In questi giorni la Cgil ha depositato dei quesiti referendari contro il Jobs act. Ma allora perchè non farlo al fine di ripristinare la scala mobile?
La
Cgil ha portato in Cassazione 4 quesiti referendari sul
lavoro. Due quesiti riguardano il tema dei licenziamenti per porre fine al contratto
a tutele crescenti, un altro si occupa dell’indennizzo nelle piccole
imprese. Il terzo quesito referendario mira a
reintrodurre le causali per i contratti
a termine. Di fatto sono aspetti normati dal Jobs Act e da un
successivo provvedimento del governo Meloni che lascia alle parti
datoriali e sindacali la possibilità di indicare esigenze di natura tecnica,
organizzativa o produttiva. Il quarto quesito invece riguarda gli appalti
e la responsabilità della committenza in caso di infortuni.
Ammesso, ma non concesso, che la Cassazione accolga i quesiti della Cgil sono indispensabili alcune riflessioni e approfondimenti perchè è evidente il fallimento della via negoziale; il Governo Meloni non ha alcuna intenzione di rivedere e superare il Jobs act per non inimicarsi le associazioni datoriali.
Se si ricorre alla via referendaria è palese che il Parlamento non intenda accogliere le richieste sindacali e a sua volta lo stesso sindacato non prende atto del fallimento della concertazione, strumento con cui pensavano di dialogare con le parti datoriali.
I rapporti di forza sono anche il risultato dell’agire conflittuale, senza conflitto non esiste possibilità alcuna di miglioramento salariale e delle condizioni di vita della forza lavoro.
Ma la via conflittuale sarebbe alquanto rischiosa per sindacati che hanno tutto da perdere dovendo tutelare patronati, caf, partecipazione negli Enti bilaterali e avendo voce in capitolo nella sanità e nella previdenza integrativa. E quindi la soluzione per salvare capra e cavoli sarebbe la via referendaria non facendo per altro i conti con la Cassazione.
Le conseguenze del jobs act sono state nefaste per i lavoratori, abbiamo perso potere contrattuale e diritti acquisiti.
E’
il caso del Demansionamento per sopraggiunta inabilità, una recente sentenza
della Cassazione stabilisce anche nel Pubblico la possibilità di inquadrare a
livelli inferiore il lavoratore inabile per motivi di salute.
L’art. 3 del dlgs 81/2015 (Jobs Act) sostituisce
il testo dell’art. 2103 c.c., il datore può quindi assegnare
il lavoratore a mansioni inferiori
Lo
ius variandi avviene quando vengono modificati gli assetti organizzativi
aziendali e ora in caso di inabilità alla mansione, il rinvio poi alla
contrattazione collettiva ha rappresentato una scappatoia accolta anche da
alcuni sindacati rappresentativi per i quali sottoscrivere intese e contratti è
la sola finalità del loro agire nel mondo del lavoro e a prescindere dai
contenuti approvati.
In
molte aziende il lavoratore non puo’ essere utilizzato in mansioni diverse da
quelle per le quali è stato assunto, se aumentano i ritmi e sopraggiungono
inabilità per problematiche di salute in tanti casi si prefigura il
licenziamento. Nelle piccole aziende e nelle cooperative la parte datoriale
potrà sempre dimostrare di non avere mansioni equivalenti alle quali adibire
l’inabile.
Inquadrare poi un lavoratore allo stesso livello pur con diverse mansioni diventa quindi un nonsense se non esiste uno specifico obbligo che vieti espressamente gli esuberi. E’ bene ricordare che il vecchio articolo 2103 del codice civile stabiliva invece il divieto di una variazione peggiorativa delle mansioni e salvaguardava le stesse retribuzioni; l’intervento del Governo Renzi ha cancellato il tutto come da tempo chiedevano le associazioni datoriali. Alle mansioni equivalenti sono state subentrate quelle inferiori e a rimetterci sono solo i lavoratori e le lavoratrici. Il Jobs act ha dato ai datori un’arma straordinaria con la quale ricattare la forza lavoro costringendola ad accettare mansioni inferiori e in taluni casi anche riduzioni salariali per conservare il posto. E nel corso degli anni lo ius variandi del datore di lavoro ha avuto solo un limite ossia la classificazione prevista nella contrattazione collettiva che poi nel corso degli anni si è dimostrata un cavallo di Troia per la forza lavoro visto che tra deroghe e contrattazioni di secondo livello il potere contrattuale si è ridotto ai minimi termini.
Non
siamo contrari ai quesiti referendari ma ne cogliamo aspetti contraddittori, ad
esempio se volessimo individuare le cause della perdita del potere di acquisto
dei salari (una priorità assoluta per chiunque oggi faccia sindacato) dovremmo
chiamare in causa il codice Ipca e tutte quelle regole della contrattazione che
hanno portato nel tempo i contratti nazionali ad essere siglati senza recupero
reale del potere di acquisto.
Ma
le regole da contestare, quelle che hanno sostituito gli automatismi degli
adeguamenti salariali come avveniva con la scala mobile, sono le stesse della
concertazione, costruite anche con la partecipazione attiva della Cgil.
Rivendicare
oggi il ripristino della scala mobile sarebbe un atto rivoluzionario ma anche
un feroce attacco alle regole della Ue, all’austerità salariale e al principio
del contenimento del debito e del costo del lavoro. E quelle regole che hanno
affossato il nostro potere di acquisto, restano invece confini invalicabili e
patrimonio anche della Cgil che per 40 anni ha contribuito a smantellare le
conquiste del movimento operaio.
Ecco la ragione per la quale contestare il Jobs act è solo parte del problema e la posizione della Cgil appare assai contraddittoria, in sostanza tanto arrendevole quanto omissiva sulle reali cause dell’affossamento del potere di acquisto e di contrattazione.