Non condivido nessuna delle istanze dell’odierno femminismo, o almeno di quella che mi sembra essere la sua componente largamente prevalente. Ovviamente, questo oggi è difficile dirlo in qualunque contesto pubblico, lavorativo o associativo – dove una simile affermazione attirerebbe per bene che vada immediati sguardi di riprovazione -, e appena un po’ più facile scriverlo. È quello che accade quando una narrazione diviene egemone, ossia di moda, e viene dunque ripetuta senza più alcuna riflessione. Un esempio recente mi fu fornito da una autorità pubblica cittadina, chiamata a intervenire a margine della ricorrenza del 25 novembre, dedicata alla violenza contro le donne. Il suo intervento iniziò così: “Pensate, circa la metà delle persone oggi uccise in Italia sono donne…”. Voglio anche prescindere dal fatto, noto a chi abbia appena l’abitudine di far passare le proprie convinzioni al vaglio di riscontri statistici affidabili, che l’affermazione non è vera, in quanto gli uomini uccisi sono in numero quasi tre volte superiore rispetto alle donne. Ma foss’anche vera (e non lo è), una affermazione del genere rimarrebbe comunque a dir poco pleonastica e tanto più ridicola perché pronunciata con enfasi e partecipazione. Tanto mi bastò per non voler ascoltare il resto. Passa come se nulla fosse, sembra normale, al punto che ebbi quasi la sensazione di essere l’unico ad avvertire tutto l’assurdo di una simile affermazione. Quale dovrebbe esserne il contenuto informativo? Meno che nullo. L’altra metà delle persone uccise, infatti, sono uomini. E quindi? Come dire che ben la metà delle scarpe indossate nel mondo sono sinistre. È davvero un esempio a caso, perché è comune sentire sciocchezze del genere. Basta pensarci un momento per capire che si tratta di una intollerabile approssimazione. Anzi, del nulla assoluto. Ma non si pensa più, questo è il punto.
Si ripete e si replica un discorsetto edificante, in alcuni casi a dire il vero anche piuttosto rancoroso e generalizzante, che fa acqua da tutte le parti non appena lo si sottoponga a un minimo di sana critica. Invece di volere sempre a tutti i costi “sensibilizzare”, sarà il caso di fermarsi lungamente a riflettere. Oltretutto, in questo modo si producono nuove e immotivate sofferenze. Durante la stessa succitata manifestazione, dalla quale sapevo cosa aspettarmi ma vi partecipavo per obbligo di servizio, sorpresi un alunno della scuola, ma non di una mia classe, giovanissimo, che poi scoprii frequentare la prima, che si era defilato dal resto del gruppo. Gli chiesi come mai, prese un po’ di coraggio e mi rispose: “Prof., siamo qui contro la violenza di genere, ma ho sentito parlare solo donne contro uomini”. In effetti erano stati scanditi slogan richiedenti agli uomini di “inchinarsi di fronte alla donna”; la stessa speaker aveva affermato che gli uomini presenti “chiedevano scusa”. Tutti? Davvero è questa la sola strada possibile per impostare le questioni legate al genere e ai rapporti tra i sessi? Lessi addosso al ragazzo un disagio, mentre cercavo di non rivelare il mio: si sentiva un pesce fuor d’acqua per via dello stato d’animo che lo attraversava. Ritenni di doverlo rincuorare: più o meno gli dissi: oggi è comunque giusto che voi siate qui, questo non vuol dire che si debba essere d’accordo su tutto. Lo incoraggiai a continuare a pensare con la sua testa e a questa esortazione cercai di affidare il mio vero messaggio al di là delle parole necessarie. Mi guardò, aveva occhi miti. Dentro di me, mi chiesi chi si occupi, oggi, del suo, di disagio, di questo giovanissimo ragazzo, poco più di un bambino, che si è sentito colpevolizzato in quanto maschio da un conformismo assordante. A chi giova?
