La pubblica opinione, la società civile, quel luogo indistinto nel quale aspiranti manager di sé stessi sgomitano per l’accesso al gotha delle classi parlanti, teoriche dell’indignazione compulsiva teleguidata, si indispettisce perché la classificazione Bene/Male, Buoni/Cattivi non viene sempre recepita con generale ossequio.
Ci ammonisce sul pericolo dittatura per tutto quello che non è commercio, mercato, individualismo competitivo. E ci consiglia guerra per difendere con le armi il nostro piccolo cespuglio di libertà artefatta.
In un supermarket di Pescara le dipendenti sono state costrette a spogliarsi per dimostrare l’assenza del ciclo mestruale di fronte alla richiesta della direttrice. “Voglio i nomi di chi ha il ciclo”. Da qualche tempo qualcuno ha fatto notare l’assonanza tra il nuovo liberalismo autoritario e il fascismo. Questa contiguità parte dal mondo del lavoro, dal modo di concepire le relazioni di forza all’interno dei posti di lavoro. L’idea che un impiego sia una concessione, un atto di filantropia, porta a disumanizzare gli individui.
La vulgata secondo la quale ogni incarico rappresenti una sfida mai agganciata al diritto al salario, al futuro, alla sicurezza; le ramanzine delle star che rimproverano i giovani sull’assenza di coraggio, sulla pigrizia che non accetta sacrifici, sono già, fascismo. Solo che nell’immaginario collettivo questo fascismo è accettato. Non si presenta in camicia nera, assume le pose di un progressismo civilizzante.
Quando un supermarket si trasforma in un lager, dove i corpi sono annientati, umiliati e offesi in nome del decoro, siamo già in guerra. Perché la concorrenza, lo spirito etico della concorrenza è grammatica di guerra.
Infatti questo capitalismo predatorio, intriso di retorica ultimativa, ci manda in guerra. Perché ci ha abituato all’oppressione. Che da trent’anni almeno viene chiamata progresso.