Di recente l’Atac ha proposto come elemento significativo del suo piano di risanamento, un riordino del servizio che prevede la riduzione delle fermate; e presumibilmente nelle aree periferiche o in quelle in cui la domanda è più scarsa.
Siamo qui di fronte ad una strategia di riduzione dei costi, prassi normale per qualsiasi impresa privata nel contesto di un’economia di mercato; ma che stona notevolmente con il contesto di “missione” che è stata, e dovrebbe essere tuttora, la base fondativa dell’impresa pubblica e della sua specifica missione.
Teniamo bene a mente questo termine. Perché senza una specifica missione non si dà impresa pubblica; e perché la “missione” deriva, nelle sue articolazioni centrali e/o locali, dallo stato e dal ruolo che gli è stato naturalmente assegnato all’interno di un disegno volto all’attuazione degli obbiettivi programmatici della nostra Costituzione.
Non a caso, del resto, l’estensione del pubblico, nelle sue diverse forme ( municipalizzate, “formula Iri”, Eni, Enel, edilizia popolare) è frutto di scelte politiche di largo respiro e si modella sullo sviluppo della nostra democrazia. In un contesto in cui il ricorso all’impresa pubblica (classica ma anche a partecipazione statale) e, conseguentemente, la missione che le è assegnata, è giustificato dalla necessità/possibilità di “fare delle cose che i privati non possono né sono tenuti a fare”. Nel caso del servizio pubblico nazionale o locale, si tratterà dell’universalità del servizio; nel caso del sistema di obiettivi di sviluppo che per la loro ampiezza (sistema telefonico o autostradale), per la loro localizzazione (grandi investimenti nel Mezzogiorno) o per la loro natura (grandi programmi di ricerca) vanno oltre gli orizzonti propri del sistema privato.
Per altro verso, una missione ha bisogno di missionari. E, allora, non a caso, la nascita delle municipalizzate sarà opera dei tanti pionieri della democrazia civica; e che, contestualmente, lo sviluppo del sistema delle partecipazioni statali sarà accompagnato se non addirittura promosso, da almeno tre generazioni di “servitori dello stato”, a partire dalla prima metà degli anni venti sino agli inizi degli anni settanta.
Naturalmente, “fare prima” e “fare diverso” comporta dei costi; costi che vanno calcolati in base a criteri certi e riconoscibili e coperti dai contribuenti.
Citiamo questo elemento perché sarà la base prima della decadenza; e non solo perché, a partire dagli anni settanta i costi, leggi le perdite, andranno fuori controllo ma anche perché i vari commissari europei considereranno pregiudizialmente questa operazione come “aiuto di stato, portando così alla distruzione di tutto il sistema; e in prospettiva ad un ordinamento in cui l’impresa pubblica non appare più collegata a qualsivoglia missione, fino ad apparire un relitto del passato privo di qualsiasi specifica identità.
All’interno di questa crisi complessiva, il caso Atac presenta, come si dice in gergo, “particolari elementi di criticità”. Legati al fatto che la sua specifica missione: assicurare un accesso adeguato al trasporto pubblico a tutti i cittadini di Roma si è rivelata, con l’andar del tempo impossibile da raggiungere. E non solo per la progressiva rarefazione delle risorse disponibili o per gli effetti di un disegno nazionale di riduzione del ruolo del “pubblico”; ma anche per il “combinato disposto” di un’espansione della città a macchia d’olio, a rimorchio delle esigenze della rendita e dell’assenza di qualsiasi strategia di incentivazione all’uso del trasporto pubblico.
In conseguenza di questo, la missione dell’Atac si è progressivamente identificata con la sua auto perpetuazione a servizio di un sistema politico-clientelare in cui le esigenze dei cittadini rappresentavano una specie di postilla a piè di pagina.
E, allora, premessa obbligata di qualsiasi rilancio dell’azienda pubblica è la ridefinizione della sua missione.
Ma questa presuppone l’esistenza: di un disegno complessivo che veda il trasporto collettivo come supporto essenziale di una politica della mobilità; di un ambito territoriale di riferimento in cui esercitare al meglio le sue potenzialità; e infine di una azienda speciale in grado di governarne gli sviluppi.