E’ in via di ultimazione la firma fra Governo e Regioni, dopo mesi di trattative molto dure, e fra notevoli e diffuse lamentele da parte dei governatori (specie del Mezzogiorno) del Patto per la Salute 2014-2016. Tale documento programma l’entità e l’utilizzo del Fondo Sanitario Nazionale per gli anni dal 2014 al 2016, delineando quindi la configurazione generale del sistema sanitario pubblico.
Mai come in questo caso la comunicazione (notoria abilità del Governo Renzi) serve per nascondere la realtà di una politica sanitaria volta a smantellare parti del sistema, ed a impoverirlo, finanziariamente e in termini di capacità d’intervento. Mentre il Governo, surrettiziamente, esenta le cliniche private convenzionate dal pagamento della Tasi (con il decreto firmato il 26 giugno dal Ministro Padoan) indipendentemente dalle tariffe (spesso salate) che impongono ai pazienti, con un nuovo regalo alla sanità privata, quella pubblica inizia un percorso di smantellamento.
E’ vero che, comunicativamente parlando, il Fondo Sanitario Nazionale, nel periodo 2014-206, cresce (da 109,9 miliardi di euro nel 2014 a 115,4 nel 2016, ma viene aggiunta, per la prima volta, una postilla che è tutto un programma: “salvo eventuali modifiche che si rendessero necessarie in relazione al conseguimento degli obiettivi di finanza pubblica e a variazioni del quadro macroeconomico”. In sostanza, non solo l’aumento del FSN, negli anni 2014-2016, risulta essere di poco inferiore alla previsione governativa relativa all’indice dei prezzi al consumo contenuta nel DEF (e quindi comporta una lieve riduzione del potere di acquisto di farmaci e prestazioni sanitarie) ma, per la prima volta, è anche incerto, in quanto i contraccolpi del fiscal compact e dell’austerità che il Governo Renzi ha promesso di mantenere anche per il futuro potranno comportare tagli unilaterali, ed imprecisati, da parte del Ministero dell’Economia. Con ciò, di fatto, rendendo impossibile una corretta programmazione delle risorse sanitarie regionali per il triennio.
Tale Patto comporta inoltre rilevanti iniquità di tipo territoriale. Si ribadisce, infatti, che il riparto di questo fondo fra le Regioni avverrà in base al criterio del “costo standard”, introdotto dal cosiddetto “federalismo fiscale” di Tremonti, fortemente voluto dalla Lega Nord, nel 2011. Su questo principio aleggia molta confusione nell’opinione pubblica. L’opinione generale è che si tratterebbe di un metodo per far sì che medesimi trattamenti sanitari, effettuati in diverse regioni italiane, costino lo stesso importo al sistema sanitario. In altri termini: una TAC eseguita a Milano deve costare quanto una TAC eseguita a Palermo.
Ma non è così. Il cosiddetto costo-standard è la media del costo, per macro-voci di servizio sanitario (prevenzione, assistenza distrettuale, a sua volta suddivisa nelle sub categorie di medicina di base, farmaceutica, specialistica e territoriale, assistenza ospedaliera) delle tre regioni che spendono di meno a livello di tali macro-categorie (le Regioni sono Veneto, Emilia Romagna ed Umbria). Tale costo medio viene poi pesato per un coefficiente che tiene conto della ripartizione della popolazione regionale per fascia d’età. Ne scaturisce un limite massimo di spesa che non è ancorato al costo effettivo di una specifica prestazione, ad esempio di una TAC o di una operazione di angioplastica, ma ad un concetto astratto (una macro categoria di spesa pesata per la distribuzione anagrafica della popolazione). Di fatto, il costo-standard non costringe l’ospedale crotonese a spendere gli stessi soldi, per la stessa operazione, spesi dall’ospedale di Bolzano, ma, essendo un coefficiente teorico ed astratto, determina soltanto il “limite massimo” di spesa, per la sanità di ogni regione, e per ogni macro-categoria di assistenza. E’ quindi soltanto la “chiave di riparto” dell’ammontare complessivo del Fondo Sanitario Nazionale (i famosi 109,9 miliardi per il 2014) fra le Regioni italiane.
Ora, poiché tale chiave di riparto è basata sulle tre regioni che spendono di meno (Umbria, Veneto ed Emilia) essa penalizza, in termini di risorse, i sistemi sanitari delle Regioni del Mezzogiorno, che costano di più, sia per pregresse inefficienze gestionali, sia per motivi oggettivi (per esempio, una regione montuosa e con un modello abitativo molto sparso sul territorio, come il Molise, l’Abruzzo o la Basilicata, spende più soldi, a parità di efficienza, perché deve erogare servizi sanitari su un territorio più difficile, dove i collegamenti sono meno agevoli di quelli di una regione perlopiù pianeggiante, e bene dotata in termini di infrastrutture, come l’Emilia).
