Il conflitto tra sionismo e palestinesi è giunto a un punto di svolta, la sproporzione tra l’attacco di Hamas e la reazione di Israele rivela la verità di una guerra dai contorni genocidiari. Se si pongono in successione gli eventi del conflitto negli ultimi decenni, la deriva sanguinaria in cui siamo, è solo l’effetto di un meccanismo di violenza ed esclusione in atto da non poco tempo. Gli scritti di Giancarlo Paciello con i loro dati e con la loro documentazione ricostruiscono la verità storica del presente ricostruendo la storia del conflitto.
La nakba (esodo) ovvero l’esodo palestinese è stato per Giancarlo Paciello un evento storico divenuto parte della sua biografia, egli non ha solo svolto un lavoro di ricerca, ma ha vissuto profondamente il dolore di un popolo costretto all’esodo e alla diaspora. Nei suoi scritti ha utilizzato il termine “sionismo”, poiché non accusa il popolo israeliano ma solo i sionisti.
Le violazioni dei diritti umani da parte di “Israele” denunciate dall’ONU mostrano, altresì, l’impotenza degli organismi internazionali di fatto sotto il controllo delle gerarchie delle potenze economiche, in primis, gli Stati Uniti. I diritti umani sono solo un mezzo nella strategia dell’imposizione del nuovo ordine mondiale che affonda nel caos di guerre e sconfitte. La logica dell’esclusione fisica dei palestinesi trova un punto di svolta nella costruzione nel 2002 del Muro che separa la comunità palestinese da quella israeliana.
Ogni anno si festeggia la caduta del muro di Berlino, e si inneggia alla libertà ritrovata, ovvero il neoliberismo, dei paesi dell’ex blocco comunista, ma il silenzio cala sui nuovi muri che tagliano i popoli e preparano con la discriminazione spaziale la successiva eliminazione fisica. Il Muro costruito da “Israele” per proteggersi da eventuali attacchi suicidi non è un confine. I confini sono punti di contatto, i muri separano, formano gabbie geografiche e mentali, neutralizzano ogni empatia e simpatia verso l’altro. Chi sta oltre un muro è il nemico assoluto, compromessi e politica sono sostituiti dalle logiche dell’annichilimento del nemico. La barriera di separazione tra “Israele” e Palestina risale al 2002 ed è ancora in costruzione, si estende per circa mille Km, attraversa e separa citta e quartieri. Per gli israeliani è un muro di protezione, per i palestinesi è l’apartheid. La Corte dell’Aja ne ha condannato vivamente la costruzione, ma la condanna non ha comportato l’abbattimento:
“Ebbene, il 9 luglio, a pochi giorni di distanza dalla prima sentenza, c’è stata la condanna della Corte dell’Aja del Muro (dei quindici giudici uno soltanto ha votato contro). Una risposta che ha anche il merito della chiarezza: “Israele deve porre fine alle violazioni del diritto internazionale di cui è artefice; è tenuto a sospendere immediatamente i lavori di costruzione del muro, […] di smantellare immediatamente l’opera costruita nel territorio palestinese occupato e di rendere immediatamente inefficace l’insieme di atti legislativi e regolamentari che vi fanno riferimento. […] La Corte evidenzia inoltre che Israele ha l’obbligo di porre riparo a tutti i danni causati a tutte le persone fisiche o morali coinvolte. […] Di conseguenza, deve restituire tutte le terre, i frutteti, gli oliveti e gli altri beni immobiliari in gioco[1]”.
Il Muro con la sua larghezza e le sue tecnologie di controllo e sorveglianza è paragonabile ad una mano che penetra gradualmente nel territorio palestinese, ne erode una parte per la costruzione, di fatto se ne appropria, e smantella la vita sociale ed economica di coloro che sono all’interno del territorio. Le dita della mano diventano unghie, l’azione “difensiva diventa offensiva”:
“Ma, a mio parere, l’aspetto più importante di questa sentenza risiede nel fatto che la Corte ha respinto le argomentazioni, anche scritte, del governo israeliano, basate sostanzialmente sul diritto dello Stato ebraico alla legittima difesa. Con una certa malizia, la Corte evidenzia che la Carta delle Nazioni Unite “riconosce l’esistenza di un diritto naturale di legittima difesa in caso di aggressione armata di uno Stato contro un altro Stato”. Ma “Israele esercita il suo controllo sul territorio palestinese occupato” e, “come lui stesso sostiene, la minaccia che denuncia per giustificare la costruzione del muro trova la sua origine all’interno di questo territorio…”. Infatti, questa parte della sentenza rifiuta allo Stato d’Israele il “suo sacro diritto” a combattere “il terrorismo”. In realtà non permette allo Stato d’Israele di presentare la propria politica di conquista e di colonizzazione come lotta al terrorismo, con formulazioni che non hanno esitato a definire Arafat come il bin Laden[2]”.
