Da ormai più di un ventennio si dibatte dell’affermarsi sempre più prepotente del ruolo del Governo nell’asse dell’espressione dei poteri politico-rappresentativi. Alla base di tale assunto c’è la sempre più assidua ambizione dell’esecutivo a farsi “legislatore”, violando più o meno velatamente la lettera della Costituzione che, come noto, affida invece all’organo assembleare la responsabilità del procedimento legislativo e solo eccezionalmente al Governo. Così si esprime, infatti, l’art. 70 della Costituzione secondo cui: «La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere». Riguardo all’eccezione alla regola, questa è invece scolpita negli artt. 76 e 77 che delineano i presupposti del decreto legge e decreto legislativo, atti di normazione primaria, per loro natura eccezionali, di competenza del Governo.
Negli ultimi anni, al contrario, si è assistito ad una prassi cui anche l’attuale Governo non accenna a sottrarsi: la frequenza con cui vengono presentati decreti legge e leggi di delega, così da investire il Governo di un ruolo cardine nell’attività legislativa. Da qui il nascere di espressioni tra cui “governo legislatore” molto efficaci nel caratterizzare l’evoluzione in oggetto ma di sicuro ossimoriche per la sensibilità dei Costituenti.
Le cause di questo fenomeno per la verità sono molteplici e richiederebbero tutte un esame complesso. Vi è sicuramente alla base una più generale crisi del modello di “legge formale” così come sembrava potersi delineare dall’entrata in vigore della Costituzione, di quell’idea della legge onnipotente e di derivazione rivoluzionaria in grado di regolamentare ogni aspetto della società, di poter far tutto “tranne che trasformare una donna in un uomo e un uomo in una donna” (cit. Delolme). Ed alla base vi è stato anche il progressivo frazionamento dei processi decisionali e la complessità dei centri ad essi deputati che sono andati moltiplicandosi nel corso dei decenni. E vi è anche una certa necessaria velocità negli stessi processi decisionali causati da circostanze emergenziali (più o meno effettive) di varia natura cui spesso, si dice, la legge parlamentare non riuscirebbe a far fronte. A ciò si aggiunge certamente la crisi del partitismo così come lo abbiamo conosciuto nel corso della c.d. “Prima Repubblica” che esaltava il ruolo dei gruppi parlamentari.
Oggi sembra invece che quella idealizzazione della legge di origine parlamentare sia venuta meno ed assieme ad essa la perdita di centralità dell’organo assembleare.
E’ di tutta evidenza, infatti, come una significativa evoluzione nell’impianto delle fonti in cui spicca l’utilizzo dei decreti governativi non possa che condurre ad una silenziosa quanto costante evoluzione della forma di governo, cioè del rapporto tra i diversi organi deputati ad esprimere la volontà politica. Ed è ciò che sembra essere accaduto in Italia negli ultimi vent’anni e che, peraltro, anche il processo di riforma costituzionale ancora in itinere sta ratificando, aggiungendo anzi ulteriori elementi di rafforzamento del potere esecutivo e della figura del Presidente assieme ad una correlata esautorazione dell’organo assembleare.
Ma vediamo, per sommi capi, se ed in che misura l’attuale Governo ha seguito quella prassi di “legiferare” svuotando il Parlamento della sua funzione principe.
Da un’analisi di quella che è la produzione normativa primaria, infatti, si nota come l’utilizzo dei decreti sia uno dei tratti distintivi di questo Governo. Per onestà di cronaca, l’utilizzo dei decreti quale modalità pressochè ordinaria di legiferare è stata tipica anche di molti governi precedenti e va detto che si è assistito ad una diminuzione quantitativa dei decreti nel corso dell’attuale esperienza di Governo. Tale diminuzione non è stata, tuttavia, molto significativa se è vero, com’è vero, che alcuni organi istituzionali considerati per Costituzione (Presidente della Repubblica) o per prassi (Presidente delle Assemblee legislative) super partes hanno espresso, sia pur con interventi di stampo meramente persuasivo, molti dubbi sull’abuso che lo stesso Governo Renzi ha fatto del decreto legge.
