non affrontata con strumenti keynesiani, ma con una deflazione che è diventata strutturale e globale. Come avvenne con la grande depressione, si uscì dalla crisi con un lungo periodo di stagnazione globale. Che nel caso attuale è aggravata dal fatto che la Cina ha appena iniziato la ristrutturazione del suo modello economico, che comporterà un rallentamento di lungo periodo della sua crescita, e gli USA devono ancora affrontare il problema del debito federale in continua crescita (mascherato da continui innalzamenti del debt ceiling, ottenuti a seguito di sofferte negoziazioni fra Democratici e Repubblicani, che prima o poi non saranno più possibili) e del parziale indebolimento del dollaro come valuta di riferimento mondiale, elementi che concorrono a disegnare un futuro di politiche di austerità per questa che è l’unica locomotiva dell’economia mondiale ancora in funzione, seppur zoppicante. Come si esce da una stagnazione di lungo periodo? Con una guerra mondiale, esattamente come avvenne dopo la Grande Depressione. I meccanismi di accumulazione si rimettono in moto, il capitale ozioso viene riutilizzato, la domanda aggregata ha un boom grazie ai governi. E si ridefiniscono le aree di influenza politico-economica, ricostruendo quindi i necessari bacini di cooperazione produttiva e di domanda.
E’ innegabile che siamo in una fase di riarmo globale, l’immagine che riporto mostra un aumento della spesa militare mondiale continuativo dalla fine degli anni Novanta ad oggi, anche se la crisi economica ha rallentato (ma non invertito) tale trend (fonte, Sipri, dati a prezzi costanti). E l’ultima riunione della NATO si è chiusa chiedendo ai partner di aumentare ulteriormente le spese militari, anche al di là dei vincoli patto di stabilità, per gli europei.
Andamento della spesa militare globale a prezzi costanti, anni 1992-2014
E’ interessante notare anche la distribuzione per Paese di queste spese globali: gli USA da soli assorbono il 40%, più in generale tutta l’area NATO ed alleati esterni ( Paesi come la Corea del Sud, che hanno un accordo di mutua difesa) il 69%. Seguono la Cina con l’11%, la Russia con il 5%. Il Medio Oriente nel suo insieme (senza la Turchia, ma ovviamente con Israele, Iran, Iraq, Siria, Giordania, Libano, Arabia Saudita e le petromonarchie della penisola araba) pesa per il 7%, l’India per il 3%, il Brasile per il 2%. Il resto son briciole.
Questa distribuzione evidenzia con una sufficiente chiarezza la divisione multipolare del mondo: l’area NATO, la Cina, la Russia come principali poli di riferimento dell’ordine mondiale, ed India e Brasile che cercano di ritagliarsi uno spazio come potenze regionali. I dati sono parzialmente ingannevoli, nel senso che il valore preponderante della spesa militare degli USA e della NATO dipende, in larga misura, dal diffuso impegno nelle varie missioni militari internazionali, cui invece Russia e Cina partecipano in misura molto minore (i dati sono al 2014, non tengono quindi conto dell’intervento in Siria attuale) e dalla diffusa presenza di basi militari all’estero degli USA, che non ha riscontri nelle stesse dimensioni per Russia o Cina. Però, per quanto ingannevoli, essi mostrano come vi sia ancora una prevalenza di controllo militare sul mondo da parte degli USA e della NATO, e come le altre due potenze principali cerchino di colmare rapidamente il gap (la Russia pesava solo per il 2,7% nel 1998, immediatamente prima dell’avvento di Putin, quindi ha raddoppiato il suo peso nella spesa militare globale nel giro di 16 anni, mentre nel medesimo arco di tempo la Cina ha addirittura quasi quadruplicato detta incidenza).