Giancarlo Paciello esplicita in modo chiaro e inequivocabile nel suo testo sul “Muro difensivo” le finalità multiple della sua costruzione, le tre finalità individuate hanno lo scopo di colonizzare il territorio dove risiedono i palestinesi. Il Muro ha lo scopo di contribuire allo svuotamento del territorio palestinese con effetti immaginabili. I tagli degli ulivi per la costruzione del Muro, i controlli che rendono l’esistenza impossibile, poiché per superare la barriera bisogna attendere ore, stritolano la vita economica e sociale e umiliano i palestinesi quotidianamente. L’obiettivo finale è la colonizzazione ottenuta spingendo il popolo palestinese all’emigrazione senza ritorno. L’esodo sembra essere il destino di questo popolo, lo scopo non dichiarato è impedire la costituzione di uno stato palestinese:
“A mio parere, il significato essenziale da attribuire al Muro (che si evince dalla pratica dell’occupazione e della colonizzazione), è quello di essere uno strumento articolato per penetrare ancora di più nel territorio palestinese, realizzando tre obiettivi fondamentali:
- la sottrazione di terre ai palestinesi – per le dimensioni di questa struttura, dal momento che viene usata una fascia di circa duecento metri di larghezza, se non più, per tutta la lunghezza del muro. Se si tiene conto che la lunghezza del Muro sarà alla fine di 1.000 chilometri, saranno circa 200 chilometri quadrati quelli sottratti ai palestinesi, pari a 20.000 ettari. E anche se fossero soltanto 10.000 ettari? Non un solo metro quadrato di questa terra compete agli israeliani! – per il tracciato che tende ad inglobare terre palestinesi, lasciando fuori gli abitanti che dovranno, per andare a lavorare sulle loro terre, chiedere un permesso, pensate un po’, lasciato alla discrezione del comandante militare.
- b) la separazione della comunità palestinese – perché dividerà in almeno tre parti la Cisgiordania, inglobando più dell’80% delle colonie, che costituiranno elemento di accerchiamento dei villaggi. – perché questa bantustanizzazione del territorio metterà in crisi la già malandata economia palestinese, dal momento che le attività locali saranno spesso rese impraticabili dalle scarse possibilità di scambio.
- c) la volontà d’Israele di impedire la nascita di uno Stato palestinese. Ma questo terzo obiettivo, il più importante di tutti, rimarrà sempre nascosto dietro le pratiche realizzative dei primi due. Israele non ha alcun interesse a dichiarare di non volere uno Stato palestinese, sa bene che queste non sono dichiarazioni da Stato democratico, sa altrettanto bene che il tempo lavora a suo favore. Per ora, è bene che l’opinione pubblica mondiale creda che il Muro è un atto di difesa addirittura come elemento di quella guerra al terrorismo che sembra essere diventato l’imperativo categorico di una società priva di ogni scrupolo morale[3]”.