Il Presidente Napolitano da ultimo nella cerimonia dello scambio di auguri di Natale del 16/12/14 aveva espresso la speranza che attraverso le riforme in corso si avesse «il recupero dell’agibilità e della linearità perduta del processo legislativo, da anni degradatosi qualitativamente e degenerato fuori di ogni correttezza costituzionale. Mi riferisco ovviamente all’abuso della decretazione d’urgenza, al ricorso – per la conversione dei decreti – a voti di fiducia su abnormi maxiemendamenti, e anche al fenomeno di ostruzionismi ambiguamente rivolti a compromessi lesivi della chiarezza delle norme e della coerenza dei testi di legge che ne risultano». Del resto, anche nel suo discorso di insediamento l’attuale capo dello Stato Mattarella (già giudice costituzionale) aveva parlato dell’abuso di questo strumento segnalando la necessità di un rafforzamento del ruolo del Parlamento: «vi è anche la necessità di superare la logica della deroga costante alle forme ordinarie del processo legislativo bilanciando l’esigenza di governo con il rispetto delle garanzie procedurali di una corretta dialettica parlamentare». Sensibile all’abuso di decretazione è stata la Camera dei deputati la cui Presidente in carica, on. Boldrini, ad ottobre 2014 aveva inviato una lettera alla Presidenza del Consiglio invitando il Governo ad auto-limitarsi. Nella stessa risposta formale al Presidente della Camera dei deputati Il Presidente del Consiglio Renzi difendeva l’uso del decreto legge attribuendosi il merito di aver circoscritto già il potere governativo di far uso della decretazione d’urgenza e riconoscendo, d’altro canto, che «il decreto legge rappresenta talvolta l’unico strumento di cui il governo dispone per intervenire con tempestività su temi caratterizzati dai requisiti della necessità ed urgenza, che sono tanto più frequenti nel contesto dell’attuale contingenza economico-finanziaria».
Ovviamente più incisivo, in ragione dei poteri di giudice delle leggi che le sono conferiti, è il sindacato della Corte Costituzionale che già in passato aveva, a più riprese, stigmatizzato l’abuso della decretazione d’urgenza svolgendo spesso uno scrutinio molto penetrante soprattutto in merito ai presupposti giustificativi dello stesso: i “casi di straordinaria necessità e urgenza” che consentono al Governo di derogare alla competenza legislativa del Parlamento. La Corte Costituzionale è, tuttavia, un giudice ed in quanto tale è preposto a giudicare la singola controversia e dunque la carenza o meno dei presupposti della decretazione di urgenza in quel singolo caso. Sfugge alla sua analisi, anche per limiti connaturati alla sua funzione, un giudizio complessivo e sistematico sui rapporti, anche di tipo quantitativo, tra decreti governativi e legge parlamentare e dunque sulla violazione dello spirito della Costituzione.
Pur con tali limiti la Corte non ha mancato, a più riprese, di censurare in passato l’abuso dei decreti legge e la reiterazione degli stessi e in una celebre sentenza (n.171 del 2007) ha anche rimarcato lo strettissimo legame tra le fonti di diritto e la forma di governo: «…Negli Stati che s’ispirano al principio della separazione dei poteri e della soggezione della giurisdizione e dell’amministrazione alla legge, l’adozione delle norme primarie spetta agli organi o all’organo il cui potere deriva direttamente dal popolo».
Una considerazione per certi aspetti simile la Corte ha riservato alla legge di delega che prevede, come noto, a valle un intervento del Governo con l’approvazione del decreto legislativo di attuazione. Qui la Corte ha spesso censurato i decreti governativi per avere travalicato la delega affidatagli dal Parlamento e, talvolta, (sentenza n.280/’04) anche la stessa legge di delega parlamentare per indeterminatezza dei principi.
Nonostante le indicazioni più o meno sanzionatorie degli organi costituzionali chiamati a vario titolo ad intervenire sui processi legislativi, i governi hanno continuato ad agire alternando l’abuso della decretazione d’urgenza con quello dei decreti legislativi.
Dall’esperienza del Governo Renzi, in particolare, si rinviene un dato molto preoccupante che attiene proprio alle materie che sono state oggetto di decreti legge o decreti legislativi.