In sostanza, con i costi standard, il cittadino meridionale paga, in termini di minori risorse assegnate alla sua Regione, e quindi di minor livello di erogazione di servizi sanitari e/o di ticket sanitari più salati, l’inefficienza gestionale o i problemi strutturali del suo territorio. Con il risultato paradossale che i sistemi sanitari più obsoleti, che richiederebbero più risorse, ovvero quelli del Sud, si vedono tagliare le risorse, che vanno a quelli più attrezzati e moderni del Centro Nord. Non a caso la battaglia dei costi standard è stata fatta dai leghisti: sposta molti miliardi dalla sanità delle regioni meridionali a quella delle regioni settentrionali. Che poi il Patto della Salute preveda qualche “alleggerimento” nel calcolo di tali costi (per cui si deve tener conto del trend di miglioramento di conti conseguito dalle regioni in rosso, o di nuove pesature) l’effetto di disequilibrio territoriale non cambia di molto.
A fronte della sperequazione territoriale, non c’è alcuna volontà di correggere quella sociale. Si prevede, in astratto, e con una formula propagandistica e non tecnica, di rendere l’accesso alle cure universalistico ed equo. Ma la revisione dei ticket deve avvenire a parità di gettito per le regioni. Il che si traduce a fronte di un calo del reddito medio dovuto alla crisi, in un aumento dell’incidenza dei ticket sul reddito degli italiani. Alla faccia dell’universalismo.
Allora: il Patto per la Salute disegna un futuro di risorse finanziarie incerte, legate agli obblighi europei, e sperequate territorialmente. Ma non basta. Dietro autentiche fuffe disorientanti come l’umanizzazione delle cure, ed altre sciocchezze propagandistiche, non si procede ad aggiornare i livelli essenziali di assistenza, fermi al 1999. Privandosi quindi dello strumento fondamentale per ripartire in modo omogeneo il servizio minimo essenziale su tutto il Paese. Si ridisegna tutto il sistema dell’assistenza, con il chiaro obiettivo di ridurre l’ospedalizzazione ai soli casi di acuzie, tramite presidi territoriali, che prendono in carico sia l’assistenza di medicina generale, sia i casi di ricoveri “inappropriati” (cioè persone che potrebbero essere seguite a casa, ma che non hanno un ambiente domestico idoneo) che quella specialistica, riferita ai malati cronici. Destando enormi preoccupazioni circa la possibilità di mantenere una qualità, nei servizi specialistici, specificamente per i cronici, pari a quella che gli ospedali possono garantire. Preoccupazioni che non vengono certo dissipate dal Patto per la Salute, che non fissa alcun obbligo di qualità minima per tali nuovi presidi territoriali (e d’altra parte, per farlo, non dispone nemmeno dei LEA) rinviando il tutto a futuri accordi.
La riorganizzazione taglia via i dipartimenti per la prevenzione sulla salute alimentare, sostituendoli con fantomatiche strutture operative complesse (in pratica accorpandoli e tagliandoli) in modo tale che lo stesso piano di prevenzione, pari a 440 milioni di euro (una inezia, rispetto alla spesa per prevenzione fatta da altri Paesi europei) perderà efficacia con rispetto alla sicurezza alimentare. Il nostro Governo continua così, pervicacemente, a non voler investire in prevenzione, nonostante il fatto che tale investimento comporti un risparmio pari a tre euro per ogni euro speso.
E per finire, la riorganizzazione, per venire incontro ai privilegi dei baronati medici, preserva lo scandalo dell’intramoenia (prevedendo semplicemente il passaggio all’attività ordinaria, svolta in uno spazio ospedaliero, e non presso lo studio del professionista) mentre, d’altra parte, si prevede di “valorizzare” le professionalità, “senza maggiori oneri carico del bilancio”. Di fatto, si prevede di mandare a casa le migliaia di lavoratori precari del settore infermieristico.
La riorganizzazione prevede poi un potenziamento delle attività valutative, mirato però sempre e soltanto ai tagli, e non alla qualità della prestazione. Un caso su tutti è sconvolgente. Il Prontuario dei farmaci che vengono “passati” dal Ssn dovrà essere filtrato attraverso il criterio del rapporto fra costo e beneficio, con la conseguenza, teorica, che un farmaco per una malattia relativamente rara, considerato troppo costoso rispetto al beneficio di curare poche decine di pazienti, potrebbe diventare a pagamento, e quindi proibitivo per i pazienti stessi. Raggiungendo lo spettacolare risultato, anche in termini etici, di dare un valore di mercato alla salute ed alla vita. E la conseguenza non è tanto “teorica”: la revisione del prontuario, con il criterio costi/benefici, deve avvenire “senza maggiori oneri per la finanza pubblica”, quindi non sarà possibile inserire nuovi farmaci, senza averne cancellati altri, magari ancora utili.
In sostanza, un Patto per la Salute iniquo, incerto nelle risorse, che non smantella privilegi ed inefficienze, che non migliora la qualità del servizio, ossessivamente preoccupato da esigenze di austerità finanziaria, fatte pagare ai cittadini ed alle categorie più deboli dei lavoratori del servizio sanitario. Una riforma di destra.