La “cesoia corazzata” che taglia i palestinesi dagli israeliani impedendo ai due popoli di conoscersi e di imparare la convivenza superando pregiudizi e rancori, non separa solo i palestinesi dagli israeliani, ma anche le famiglie palestinesi, ovunque il Muro si innalza e pone barriere tra gli affetti naturali e disintegra comunità e abitudini. Il Muro con la sua rete elettrificata e con i suoi sensori è l’immagine di un Leviatano che s’innalza nel deserto per ingoiare palestinesi e israeliani, poiché nella logica della discriminazione perdono tutti, anche coloro che usano “la cesoia corazzata”, poiché si mette in moto il ciclo della violenza:
“Ma quali sono le conseguenze della costruzione del muro, giorno dopo giorno? Il paesaggio assume un aspetto spettrale. Palestinesi che restano separati dai loro campi, bambini e studenti che restano separati dalle loro scuole, parenti che restano separati da altri parenti. In alcuni tratti, il Muro è una barriera composta da un sistema di rete elettrificata-fossati-fili spinati-sensori. Una prigione a cielo aperto. E cosa è già costato ai palestinesi? Un’invasione di bulldozer che hanno sradicato più di 102 mila alberi d’olivo. No, non è un muro, è una cesoia corazzata che ritaglia un territorio come se si trattasse di figurine e umilia tutti coloro che incontra sulla sua strada. Le cifre relative alla prima parte dei lavori che avvengono lungo il percorso del muro, nelle aree contigue e vicino alla linea verde, sono quasi tutte a tre zeri: 1.468 ettari confiscati per il tracciato del muro; 12.200 ettari di terreni (di cui 8.000 agricoli) di fatto confiscati tra il muro e la linea verde; 65 comunità urbane colpite direttamente (per un totale di 206.000 abitanti, di cui 51 isolate da gran parte delle loro terre; 31 pozzi e cisterne confiscate (dal ‘67 i palestinesi non possono scavare nuovi pozzi di loro iniziativa), 30 km di rete idrica distrutta e più di 6 milioni di metri cubi d’acqua all’anno persi per l’agricoltura palestinese. Saranno un po’ terrorizzati i palestinesi per come vanno le cose a casa loro?[4]”.
Il tempo corazzato
La colonizzazione dello spazio è parallela all’occupazione del tempo. Il muro difensivo è in realtà Muro del tempo. Ai palestinesi si sottrae lo spazio e il tempo, li si riduce a semplice soffio vitale. Il tempo per vivere, per produrre e per gli scambi è sostituito dal tempo del controllo nel quale la vita dei palestinesi si disperde o si orienta verso una condizione emotiva disperata ed esasperata. Le lunghe file dinanzi ai check-point sono la manifestazione reale di un’esistenza resa impossibile. Bisogna, molto spesso, attendere ore per spostarsi nei propri campi o al lavoro. Le ore sottratte al lavoro hanno un impatto devastante su ciò che resta dell’economia di un popolo che ormai vive dei soli aiuti internazionali. Il Muro diviene tempo negato del lavoro, tempo negato della scuola, tempo negato degli affetti, la sua ombra si allunga e oscura l’esistenza all’interno della grande gabbia:
“Come se non bastasse la colonizzazione dello spazio, si provvede ora a colonizzare il tempo. E il Muro, che grande contributo ha dato alla prima, ha una funzione essenziale anche nel realizzare la seconda. I palestinesi devono sempre aspettare. Se c’è la chiusura non possono far nulla. E un attentato suicida significa la chiusura! Se non c’è la chiusura, possono essere bloccati a un check-point e devono cercare di aggirarlo. Ma anche se il check-point non è bloccato, ci vuole tempo, spesso ore, per superarlo. Con la chiusura, si ruba ai palestinesi una parte importante della loro vita, trasformandola spesso in un’esperienza umiliante e pericolosa. Così è per il coprifuoco. Che in moltissimi casi è di 24 ore su 24 e si protrae anche per mesi! E il Muro scandisce in modo ancora più brutale, se possibile, i tempi del lavoro, della scuola, degli affetti. Gli assassinii sistematici, le distruzioni programmate, la colonizzazione dello spazio e del tempo configurano una politica di terrorismo di Stato, esercitato contro la popolazione palestinese, che le impedisce di muoversi, di lavorare, di vivere[5]”.