I dati non lasciano assolutamente alcun dubbio: è in atto un processo di riarmo su scala globale, appena rallentato dagli effetti della crisi, che però sono molto relativi. Come negli anni Trenta del secolo scorso, qualche anno di affievolimento della crisi, con una timida crescita appena sopra lo zero, può dare qualche spazio in più per accelerare tale riarmo. Ed ovviamente, se c’è un riarmo, è in previsione una guerra.
Ovviamente è difficile pensare, nell’immediato, ad una guerra tradizionale per blocchi opposti, basata cioè su grandi eserciti che si contrappongono direttamente su fronti molto ampi, come nella Seconda guerra mondiale. C’è di mezzo l’arma nucleare. E’ più facile pensare ad una nuova dottrina militare, illustrata, per parte russa (ma vale anche per la NATO) in un documento (the “Gerasimov Docrtine an Russian non linear war) pubblicato su “The Shadows of Russia” dall’esperto militare e di storia russa Mark Galeotti. Questo lungo documento illustra i principi su cui dovrebbe basarsi la guerra globale del XXI secolo, richiamando una intervista fatta al Generale Valery Gerasimov, Capo di Stato Maggiore dell’Esercito Russo, nel 2013:
– Una guerra combattuta evitando il confronto diretto, su larghi fronti e di larga scala, fra le forze armate dei diversi poli (o blocchi, nel caso della Nato) neoimperialistici, e quindi senza una dichiarazione formale di guerra, e senza più i tradizionali sistemi di mobilitazione generale e concentrazione della popolazione delle guerre classiche. Si tratta cioè di una guerra non dichiarata e non lineare;
– Una guerra simile, quindi, è necessariamente frammentata e mascherata, perché si svolge, come un racconto a puntate, in tempi lunghi e diversi, e su una miriade di scenari regionali e statuali diversi, opportunamente destabilizzati politicamente, innescando guerre civili ,religiose o etniche, facendo affidamento, sul campo, soprattutto sulle fazioni locali, opportunamente armate ed addestrate. L’intervento militare diretto del polo imperialistico è quindi assente o molto limitato, ovvero avviene attraverso l’uso di piccoli contingenti di forze speciali infiltrate nella fazione che si sostiene, al limite l’imposizione di no-fly zones, ricognizioni o bombardamenti aerei per aiutare, sul campo, la fazione che si sostiene, o l’uso mirato delle forze di interposizione delle missioni di peace-keeping per imporre tregue, impedire contrattacchi della fazione opposta, o per infiltrare, mascherate da “peace keepers”, le forze speciali di cui sopra;
– Una guerra in cui gli strumenti non-militari (intelligence, corruzione di forze politiche locali o nazionali, informazione e controinformazione politica, in cui l’uso del web e dei social network diventa un moltiplicatore potentissimo, come verificatosi nella Primavera Araba, utilizzo strumentale del terrorismo interno ed internazionale) crescono di importanza, e diventano primari, rispetto a quelli puramente militari;
– Per i motivi sopra esposti, una guerra simile può essere, convenientemente, parzialmente “privatizzata”, utilizzando in misura crescente i mercenari (ribattezzati, in gergo liberista, “contractors”) come avvenuto in Libia, evitando il pericoloso utilizzo di forze militari (sia pur di piccola entità numerica, essendo forze speciali, come detto sopra) dei poli contendenti, che potrebbe innescare una escalation di conflitto diretto;
