“Lo Stato deve essere ridotto alla forma più semplice. Esso deve avere un buon esercito, una buona polizia, un ordinamento giudiziario che funzioni bene, fare una politica estera intonata alle esigenze della nazione: tutto il resto deve essere abbandonato all’attività privata.” La frase non è stata pronunciata da un vecchio signorotto liberale, tutto decoro e commercio sapiente, bensì, senza che nessuno si sorprenda, da Benito Mussolini, appena prima di marciare su Roma, durante un battibecco con il consunto Giolitti. Certo poi da Duce non mantenne in pieno le promesse, un po’ anglofone come spirito, per ricercare, con altri mezzi, la protezione del capitale dalle minacce pianificatrici del socialismo.
Il fascismo, quindi, nelle sue intenzioni, aveva un approccio laico riguardo il ruolo dello Stato. Mastodontico l’apparato per ciò che concerne la promozione culturale e il monopolio della forza, ma snello quando si trattava di affari. Forse per questo motivo la sua affermazione non lasciava insonni l’Inghilterra e gli Stati Uniti, con i loro Governi così attenti nel non mostrare insofferenza per l’Italia fascistizzata. In fondo al tunnel della soppressione democratica, si poteva trovare la luce, tanto vitale per i liberali, della spoliticizzazione dell’economia.
Qualche anno più tardi, nella Germania Hitleriana, giuristi ed economisti, di regime e non, si interrogavano sulla fallacia del modello liberale delle origini, nella critica a ciò che risultava loro davvero intollerabile. Il sistema della democrazia di massa, spinta dalle conseguenze nefaste della Grande Guerra, tutte dazi e suffragio universale, aveva imbarbarito gli Stati Uniti con il suo New Deal. L’antidoto, per Eucken e Bhöm incipriati dall’autorevolezza di Carl Schmitt, si trovava nel concepire una Costituzione economica equivalente a quella politica ma, nella sostanza, destinata a svuotare di senso la seconda. Mai più Stato minimo, ma intervento attivo dei Governi a tutela della concorrenza. La Germania post-nazista si diede una lucidata su queste basi dottrinarie.
Sempre in quegli anni, altri filosofi dei mercati, in realtà poco inclini nello studiare numeri ma più rigorosi nel concepire una teoria organica delle istituzioni post-imperiali, sentimentalmente vedovi dell’espansione Asburgica così razionalmente cosmopolita, si spingevano ancora più il là. Ciò che conta è assicurare che il flusso dei capitali scorra senza ostacoli e che lo Stato non si lasci ricattare dalle pulsioni particolaristiche del popolo, magari con la poco raziocinante piena occupazione. Hayek, von Mises, Robbins, Röpke delinearono un doppio binario. La democrazia nazionale si manteneva a livello ornamentale, mentre organi sovranazionali inchiodavano le scelte di politica economica al pilota automatico.
La democrazia, quindi, non era una preferenza idealistica, ma una semplice comodità funzionale. Il suffragio universale avrebbe, nei limiti della gerarchia economica, evitato il nascere di fastidiose rivolte. Ma se la democrazia avesse accentuato il proprio carattere popolare ecco che allora una dittatura liberaleggiante si sarebbe fatta preferire. L’importante era sconfiggere l’influenza delle masse popolari organizzate. Le quali o venivano assorbite spontaneamente dal sistema o potevano essere tranquillamente perseguitate da un autoritarismo feroce ma economicamente libertario.
Bisogna comprendere che sul pensiero di questi demiurghi del neo-liberalismo, si è costruita tutta l’architettura istituzionale della globalizzazione dei mercati, in parte fedele all’anarco/capitalismo americano ma soprattutto ligia nel rendere fattuali le idee post-democratiche dei suoi vecchi sacerdoti europei. Il Cile di Pinochet fu l’occasione d’oro per sperimentare questo nuovo sentimento élitario, dove privatizzazioni selvagge e pareggi di bilancio accompagnavano, senza paracaduti, i lanci degli oppositori politici dagli aerei in volo sull’Oceano. Pochi anni dopo arrivarono la Thatcher e Regan a condire le liberal -democrazie con salse anti-popolari.
Ma perché questo autoritarismo liberale fosse accolto con entusiasmo dalle masse, occorreva renderlo allettante. Una spoliticizzazione così capillare della società non avrebbe mai potuto affrancarsi dalle reminiscenze delle lotte per i diritti. Bastava capovolgere la narrazione. I diritti diventavano privilegi parassitari. Freni tirati all’evoluzionismo individuale che si esaltava nel mercato. In una pedagogia del merito concorrenziale che delineava un nuovo popolo eletto, non più ingraziato dai tratti somatici razziali ma reso unico dalle capacità manageriali. Chi dimostrava di non sapersi spendere nella lotta quotidiana per la sopravvivenza era chiamato fuori dalla democrazia.
Quel popolo eletto poteva crogiolarsi nel pretendere il diritto ad avere diritti soggettivi, in un’esaltazione capricciosa della libertà, dove la libera scelta diventava esercizio di crescita personale ma che contemporaneamente giustificava il giudizio di indegnità per i deboli. Con questo stratagemma la discorsività fascista tornava ad emanciparsi come buon senso comune ma slegata dal moralismo conservatore dei tempi andati, tutto onorabilità, decoro e manganello. Il disprezzo per le classi popolari assumeva un contorno progressista e le campagne di rieducazione ingentilite da un parsimonioso anelito di civilizzazione paternalista.
Essenziale far dissolvere a quel punto qualsiasi riferimento storico al fascismo di un tempo. Perché nella crisi della globalizzazione quella forma di autoritarismo avrebbe potuto tornare ad essere pietanza commestibile. Il rischio di rivivere pulsioni solidaristiche, nell’alveo delle democrazie a capitalismo avanzato, doveva essere stroncato sul nascere, con le buone o con le cattive. Occorreva una grande operazione culturale. Il fascismo è stata una dittatura come le altre. Equiparabile al comunismo per esempio. I connotati delle dittature si misurano sull’espansione dei diritti civili e sul libero commercio. Tutto ciò che rievocava, secondo le linee guida del sogno manageriale, una postura arcaicizzante era di per sé totalitario.
Il regalo confezionato per le masse era un darwinismo rammodernato, rilevabile a suon di benchmarking. Chi non osa sfidare la performance e quindi sé stessi, non possiede alcuna cittadinanza. Questo tipo di approccio all’esistenza è facilmente trasportabile verso una furia bellicista. Da crociata contemporanea. E verso valori consoni all’autoritarismo anonimo dei poteri senza volto delle super conventicole internazionali. Un fascismo che perde quella ritualità dei gruppuscoli nostalgici ma che si riaffaccia in una veste ragionevole. Liberalismo e fascismo, come avvenne nel secolo scorso, trovano un punto di equilibrio, ancor più insidioso di quello precedente. Perché declinato in senso progressista ed evolutivo. Difendere con le armi la società aperta e proteggere i mercati dalla democrazia. Una storia lunga che in Ucraina ha trovato i propri eroi da consegnare a una nuova epica mistica. La svastica è il simbolo del sole.