Bisogna cercare di dire la verità. Ad essere oggi dominante è un femminismo neoliberale, essenzialmente reazionario, che non a caso sposta l’intera questione soltanto sul piano culturale, espellendo completamente dalla sfera discorsiva gli aspetti strutturali. Il racconto segue linee semplici e replicabili a piacere: le donne sono e sono sempre state oppresse, le resistenze culturali sono ancora forti, il problema è dunque la mentalità; evolvendoci saremmo finalmente uguali ma purtroppo sono ancora tanti i trogloditi, rigorosamente tutti maschi. E, pertanto, occorre sensibilizzare – altra parola chiave che salta fuori ogni volta che la lotta scompare. Le “campagne” sostituiscono la critica (non diciamo la rivoluzione, non volendo nemmeno esagerare), offrendo rispetto ad essa il grande vantaggio di non mettersi in urto con interessi costituiti e con i centri di potere. Anzi, sono ad essi del tutto funzionali e organiche. Così raccontata si tratta di una favoletta, ma è esattamente così che viene raccontata. La lotta di classe viene trasformata sic et simpliciter nella lotta di un sesso contro l’altro. È evidente che, come tutti i racconti, ha dei punti di contatto con la realtà e con la verità storica. La linea di divisione tra i sessi, tuttavia, deve essere profondamente intrecciata con quella tra classi, praticando il suggerimento di Anna Kuliscioff. La narrazione nasce, infatti, quando vengono espulsi dal discorso tutti quegli aspetti che la metterebbero in questione, che ne mostrerebbero la parzialità e, in definitiva, l’infondatezza. Rimosso il conflitto, nasce la favoletta, che non coglie nulla della condizione sociale delle donne e degli uomini nella fase attuale del Capitalismo. Ad essere una narrazione, ossia un capovolgimento della realtà, è in effetti l’intero apparato ideologico del politicamente corretto, nel quale l’odierno femminismo si inscrive. Il politicamente corretto è la struttura concettuale, discorsiva e di giustificazione della componente del Capitalismo oggi egemone: il neocapitalismo digitale che ha sempre più soppiantato il vecchio capitalismo fordista e che, attraverso i suoi strumenti e i suoi apparati (social, piattaforme ecc.) controlla le nostre vite (Zuboff 2019) e ha profondamente modificato i nostri stili cognitivi. Per cogliere, in un rapido sguardo sintetico, che il politicamente corretto è la stampella intellettuale del neocapitalismo digitale, basta vedere che tutte le campagne più nobili, e soprattutto preferibilmente velleitarie, sono sponsorizzate a caratteri ben rotondi dalle stesse multinazionali digitali, Amazon, Facebook e Google in testa. Non di rado, però, le stesse aziende hanno qualche problema in più, diciamo, sul piano dei diritti dei lavoratori. Si prenda il caso eclatante di Amazon. Ci si atteggia a patrocinatori dei diritti civili ma non si consente ai lavoratori tutti, bianchi e neri, uomini e donne, comunque orientati sessualmente, binari o non binari che siano di andare a pisciare. L’afflato filantropico è senza dubbio il tono che contraddistingue la classe padronale del “Capitalismo della sorveglianza”. Per dirla con le parole di Paulo Freire, “Gli oppressori, falsamente generosi, hanno bisogno che l’ingiustizia perduri, affinché la loro “generosità” continui ad avere le occasioni per realizzarsi.” (Freire 1968).
Dopo aver efficacemente ottenuto la rimozione del conflitto (che, comunque, sopito, qui e lì torna ad affiorare e i giochi non sono mai chiusi), l’idea di progresso e di uguaglianza è stata interamente traslata sui diritti civili e individuali, che non scalfiscono il nucleo delle forme odierne di alienazione, di sfruttamento e di dominio. Anzi, l’enfasi sui soli diritti civili, mentre si seguita a fare strame di quelli sociali, serve oggi proprio a legittimare e proteggere quel nucleo, a perpetuare e affinare quelle forme. Chi ha voluto attribuirmi un atteggiamento di disprezzo dei diritti civili sbaglia di grosso, è avviluppato nella favola progressista. Non soltanto i diritti civili poggiano su quelli sociali, ma i diritti individuali neoliberali oggi presentanti come diritti civili sono molto meno dei diritti civili seriamente intesi. A giocare i diritti sociali contro quelli civili non sono io, bensì l’odierno Capitalismo e l’ideologica progressista che lo sostiene. Sostanzialmente, in cambio della conculcazione dei diritti sociali, viene offerta una versione riduttiva e completamente esteriorizzata degli stessi diritti civili.
Nella cornice dell’odierno progressismo, non soltanto quelli che si fanno paladini dei diritti civili si disinteressano di quelli sociali, ma gli stessi diritti civili sono intesi in un modo ideologico e strumentale che non ha nulla a che vedere con grandi battaglie storiche come quelle per l’aborto o per il divorzio. I diritti civili vengono, invece, ridotti ai diritti individuali neoliberali, ossia alla libertà individuale comportamentale e esteriorizzata, prodotto perfetto dell’ideologia del libero mercato e leva di consenso per la sua ulteriore generalizzazione.
Le istanze che vengono poste all’interno delle strutture discorsive del politicamente corretto non sono affatto ideologicamente neutre. Tutte le “battaglie” dell’odierno progressismo si presentano infatti come neutre e universali; e ideologicamente neutre proprio perché si pretendono universali: le pari opportunità, la fine delle discriminazioni ecc. Ovviamente la forza di questo apparato concettuale consiste nell’evidenza dell’effettiva condivisibilità di queste posizioni quando sono enunciate nella loro astrattezza, visto che nessuno con un minimo di senno è a favore della violenza sulle donne o su chicchessia, della discriminazione basata sull’orientamento sessuale ecc. Ma la costruzione si sbriciola non appena si osservino con maggiore attenzione le fondamenta sulle quali poggia. Lungi dall’essere espressione delle forze che puntano all’emancipazione e alla liberazione, il politicamente corretto è il riflesso del potere che cerca di tenere in piedi tutte le cause sostanziali alla base delle differenze più profonde, sociali, di classe, proiettando in superficie tutto il senso delle “battaglie” presentate come decisive. Le parole del politicamente corretto sono le ombre sulla parete della caverna.
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