Da uno sguardo d’insieme, infatti, notiamo come intere riforme organiche che investono diritti costituzionali abbiano beneficiato di tali procedure. Si pensi, per esempio, alla riforma della scuola (c.d. “buona scuola”) che ha visto addirittura un doppio binario costituito da un decreto legge e da una legge di delega con successivo decreto legislativo. Per la buona scuola è lecito porsi il dubbio sui problemi di legittimità che il carattere estremamente ampio e generico della delega affidata al Governo pone in settori cruciali come il sostegno al diritto allo studio (c.d. “delega in bianco”) E si pensi al job acts, materia quanto mai complessa e per la quale si sono posti, anche qui, dei forti dubbi sul carattere della delega legislativa affidata al Governo. Così come la recente normativa sulle intercettazioni, anche questa tramite l’utilizzo di una legge delega particolarmente ampia a favore del Governo. Ma si pensi anche a riforma passate forse in secondo piano ma non per questo meno rilevanti quali la riforma delle banche popolari, passata, quest’ultima, attraverso decreto legge.
Dunque, è la qualità ed il peso specifico delle materie ricadenti nella tutela dei diritti costituzionali che pone più di un dubbio di legittimità o quantomeno di opportunità costituzionale del mezzo giuridico utilizzato dal Governo Renzi.
Ciò che si evidenzia da una lettura dei dati concernenti il Governo Renzi è poi un ulteriore aspetto che in parte si interseca con quello già visto, in parte coinvolge il procedimento ordinario di approvazione parlamentare ma come il primo fenomeno analizzato conduce allo stesso esito: progressivo svilimento dell’aula parlamentare. Il Governo Renzi infatti si caratterizza, in peggio rispetto a quelli precedenti, per l’accentuata distorsione dell’istituto del voto di fiducia. Questo strumento, che per dettato costituzionale presiede al fine di compattare la maggioranza oggi è utilizzato in maniera abnorme al fine unico di troncare sul nascere ogni discussione parlamentare bloccando gli emendamenti.
I dati dicono che il Governo Renzi ha utilizzato lo strumento del voto di fiducia per più del 50% delle leggi approvate in sede parlamentare. Se poi si sottraggono i dati relativi alla ratifica dei Trattati internazionali che hanno uno scarso peso politico, scopriamo come il voto di fiducia sia stato utilizzato dal Governo Renzi per blindare i testi di leggi per più del 70% dei casi. Ed è degno di nota come la questione di fiducia sia stata posta anche sulla legge elettorale, il che rappresenta un’anomalia di indubbio rilievo: solo una volta si era osato tanto nella storia repubblicana essendo la legge elettorale un tassello importantissimo delle “regole del gioco”, dovrebbe essere espressione di una condivisione ampia di tutti i giocatori o, quantomeno, di un dibattito ponderato in seno all’aula assembleare. Ed è singolare constatare come la stessa percentuale delle questioni di fiducia sia quasi (proporzionalmente al periodo di durata dei governi) il triplo di Governi piuttosto deboli da un punto di vista delle maggioranze politiche alcuni dei quali poggiavano sui voti determinanti dei senatori a vita (ultimo Governo Prodi) o superiore a quello dei Governi Berlusconi da molti osservatori considerati ironicamente una sorta di riedizione del bonapartismo proprio in funzione della progressiva marginalizzazione dell’assemblea parlamentare.
A conclusione di queste brevi riflessioni va evidenziato come l’opzione tra attività legislativa di tipo governativo e parlamentare non è certo questione di poco conto ma riflette una precisa scelta sistematica dei Costituenti che lega indissolubilmente la regola dell’art. 70 con l’art. 1 della Costituzione secondo cui, come noto, «la sovranità appartiene al popolo». E’ proprio nel confronto assembleare che il mandato popolare si dovrebbe esprimere ed è lì che dovrebbe avvenire la composizione ed il bilanciamento dei diversi interessi contrapposti, specie in una società che si è andata sempre più frammentando. Ed il Governo non solo non è in grado di esprimere tale complessità poiché espressione di una sola parte politica ma non è neanche in grado di “rappresentarla”, cioè di rendere visibile all’esterno le differenti posizioni poiché la regola che lo governa è diametralmente opposta a quella che ispira la normativa parlamentare in cui prevale la trasparenza rispetto alle posizioni individuali e collettive e la pubblicità delle sedute.
Ed è forse da una logica di valorizzazione delle assemblee, che riflette a sua volta una corretta definizione dei diversi interessi, che si sarebbe potuto partire al fine, per esempio, di operare una riforma dei regolamenti parlamentari che potesse coniugare democraticità e rappresentanza da un lato e necessaria snellezza procedurale dall’altro.