Interessi palesi e inconfessabili
Con la proclamazione dello Stato d’Israele e gli accordi firmati nel 1949 dopo la guerra arabo-israeliana, lo stato palestinese non è stato proclamato. “Israele” ha allargato il suo territorio, ma anche i paesi arabi nei fatti hanno perseguito interessi nazionali a discapito del popolo palestinese stretto nella cesoia corazzata d’Israele e tradito degli Stati dell’area. I palestinesi sono giocati da una pluralità d’interessi che si estendono anche ben oltre Israele:
“Gli accordi d’armistizio firmati da Israele con i suoi differenti avversari, dal 23 febbraio al 20 luglio 1949, definiscono l’ingrandimento dello Stato ebraico di una metà rispetto alle dimensioni assegnategli dal piano di spartizione dell’ONU. Passa così da 14.000 a circa 21.000 chilometri quadrati, ottenendo in particolare la Galilea, un corridoio verso Gerusalemme e il Negev, fino al porto di Eilat sul mar Rosso. Lo Stato arabo, invece, non è nato, dal momento che Israele e la Giordania si sono spartiti la Cisgiordania, mentre Gaza è finita sotto la tutela dell’Egitto. Ma soprattutto, da 700.000 a 800.000 Palestinesi hanno dovuto lasciare le loro case. Un esodo determinato dai combattimenti medesimi, sull’onda dei quali si sviluppò, tra gli israeliani, una politica di espulsione della popolazione palestinese. Emblematica l’operazione Dani che mobilitò circa la metà del esercito israeliano, avente come obiettivi Lydda (ora Lod) e Ramleh. Due giorni di bombardamento intensivo determinarono l’esodo. Il 12 luglio, a Lydda, i soldati israeliani si scatenarono, 250 civili palestinesi vennero uccisi, compresi prigionieri disarmati. E così il massacro accelerò la fuga. E l’esercito saccheggiò le due città. In meno di una settimana l’esercito d’Israele si era sbarazzato di circa 70.000 civili palestinesi, circa il 10% degli espulsi dal 1947 al 1949! Questa determinazione all’espulsione continuerà, alla fine della guerra, con la distruzione dei villaggi arabi, o con l’insediamento in essi di nuovi immigranti ebrei, o addirittura con la divisione delle terre arabe tra i kibbutz circostanti. La legge sulle “proprietà abbandonate” renderà ufficiale questo dispositivo. Quanto ai profughi, le Nazioni unite, nell’aprile del 1950, ne censiranno circa un milione in Giordania, a Gaza, in Libano e in Siria. L’ONU ha proclamato, nel dicembre del 1948, il loro “diritto al ritorno”, diritto che i dirigenti israeliani non hanno mai inteso rispettare. Il 16 giugno del 1948, il Primo ministro Ben Gurion aveva dichiarato: «Noi dobbiamo impedire, a qualsiasi costo, il loro ritorno»[6]”.
La legge sulle “proprietà abbandonate” è l’evidenza della volontà di appropriazione delle terre del popolo palestinese. Dopo la prima guerra arabo-israeliana con il conseguente esodo, “le terre abbandonate” furono fagocitate da Israele.
Solo con la restituzione dei Territori erosi con le mani e con le unghie sarà possibile rimettere in moto il processo di pace. Il rispetto delle Risoluzioni 242 e 338 dell’ONU potrebbe essere un buon inizio[7], anche se in questo momento è impensabile, è sempre possibile. La pace armata non è pace, quest’ultima inizia solo con gesti e progetti che possono ricostruire un clima favorevole alla politica. La documentazione di Giancarlo Paciello ci consente di entrare materialmente in una realtà minata da ingiustizie plurime che si addensano su di un popolo che pare destinato all’esodo per sopravvivere, ma la storia può cambiare il suo percorso, la lotta e la prassi possono condurre ad obiettivi insperati. Giancarlo Paciello ha dato voce a coloro che non ne hanno, non è un gesto neutro, è resistenza al male che avanza e pubblica denuncia dei silenzi e delle complicità che contribuiscono alle logiche genocidarie. La speranza è già nell’impegno che carsicamente spezza il “muro del silenzio”. Il male è il silenzio sulle ingiustizie, solo la parola può mettere in moto i sentieri della prassi e della giustizia, in tal modo si rende onore e giustizia alle vittime innocenti di entrambe le parti.
[1]Giancarlo Paciello Una vergognosa difesa del muro della vergogna, PetitePlaisance, Pistoia 2010, pag. 5
[2] Ibidem pp. 5 6
[3] Ibidem pp. 9 10
[4] Ibidem pag. 11
[5] Ibidem pag. 24
[6] Giancarlo Paciello,Mashloket ha-Historionim ovvero La “nuova storia” d’IsraelePubblicato su Koinè, Periodico culturale – Anno VI Nuova serie – NN°3/5 – Luglio/Dicembre 1998, pp. 9 10
[7] Gianfranco Paciello, La trasformazione demografica della Palestina, PetitePlaisance Pistoia, pag. 40
Fonte foto: Infopal (da Google)