Veniamo a sapere che, nonostante gli immani sacrifici delle politiche austericide, messe in campo da Monti in poi (anzi, già l’ultimo Tremonti prefigurava le prime misure di smantellamento della spesa pubblica) il debito pubblico aumenta costantemente. Evidentemente non si tratta di un destino cinico e baro. Ma di una precisa, e semplice, legge dell’economia. Il debito pubblico è alimentato dal disavanzo (spese pubblico – entrate fiscali e di altro tipo – da dismissioni di beni, ecc.). Il disavanzo è legato al ciclo economico: se il ciclo è recessivo, le entrate fiscali legate al reddito ed ai consumi diminuiscono, mentre le spese per “stabilizzatori automatici” (indennità di disoccupazione, cassa integrazione, ecc.) aumentano.
C’è un parametro statistico, chiamato “moltiplicatore fiscale”, che evidenzia l’effetto numerico del ciclo economico sui conti pubblici. Più bassi sono i moltiplicatori, meno negativi gli effetti dell’austerità. Le politiche di compressione dei deficit decise dall’Europa poggiano sull’ipotesi che i moltiplicatori fiscali siano attorno allo 0,5%. Viceversa, i dati ci dicono che tale moltiplicatore, per l’Italia, si colloca fra l’1,5 e i 2,2 punti (come mostrano i dati ufficiali del Governo relativi alla differenza fra deficit complessivo e deficit strutturale, ovvero il deficit “ripulito” dagli effetti del ciclo economico e di misure una tantum).
Evidentemente, con moltiplicatori fiscali così alti, molto più alti delle stime ufficiali, gli effetti sulla crescita di politiche di riduzione del deficit sono molto più ampi, e distruttivi, e, parallelamente, gli effetti sui conti pubblici di una crescita negativa del PIL sono molto più disastrosi del previsto. Ecco, semplicemente, il motivo per il quale con una crescita negativa, o stagnante, il debito pubblico aumenta, nonostante le misure di austerità.
In modo più analitico: l’andamento del debito pubblico dipende dalla combinazione dell’andamento di tre parametri:
– Il cosiddetto “saldo primario”, ovvero la differenza fra entrate e spese pubbliche senza considerare la spesa per interessi del debito pubblico;
– L’andamento della crescita del PIL;
– Il tasso di interesse sui titoli del debito pubblico “reale”, ottenuto detraendo dal tasso ufficiale il tasso di inflazione.
Per gli amanti della matematica, tale relazione si esprime nella seguente equazione:
Dove Bt e Bt-1 sono i valori del debito pubblico ai tempi t e t-1, Yt è il PIL (reale, cioè depurato dall’inflazione) al tempo t, i è il tasso di interesse reale sui titoli del debito pubblico, Dt è il disavanzo primario al tempo t.
Ma lasciamo perdere le formule e andiamo alla sostanza. Con i dati più aggiornati, a maggio 2014, del Bollettino Economico della Banca d’Italia, e con una previsione realistica di sostanziale stagnazione del PIL nei primi mesi di quest’anno, abbiamo che il tasso di interesse reale sui titoli del debito pubblico, anche se in notevole riduzione rispetto al 2011, è tornato ad essere positivo (per 0,17 punti) perché il tasso di inflazione si è corrispondentemente ridotto in misura ancor più veloce (nel 2011, il tasso di interesse medio sui titoli del debito pubblico era del 2,79%, ma l’inflazione era del 2,9%, per cui un risparmiatore che avesse destinato parte del suo risparmio su nostri titoli del debito ci rimetteva, incassando, per interessi, meno di quanto quel risparmio si sarebbe eroso, in termini di potere d’acquisto, per via dell’inflazione). A maggio 2014, abbiamo un tasso di interesse medio dello 0,57%, a fronte di un tasso di inflazione sceso allo 0,4%. Quindi adesso il differenziale è diventato positivo. Significa però che le convenienze si sono rovesciate: mentre nel 2011 il Tesoro italiano pagava interessi negativi sui suoi Bot, per cui l’inflazione erodeva una parte dello stock di debito (in altri termini, la parte di tasso di inflazione che superava il tasso di interesse pagato agli investitori andava a ridurre il valore dello stock di debito pubblico), oggi paga interessi positivi, per cui l’effetto erosivo dell’inflazione sul debito non c’è più; viceversa, il pagamento degli interessi va ad accumulare nuovo debito aggiuntivo (necessario per fare fronte a questa spesa di interessi).
In queste condizioni, soltanto per mantenere immutato il debito pubblico, occorre che il saldo primario migliori per circa 700 milioni di euro, il che significa maggiori tasse, minori trasferimenti di spesa ad imprese e famiglie, o una combinazione dei due elementi, che evidentemente non può che avere effetti ulteriormente recessivi sull’andamento del PIL, amplificati da moltiplicatori fiscali che, come abbiamo visto, sono molto maggiori di quanto stimato dalla Trojka. La perdita di PIL, a sua volta, genera un peggioramento del debito, che richiede nuove misure di austerità per migliorare il saldo primario ,e così via in una spirale di recessione e peggioramento del debito virtualmente infinita. O per meglio dire finita: quando il Paese non è più in grado di produrre crescita per pagare quantomeno gli interessi sul suo debito, va in default. Fallisce. Come successo all’Argentina nel 2000-2001. A quel punto, il Governo deve sequestrare la ricchezza privata per pagare interessi e titoli che vanno a scadenza (bloccando i depositi bancari e postali, sottraendo ricchezza immobiliare tramite una maxi patrimoniale, ecc.) e quindi gettando nella miseria l’intera classe media, oppure deve, come si dice, “ristrutturare” unilateralmente il suo debito: prolungarne la scadenza, oppure far digerire agli investitori un taglio del valore del rimborso e/o degli interessi. Con la conseguenza di non essere più credibile sui mercati, e di avere dunque enormi difficoltà a finanziare con debito programmi di rilancio della sua economia. Rischiando al contempo una fuga massiccia di capitali esteri investiti nel Paese, con effetti devastanti sul PIL e sull’occupazione.
Ecco perché, evidentemente, la spirale recessione/debito deve essere spezzata, prima di arrivare al default, invertendo la direzione di marcia delle politiche economiche. Cioè facendo politiche economiche mirate alla crescita del PIL, anche se temporaneamente esse potranno avere effetti negativi sul debito pubblico (che possono essere ridotti con un mix sapiente fra riduzione della spesa pubblica con scarsi effetti sullo sviluppo ed aumento di quella che produce effetti positivi). L’effetto potenzialmente negativo sul debito di tali politiche sarà riassorbito nel medio termine, quando la crescita da esse indotta produrrà un aumento del gettito fiscale sui redditi ed i consumi, ed una riduzione della spesa per stabilizzatori automatici.