– Una guerra in cui i tradizionali concetti di tempo e di spazio perdono significato. Le pause tattiche e strategiche tipiche dei vecchi conflitti armati scompaiono, perché l’innovazione nei sistemi di comando, controllo e comunicazione, e l’automazione crescente dei sistemi d’arma, consentono una guerra “continua”, senza pause. Piuttosto, i tempi sono dettati dalle esigenze politiche, che divengono primarie rispetto a quelle puramente militari (donde ad esempio le varie tregue sul fronte ucraino, dettate da esigenze politiche, non certo da convenienze militari). D’altro canto, la mobilità, la velocità, la capacità di accerchiamento del nemico, basata sull’utilizzo di reparti corazzati, piccoli contingenti aviotrasportati dietro le linee nemiche che si piazzano in punti strategici per l’accerchiamento, diventano fondamentali. Il concetto di spazio cambia anch’esso, essendo sempre meno legato ai fronti di guerra tradizionali, poiché i nuovi sistemi d’arma, e l’utilizzo più massiccio del passato di strumenti non-militari, consentono di condurre la guerra sull’intero territorio dello scenario regionale o nazionale coinvolto;
– La crescente “politicizzazione” di questi conflitti rende strategico, dal punto di vista difensivo, l’utilizzo della difesa territoriale, che però avrà nuovi compiti rispetto al passato: oggi deve proteggere la popolazione dalle fazioni terroriste e guerrigliere messe in piedi dal nemico, proteggere i sistemi di informazione e comunicazione dall’influenza dell’intelligence e della propaganda politica nemica, difendere l’apparato politico-amministrativo dalla corruzione e dall’influenza economica e politica del nemico. Quindi, dentro la difesa territoriale con un ruolo militare vero e proprio, entra l’intero sistema di polizia, magistratura e intelligence civile. Con un peso centrale della sicurezza informatica, che deve contrastare il crescente cyber-terrorismo.
Diventa anche facile capire quali aree, potenzialmente, possono diventare scenari regionali dei nuovi conflitti non-lineari, oltre a quelli già in atto (in Ucraina, in Siria-Iraq del Nord, in Afghanistan, in Libia, in Somalia, ecc.). Basta guardare, tornando ai dati del Sipri, ai Paesi che hanno la più alta spesa militare rispetto al loro Pil. E scopriamo che, al netto di Paesi già interessati da conflitti o da persistenti condizioni di instabilità, come la Libia, Israele, o la Repubblica Democratica del Congo, l’area “calda” è la penisola araba. Oman ed Arabia Saudita sono i due Paesi con la più alta spesa militare sul PIL al mondo, un valore che si aggira attorno al 10%. Seguiti da Emirati Arabi Uniti, al 5%. Tali dati evidenziano come detta area si ponga al crocevia fra i vari conflitti che attraversano il mondo islamico, principalmente, ma non solo, fra sciiti e sunniti, così come nel finanziamento di movimenti e forze salafite di vario tipo, con l’Arabia Saudita che, con mezzi politici repressivi (nel caso della rivolta degli sciiti del Bahrein) o interventi militari diretti (come nel caso dello Yemen) si pone come portabandiera del wahhabismo, ed altre monarchie petrolifere locali che finanziano vari gruppi terroristici. Così come, in altre parti del mondo, Paesi di frontiera del terrorismo qaedista e salafita, come la Mauritania, spendono molto per tenere un livello di scontro che è più vicino alla guerra che al terrorismo tradizionale.
Un’altra area “calda” è costituita da diverse Repubbliche ex sovietiche dell’area fra il Caucaso e l’Asia Centrale. Ad esempio, Armenia ed Azerbaijan hanno una spesa militare pari a circa il 4-4,5% del Pil. Il Kirghizistan è al 3,5%, la Georgia al 2,3%. Si tratta di aree dove la Russia esercita, in varie forme, la sua rinnovata volontà di influenza politica, e dove gli Occidentali (vedi Georgia) influiscono indebitamente per sottrargliele. Aree in cui ci sono già state guerre guerreggiate (come in Georgia) o guerre civili ed etniche che hanno portato anche a secessioni (Nagorno Karabakh, Abkhazia, ecc.) e che costituiscono un ribollente scenario di scontro fra Russia ed Occidente per il controllo di un’area strategica dal punto di vista degli approvvigionamenti energetici. Un’area ancora instabile, e che può esplodere nuovamente in qualsiasi momento.
Questa guerra non lineare e frammentaria sarà possibile all’infinito, senza generare una escalation verso una guerra diretta fra i diversi poli antagonisti? Questa è l’angosciosa domanda da porsi.